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Al-Jazira, fine di un mito?

Fin dalla sua creazione nel 1996, il network al-Jazira e’ divenuto un vero faro d’informazione su tutto quanto succede in nord Africa e nel Medio Oriente allargato fino  a coprire parte del centrasia. Salutata unanimamente come l’inizio di un nuovo e non censurato modo di fare informazione, la tv di al-Jazira in questi anni non solo ha coperto con grande profondita’ e autorevolezza i maggiori eventi accaduti in una vasta e turbolenta area, ma spesso e’ divenuta la “voce dei senza voce” nel mondo arabo, imponendosi come fonte primaria di notizie prima in lingua araba e, successivamente (1996) anche in lingua inglese. Dall’inizio di quest’anno, poi, al-Jazira  ha rafforzato la propria reputazione fornendo un accurato, costante e puntuale resoconto sulle rivoluzioni dal Marocco allo Yemen.

Ora, pero’, al-Jazira sta subendo attacchi per la sua scarsa copertura di quanto sta accadendo nel Golfo, dando poco o nullo spazio alle proteste in Oman, Arabia Saudita, Emirati: inoltre, mentre nel caso di Tunisia e Egitto, al-Jazira ha chiaramente preso le parti dei dimostranti anti regime, nella sua  relativamente scarsa copertura dei continui e gravi incidenti in Bahrein, la tv araba s’allinea con il regime.

La ragione di tutto cio’, secondo le critiche di alcuni osservatori e blogger soprattutto arabi, sta nel fatto che al-Jazira e’ una emittente del Qatar, con il cui governo collabora strettamene e dal quale riceve supporti di vario genere. Anche senza le indiscrezioni di Wikileaks, che peraltro ha rivelato come al-Jazira sia considerata  “strumentale per l’influenza del Qatar” , e’ chiaro come il network sia legato al regime di Doha, dove al-Jazira ha la propria base operativa. E cosi’, mano a mano che la protesta si avvicina al Qatar e ai suoi alleati. al-Jazira allenta la propria copertura.

Bisogna ricordare che, pur protestando la propria indipendenza, al-Jazira e’ un’emanazione dell’organizzazione dei media del Qatar controllata da un cugino dell’emiro regnante, Khalifa al Thani, e che quest’ultimo fa parte della cricca delle monarchie del Golfo che stanno serrando i ranghi contro il vento della rivoluzione dei loro stessi cittadini che reclamano democrazia e riforme.

Alro elemento di protesta contro al-Jazira e’ il suo ruolo nella campagna anti Gheddafi: il Qatar e’stato il primo stato arabo a essere direttamente coinvolto nelle operazioni contro il colonnello, e nella sua copertura della guerra in Libia, al-Jazira si schiera apertamente contro il regime di Tripoli, fornendo cosi’ un’esplicita approvazione ad una campagna che moltissimi arabi disapprovano.

Fine di un mito, quindi? Certo ancora no. Al-Jazira rimane comunque un’affidabile fonte di riferimento, ma il rischio di accuse per il suo approccio “double standard” e’ alto. Al-Jazira non puo’ giustificare la sua scarsa informazione sul Bahrein con il pretesto di non aver avuto l’autorizzazione dalle autorita’ locali (ricordiamo che Bahrein e Qatar sono stretti alleati!). Quando, infatti, Mubarak tento’ di bloccare le trasmissioni, al-Jazira non cedette e continuo’ i suoi reportage 24 ore al giorno da piazza Tahrir. Ora gli arabi, e non solo loro, si aspettano che al-Jazira faccia altrettanto con le proteste che si moltiplano negli stati del Golfo.

Le “illuminate” monarchie del Golfo si organizzano contro il vento della democrazia

Leggi il mio art. pubblicato sul Giornale di Brescia 14/5/2011

La decisione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), organismo che riunisce i maggiori stati monarchici del mondo arabo, di inglobare anche i due rimanenti regni (Marocco e Giordania) non giunge inaspettata: si tratta di un’ennesima manovra strategica con la quale i paesi conservatori stanno tentando di arginare il vento della rivoluzione che serpeggia fra il versante arabo del Mediterraneo. Creato nel 1981 quale coalizione volta ad arrestare la possibile espansione della Rivoluzione Iraniana, il CCG si configura come un patto economico, ma pure di alleanza e sicurezza fra i principali paesi del Golfo. Fino a poco tempo fa il CCG poteva contare sull’appoggio esterno di Egitto e Siria, ma i recenti avvenimenti hanno ribaltato lo scacchiere politico d’entrambi i paesi: se la dipartita di Mubarak ha, infatti, privato il CCG di un fedele alleato, la pericolosa vicinanza del regime di Damasco con quello di Tehran inquieta le ricche monarchie che temono l’allargarsi delle presenza iraniana in Medio Oriente. Ecco quindi che la Giordania e pure il geograficamente lontano Marocco potrebbero rimpiazzare i due perduti alleati, entrambi governati da monarchie al momento stabili. Secondo i CCG, infatti, non c’è da fidarsi del modello di “leadership militare repubblicana” rovinosamente caduto in questi ultimi mesi, meglio affidarsi a monarchie “illuminate” (!). Certo neppur le nuove entrate possono far fronte alla potenza di fuoco iraniana, neppure se questa viene tenuta lontana dal raggiungere gli obiettivi nucleari, ma il CCG confida nell’appoggio esterno degli Stati Uniti, impegnati a difendere anche un singolo paese membro del CCG che venisse attaccato dall’esterno. Gli stati del Golfo non amano neppure l’Iraq condotto dal premier Nouri al Maliki con la sua maggioranza sciita, ma è soprattutto l’Iran che temono, tanto d’aver ingaggiato una “proxy war” in Bahrein, mandando un cospicuo numero di soldati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati proprio per frenare l’avanzata iraniana. Che l’Iran abbia interesse per il Bahrein, paese a maggioranza sciita, è indubbio, ma è altrettanto indubbio che i membri del CCG stiano lavorando per propagandare la rivolta in Bahrein come una questione religiosa fomentata da Tehran, mentre invece i bahreiniti stanno lottando per ottenere libertà e democrazia in un regime autoritario e obsoleto. Ma altrettanto inquietante è la minaccia interna: le rivoluzioni tunisina, egiziana, siriana, yemenita non sono passate inosservate fra i giovani del Golfo: certo, questi ultimi non hanno soverchi problemi economici, ma ora sognano democrazia e libertà, prerogative che i loro genitori non hanno perseguito perché si sono trovati sbalzati da capanne di pastori e pescatori ai lussuosi grattacieli coabitati da celebrità internazionali. Ora i giovani del Golfo si stanno organizzando in riunioni segrete o tramite i social network e chiedono partecipazione sociale, una maggiore trasparenza sul modo di impiegare le risorse del maggior polo mondiale per le esportazioni petrolifere, un parlamento che sia espressione della volontà popolare. Solo per aver organizzato qualche assemblea all’università lo scorso aprile alcuni studenti sauditi e degli emirati sono stati arrestati, passando dalla gabbia dorata dei grattacieli costieri alle poco ospitali prigioni di stato. Ma la parola “dignità” in arabo ha recentemente assunto nuovo significato e sarà difficile chiudere tutte le bocche che vogliono pronunciarla.

Un primo risultato positivo per le egiziane

Finalmente il 2 maggio scorso governo egiziano ha riformato la legge secondo la quale le egiziane maritate a un palestinese non potevano trasmettere la propria cittadinanza ai figli, che si vedevano cosi’ esclusi dai diritti basilari quali quello all’istruzione o alla sanita’ pubblica. La campagna per il mantenimento della cittadinanza delle donne sposate ad uno straniero e’ trasversale a molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, ma non e’ casuale che le egiziane abbiano ottenuto tale successo dopo aver organizzato una serie di proteste e sit-in in piazza Tahrir. Ancora una volta cio’ dimostra come spiri un vento nuovo nel bacino del Mediterraneo meridionale e orientale e come le societa’ civili dei paesi coinvolti lottino per democrazia e diritti, fuori da ogni cornice ‘religiosa’.

Fiere del libro e politiche culturali

Contemporaneamente alla Fiera del Libro di Torino si sta svolgendo l’analoga manifestazione a Tehran, una della maggiori d’Asia per importanza e partecipazione.  L’afflusso di pubblico e’ impressionanante, tanto da attirare pure, da qualche anno, una sempre piu’ nutrita partecipazione internazionale. Vi sono molti editori stranieri, soprattutto dal mondo anglosassone, che partecipno a titolo privato, ma vi sono anche espositori ufficiali da realta’ vicine (Afghanistan, Armenia, Turchia) nonche’ da aree piu’ remote. Se la presenza di paesi  quali la Cina, la Sierra Leone, il Brasile e la Bosnia testimoniano le piu’ o meno recenti amicizie tra queste nazioni e l’Iran,  i padiglioni di Francia, Svizzera e quello della Buchmesse di Francoforte fanno risaltare ancor piu’ la malinconica assenza di uno italiano. Certamente non possiamo competere con l’interesse suscitato fra i giovani iraniani dalle pubblicazio tecnico/scientifiche di Elsevier o dalle edizioni Springer; ma la nostra letteratura e’ assai amata sull’altopiano, prova ne sono le numerose traduzioni in persiano di Calvino, Buzzati, Silone  e di altri grandi letterati nostrani. La nostra assenza da questa importante manifestazione non fa che sottolineare una certa nostra provincialita’ nonche’ l’eterna mancanza di lungimiranza, non solo culturale.

Bin Laden, mito e realtà

L’eco dei commenti sull’uccisione di Osama Bin Laden non solo non si è ancora spenta, ma sembra alimentarsi di nuovi particolari che quotidianamente invadono i nostri mass media, rubando spazio ad avvenimenti ben più cruciali, quali, ad esempio, quelli che continuano a sostenere le rivolte in nord Africa e nel Medio Oriente. Le esagerazioni che hanno contornato Bin Laden da vivo continuano pure ora che è morto, alimentandone il mito: se prima era stato trasformato da Bush & Co. quale “uomo nero” per eccellenza, ora si continua ad attribuirgli un potere che eserciterebbe dalla tomba, promuovendone il fantasma per tenere viva l’ostilità tra occidente e mondo islamico, e, di conseguenza, lo stato di allarme (con tutto ciò che ne consegue). Incuranti del fatto che il modello di Bin Laden ha in realtà avuto ben pochi epigoni (ora si è addirittura coniato il termine di “terrorismo in franchising” per le cellule terroristiche che hanno agito ispirandosi ad al-Qaeda), si continua ad agitarne lo spettro (è il caso di dirlo!) attribuendogli un ruolo più o meno diretto anche nelle rivolte ancora in corso nel mondo arabo, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, e neppure con movimenti ispirati dall’ “islam politico”.

L’uccisione di Bin Laden è avvenuta mentre le popolazioni arabe (e non solo) chiedono libertà, democrazia, giustizia, sottolineando piuttosto come queste richieste siano in contrasto con l’opera e il pensiero del leader di al-Qaeda. Ma ammettere una tale lampante verità porterebbe, fra le varie conseguenze, una riflessione sull’inopportunità delle campagne belliche di questi ultimi dieci anni, dall’Afghanistan alla Libia, passando per l’Iraq ed una maggiore attenzione per quanto sta accadendo dal Marocco all’Asia centrale.

Una riflessione su Marrakesh e il tentativo di negare l’esistenza della “società civile” nei paesi arabi

Il terribile attentato a Marrakesh è arivato come una benedizione per leader politici di differenti parti del mondo arabo in rivolta, dal presidente siriano Bashar al Assad a quello yemenita Abdullah Saleh, dai generali egiziani al sovrano bahrenita al Khalifa: ovvero a tutti coloro che pensano di poter continuare a governare i rispettivi paesi sparando sui propri cittadini che manifestano per vedere riconosciuti alcuni diritti fondamentali, solo perché si pongono quale “argine” ai fondamentalismi religiosi e/o terroristici. L’attentato di al-Qaeda, o dei suoi accoliti, viene già sbandierato quale prova dell’inevitabilità del loro governo da alcuni di questi leader. Lo spettro della sempre incombente minaccia di un regime islamista viene sempre agitato quale unica alternativa ai loro regimi presuntamente laici, infatti, da più di un leader nell’area, non ultimo dal colonello Gheddafi, che certo non sta dando prova né di buongoverno né di garanzia quale argine ad alcunché.

Le rivolte arabe impongono un doloroso ma inevitabile spargimento di sangue, e nonostante non si possa certo sminuire il loro impatto in termini di vite umane, va altresì riconosciuto il loro positivo dirompente effetto. Vi è un movimento di ampia portata che si dipana dal Marocco all’Arabia Saudita, e i cui attori invocano unanimemente democrazia, libertà, fine della corruzione, parole che hanno lo stesso significato lì come nel mondo occidentale. E i paladini di queste riforme sono i componenti delle società civili dei singoli paesi, quelle stesse società civili la cui esistenza è stata spesso negata pure nei dibattiti fra gli osservatori occidentali che hanno sempre descritto i paesi arabi come entità incapaci di articolare istituzioni politiche indipendenti, se non in termini “religiosi”.

Queste società civili stanno cercando di costruire un ordine politico democratico avulso tanto dalla egemonia dei partiti islamisti quanto dalla sudditanza occidentale. Certo, l’evoluzione politica è lunga, purtroppo sanguinosa e pure imprevedibile. In questi giorni negli Stati Uniti vi è un intenso dibattito sull’utilità dei “think tank”, i pensatoi i cui ricercatori dovrebbero fornire previsioni in merito a epocali avvenimenti internazionali. Ebbene, i critici sottolineano come gli analisti abbiano fallito nel prevedere alcuni eventi epocali degli ultimi trent’anni: dalla caduta dello shah d’Iran con il conseguente insediarsi della Repubblica Islamica alla guerra in Kuwait, dall’attentato alle Twin Towers alle catastrofiche guerre in Afghanistan e in Iraq. Per non parlare di quanto sta succedendo sulle sponde extra europee del Mediterraneo. Allo stesso modo, fino all’altro giorno si continuava a parlare dell “eccezione del Marocco”, come se il paese maghrebino potesse rimanere immune dall’ondata di cambiamento che squassa gli altri paesi arabi, e senza tener conto che non solo il Marocco condivide tutti i problemi degli altri stati in rivoluzione, ma in più è caratterizzato da un tasso di analfabetizzazione, di disoccupazione e di povertà superiore a molti altri.

Se vogliamo capire quanto sta succedendo assai vicino a noi, quindi, è necessario cambiare subito prospettiva d’indagine.

Il discorso di Bashar al Assad e la (nuova?) Siria

Leggi il mio intervento ne Il Giornale di Brescia del 20 aprile:

La Siria è stabile, aveva annunciato al mondo il suo presidente, Bashar al Assad, a fine gennaio. Ma l’ondata della rivolta è arrivata pure in Siria, e nonostante la polizia che ha sparato sui manifestanti, la protesta non si placa. Certo Bashar non ha il profilo dei colleghi usciti di scena, non è sclerotico (il 45enne presidente siriano è in carica «solo» dal 2000); né può essere accusato dai connazionali di essere portabandiera di interessi occidentali (leggi, americani), vista la politica anti Usa del partito Baath di cui Bashar è l’espressione.
Ma la reazione repressiva contro la piazza gli ha alienato moltissimi cittadini e ora Bashar deve risalire la china. Certo non basta la decisione di concedere a 150mila siriani curdi, da troppo tempo in attesa di uscire dal limbo della non-cittadinanza, il diritto di essere siriani a tutti gli effetti. I Siriani tutti vogliono riforme, la possibilità di formare partiti, libertà di stampa e interventi per arginare la disoccupazione, obiettivi che l’opposizione insegue da anni e che Bashar ha sempre negato, al massimo attuando una politica «cinese», concedendo qualche miglioramento economico, ma chiudendo rigorosamente l’accesso alla sfera politica ed amministrativa. Silenziando i moderati, Bashar ha però aperto la porta alle correnti islamiste, favorite dalle alleanze che l’apparentemente laico regime di Damasco ha tessuto con Iran, Hezbollah, Hamas (accordi determinati soprattutto dalla volontà di costituire un fronte comune contro America e Israele): squilibrio pericoloso in un paese multietnico e multireligioso come la Siria e che Bashar deve cercare di ricomporre immediatamente. Così sabato è comparso davanti al nuovo governo, chiedendo ai ministri di rispondere alle istanze dei cittadini, in modo da ricomporre la protesta prima possibile. Bashar ha parlato della necessità di chiudere la ferita apertasi tra compagine governativa e popolazione, dando avvio alle riforme più incalzanti, quali la revisione sia della legge sulla formazione dei partiti politici sia di quella che imbavaglia stampa e media. Bashar ha altresì sottolineato l’urgenza di intervenire per arginare disoccupazione e corruzione: e ha pure accennato alla possibilità di riformare la Polizia, «inadeguata» contro i manifestanti. Bashar non ha per ora detto cosa intenda fare coi due elementi di spicco dell’elite, il fratello Mahir e il cognato Asif Shawkat, rispettivamente capo della Guardia repubblicana e dell’Esercito, ritenuti corresponsabili della repressione.
Promesse di chi teme il tracollo o tardiva, ma necessaria, presa di coscienza di un leader? Bashar sa di poter contare sull’appoggio di cristiani, drusi, alawiti e sulla middle-class sunnita, oltre il 50% della popolazione: ma potrebbe non bastare.
Se Bashar al Assad vuole restare in sella e far cessare il bagno di sangue nel Paese deve mettere in pratica quanto esposto al nuovo gabinetto sabato e attuarlo quanto prima.

 

Bahrein: interessa a qualcuno?

La persecuzione contro la popolazione shiita in Bahrein non è cosa nuova, ma ora sta raggiungendo proporzioni epiche: le forze saudite, intervenute “per restaurare l’ordine” in Bahrein picchiano, stuprano, ammazzano a piacimento qualsiasi persona sia solo in sospetto di essere shiita, magari semplicemente perché non espone la foto del re al Khalifa. Quest’ultimo, in carica dal 2002, finge si tratti d’una questione di “lotta fra sette”, dove gli shiiti vorrebbero ribaltare il potere sunnita, con l’aiuto dell’Iran: e così, agitando lo spettro dell’estensione dell’influenza degli ayatollah nel Golfo, raduna consensi e aiuti per massacrare i suoi sudditi, che reclamano solo maggiore partecipazione alla vita dello Stato e il riconoscimento di diritti elementari. La famiglia al Khalifa in questi anni ha addirittura favorito l’immigrazione di sunniti, che ora, ovviamente, appoggiano la casata reale, incuranti del fatto che le riforme costituzionali promesse negli anni ’70 non siano mai state varate: tanto, per loro, scatta il meccanismo dei benefici concessi a chi appoggia il regime, mentre gli shiiti, per il solo fatto d’essere tali, vengono esclusi dalla vita pubblica e discriminati nei luoghi di lavoro e nell’arena sociale.

Il mondo, compreso quello arabo, sembra essersi dimenticato di quello che ha provocato in Iraq l’accentuazione del conflitto in termini di “sunnismo contro shiismo” e ignora quest’ultima vessazione da parte dell’Arabia Saudita con la complicità di altri paesi del Golfo e l’appoggio, più o meno tacito, di potenze occidentali. Sabato 16 aprile il Guardian ha pubblicato una scioccante testimonianza di un cittadino shiita del Bahrein che racconta di quanto sta succedendo all’interno del Paese: per quanto vogliamo ancora far finta di ignorare questa drammatica situazione?