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La nostra eredità in Afghanistan

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E’ stato un bambino di 11 anni a lanciare la bomba che ha ucciso il capitano Giuseppe La Rosa, sostengono i Talebani. Probabilmente non è così, ma i Talebani intendono sottolineare come anche a Farah, zona controllata dalle nostre truppe insieme alla forza internazionale (ISAF), stiano riconquistando le posizioni perdute, evidenza purtroppo difficile da smentire. Dopo oltre dieci anni di conflitto la situazione in Afghanistan, che all’inizio pareva essere controllabile, sta precipitando, e, più si avvicina la data del disimpegno dell’ISAF, più è evidente il fallimento della missione costata uno sproposito tanto in termini economici quanto, soprattutto, di vite umane. I Talebani sono talmente tracotanti da permettersi azioni terroristiche nel cuore di Kabul; l’ultima, quella avvenuta un paio di settimane fa che per poco non ha ucciso un’altra nostra compatriota in servizio per l’ONU. E Kabul è definita da tutti “oasi felice” per il grado di sicurezza garantito tanto da ISAF quanto dalle forze di polizia afghane: figuriamoci il resto del Paese.

Sembrerebbe non ci sia altro che sperare nel veloce avvicinarsi del 2014 e del conseguente ritiro delle truppe, comprese quelle italiane, ma qui ci profila un altro problema: cosa lasciamo a quegli afghani che hanno sopportato oltre dieci anni di guerra e di occupazione straniera solo nella speranza di un destino migliore per loro e per i loro figli?

Nella cosiddetta società civile è scattato da tempo l’allarme per la partenza dell’ISAF; gli afghani che lavorano per organizzazioni non governative di vario tipo, presso piccole cliniche e ambulatori, nelle scuole, nelle istituzioni che garantiscono l’informazione, al pari di tanti altri che non hanno mansioni particolari ma, semplicemente, speravano di essere usciti dagli anni del terrore, si vedono in pericolo. Appena l’ultimo soldato ISAF se ne sarà andato ricominceranno le vessazioni dei Taleban nei confronti della popolazione; che ne sarà di tutti coloro che hanno collaborato con gli stranieri? Come minimo verranno tacciati di collaborazionismo, di aver complottato col nemico, pagandone le inevitabili conseguenze.

In realtà, il piano è di far evacuare il contingente militare, ma di mantenere in Afghanistan strutture d’appoggio dirette da civili, che, a quel punto, dovrebbero essere protette solo dai circa 190mila soldati dell’esercito regolare afghano, già in servizio. Ma ciò sarà sufficiente a garantire la sicurezza dei civili stranieri e degli stessi afghani, se neppure oggi, a fronte di quasi 100mila militari ISAF, che dovrebbero se non altro scoraggiare atti terroristici, i Taleban continuano a mietere vittime con cadenza quotidiana?

Sono tutti interrogativi che immaginiamo le forze ISAF si pongano; di certo, gli afghani lo fanno. Le organizzazioni che lottano per i diritti delle donne, ad esempio, stanno già mettendo in guardia sul reale pericolo che, nel nuovo scenario post 2014, le afghane si ritrovino in una condizione addirittura peggiore di quella pre intervento internazionale nel 2001. Se nelle città si nota un debole miglioramento del segmento femminile, nelle zone rurali la situazione è ben diversa, avendo le donne scarse possibilità di accedere ai servizi scolastici e sanitari, per non parlare del preoccupante incremento dei “delitti d’onore” di cui sono bersaglio. Ci vuole uno sforzo ulteriore per raggiungerle e dotarle, per quanto possibile, di strumenti con cui difendersi dopo il ritiro dell’ISAF, quali istruzione e possibilità di lavoro. Altrimenti, la missione sarà ricordata solo come un colossale fallimento che ha comportato un numero di vittime troppo alto, da ambe le parti.

da Giornale di Brescia 10/6/2013

Noi e l’Afghanistan: è sempre scontro di civiltà?

Ieri sera, al Candiani di Mestre, si è presentato il documentario di Razi e Soheila Mohebi Afghanistan 2014 un realistico, amaro, quasi spietato ritratto di come le potenze internazionali stanno affrontando la situazione afghana.

Al termine, un interessante dibattito condotto soprattutto grazie alla bravura di Soheila Mohebi, in difficoltà solo quando alcuni spettatori le hanno chiesto quanto ci vorrà perchè l’Afghanistan diventi una nazione…. Soheila ha provato a spiegare che le categorie occidentali non funzionano ovunque, e che l’Afghanistan è la prova evidente di questa impossibilità di traslare istituzioni e concetti che magari funzionano nel contesto occidentale come fossero universali…niente da fare, in quel momento è scattata l’incomprensione tra il pubblico e la cineasta.

E’ possibile essere ancora convinti che tutto ciò che è “made in the West” possa essere esportato come fosse un paio di scarpe italiane o uno spumante francese?

Obama in Afghanistan

Obama a sorpresa in Afghanistan, titolano oggi i giornali, ma la sorpresa, in realtà, non c’è. La visita del Presidente americano era già stata rivelata nei giorni scorsi, poi smentita dal Pentagono e quindi effettivamente eseguita. La vicenda è indicativa di come stanno andando le cose in Afghanistan, dove tutti, Taleban compresi, sembrano conoscere la realtà dei fatti, compresi gli spostamenti di Obama, prima ancora che questi vengano annunciati. Nei giorni scorsi è scoppiata una polemica per come l’ISAF, la forza internazionale presente in Afghanistan, manipoli le notizie relative alle operazioni condotte contro i ribelli: il portavoce ISAF, infatti, accredita le forze afghane per ogni successo riportato contro i Taleban, per mostrare che le truppe locali sono in grado di sostenere la lotta da soli, in previsione dell’evacuazione ISAF prevista nel 2014. Secondo molti osservatori internazionali, soprattutto britannici, presenti sul campo, invece, le truppe afghane sono sempre guidate dall’ISAF, e quindi non in grado di agire autonomamente, confermando il parziale fallimento del programma d’istruzione militare intrapreso dieci anni or sono. I britannici, assieme ai norvegesi, hanno un numero consistente di personale impegnato nell’unità speciale afghana in addestramento, e quindi parlano con cognizione di causa.

Obama è giunto per celebrare il primo anniversario dell’uccisione di Osama bin Laden, ma in Afghanistan c’è ancora poco da festeggiare. Intere zone sono sotto il pieno controllo dei Taleban, i quali agiscono pressoché indisturbati anche in aree dove l’ISAF dovrebbe essere in pieno controllo, come nella capitale Kabul nella quale, a smentire clamorosamente Obama, non appena questi è ripartito i ribelli hanno attaccato un albergo che ospita perlopiù cittadini stranieri, uccidendo sei persone.

Nel contempo, domenica scorsa l’Emirato Islamico d’Afghanistan, che raggruppa il contingente più forte ed organizzato della resistenza anti ISAF, ha lanciato un appello ai media internazionale affinché non pubblichino “notizie false”, quali quella che vorrebbe che vi fossero ripetuti e proficui colloqui tra ISAF e Emirato. Anche in questa vicenda, l’ISAF mostra la propria debolezza: da un lato, infatti, nega l’esistenza dell’Emirato, dall’altro, ne riconosce presenza e legittimità investendolo addirittura del ruolo di partner privilegiato in fantomatici colloqui per uscire dall’impasse in cui la forza internazionale si trova invischiata.

I combattenti dell’Emirato hanno già riportato notevoli successi a metà aprile scorso, quando i suoi sono riusciti a tenere sotto scacco una serie di istituzioni proprio a Kabul, dimostrando di essere in grado di colpire dove, quando e come vogliono. Queste loro azioni, condotte nella capitale, dove sono insediati i mass media internazionali, danno loro risonanza e tornano loro utili in termini di acquisizione di prestigio a livello sia internazionale sia locale; se, infatti, le forze ISAF sono costrette a riconoscer la loro forte presenza, molti afghani si stanno avvicinando ai Taleban decretando loro legittimità e consenso.

E così, al summit previsto per il 12 giugno p.v. a Dubai dedicato alla ricostruzione dell’Afghanistan, vi saranno anche i rappresentanti dell’Emirato (che, peraltro, hanno già aperto una loro ambasciata a Doha) a sedersi accanto a quelli dell’ISAF, della NATO e del governo afghano. Dopo oltre 10 anni di guerra, centinai di migliaia di vittime fra civili e militari e una incredibile spesa che grava sui bilanci di molte nazioni, forse ci si poteva aspettare qualcosa di meglio.

 

Pubblicato da Giornale di Brescia 3/5/2012.

Disastro americano in Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iran

Settimana pessima per i rapporti Usa-Medio Oriente: un marine della base di Kandahar ha fatto fuoco contro i civili, uccidendone 16, fra cui 9 bimbi; Israele, l’alleato più fedele nell’area, ha compiuto raid su Gaza, causando 23 vittime; il segretario alla difesa Usa Leon Panetta, giunto a Kandahar per placare l’ira afgana, ha rischiato di venire ucciso da un attentato che ha provocato un morto e due feriti. Intanto, membri del Congresso premono su Obama perché colpisca il regime siriano con la forza aerea e, contemporaneamente, incitano il Presidente ad attaccare l’Iran.
Gli esperti Usa di Medio Oriente si interrogano su quale china abbia imboccato il loro Paese: il ruolo «imperiale» americano è finito, e, dal loro punto di vista ciò sarebbe anche positivo; ma il dubbio è che lo strapotere militare non sia stato sostituito da un più che mai necessario ruolo diplomatico. Gli americani paiono del tutto impreparati davanti a culture e religioni differenti.
I segnali da Washington in questi mesi sono discordanti, segno del caos e dell’incompetenza di molti e della mancanza di qualcuno che unifichi i messaggi. Ad esempio, il 2 dicembre Leon Panetta s’è detto contrario a un intervento militare in Iran; il 19, lo stesso segretario alla Difesa è apparso alla Cbs affermando la necessità di fermare il programma nucleare iraniano; l’8 gennaio, Panetta ha dichiarato che l’Iran non avrebbe la capacità di sviluppare un programma nucleare bellico. Un’incoerenza che è indice delle sabbie mobili in cui si trova la Casa Bianca.
Pure la politica estera di Teheran pare zigzagante, ma gli ayatollah sono coerenti con la loro politica interna, che andrebbe letta e decifrata. Se gli usa non hanno ancora imparato a farlo, perché non utilizzare esperti della comunità irano-americana di provata fede alla nuova Patria, ma capace di decifrare la terra d’origine? Stesso discorso per l’Afghanistan: in 10 anni negli atenei Usa si sono formati a decine esperti centrasiatici. Eppure, essi sono raramente consultati da Washington, dove dominano lobby che ragionano solo secondo interesse: i discorsi degli esperti sono ritenuti accademici e restano inascoltati. Ricordiamo l’Iraq, con gli Stati Uniti impegnati in una guerra inutile, nonostante molti esperti avessero sconsigliato di farlo. Per uscire dalla palude, agli Usa non resta che cambiar consiglieri, magari scegliendo chi non ha interessi di parte.

Pubblicato da Giornale di Brescia 17/3/2012.

Caos a Kabul, emblema di una guerra fallita

Il caos sembra nuovamente regnare a Kabul, in seguito alle violente manifestazioni di protesta dei locali contro la ambasciata americana, dopo che materiale religioso e copie del Corano sono state bruciate nella base Usa di Bagram, a pochi chilometri dalla capitale afgana.

Qualcuno ha già etichettato l’ira degli afgani come la “solita” manifestazione integralista, ma è bene invece inquadrare quanto sta accadendo in una prospettiva più ampia. Solo una settimana fa, martedì 14, si sono verificati violenti attacchi a Kabul: un commando, presumibilmente talebano, si è arroccato in un alto e incompiuto edificio (impietoso simbolo della “non” ricostruzione del Paese) da dove ha fatto fuoco per l’intera giornata contro l’ambasciata americana, il quartiere generale Nato e la sede della direzione della Sicurezza nazionale. Contemporaneamente, si sono verificati due attacchi suicidi vicino il Parlamento, mentre ne è stato sventato un terzo nei pressi dell’aeroporto. Mentre l’ambasciatore americano, Ryan Crocker, ha sminuito l’evento dicendo che non era accaduto “nulla di grave”, il Presidente Karzai ha lodato la reazione delle forze di sicurezza: ma le sue parole non ingannano nessuno, tantomeno gli afgani, i quali si rendono conto dell’estrema fragilità delle loro vite e dell’imperizia delle istituzioni preposte alla loro difesa. Gli attentatori di S. Valentino, ad esempio, sono riusciti a passare i posti di blocco con tanto di armi nascoste sotto i burqa con i quali si erano travestiti. Nessuno li ha fermati, perché nella stragrande maggioranza dei check point non ci sono soldatesse o poliziotte che possano perquisire le donne, vere o false che siano. Eppure, che il burqa sia il miglior travestimento per un uomo in Afghanistan è risaputo: ancora nel lontano 2001 il film Viaggio a Kandahar rivelava questa tecnica al mondo intero, possibile che le forze di sicurezza locali non la conoscano? Certamente, l’addestramento della polizia locale è lento, e la sua inefficienza imputabile pure agli stessi poliziotti, per molti dei quali si tratta di un lavoro stagionale: si calcola, infatti, che il 35% di loro abbandonino il lavoro d’estate, in tempo di raccolto, ovviamente più redditizio della magra paga di tutore delle forze dell’ordine, per non parlare dei rischi inclusi.

Se per tutti gli afgani la situazione è intollerabile, lo è ancora di più per coloro i quali (ed è la maggioranza) considerano la forza internazionale una forza di occupazione e che si chiedono che senso abbia aver sopportato un “occupazione” per oltre 10 anni se la situazione non è migliorata. E ciò è tanto più grave perché gli attentati si sono verificati a Kabul, considerata un’isola felice per quanto riguarda la sicurezza rispetto al resto del Paese.

Ecco, allora, che la frustrazione scoppia, e non per un nonnulla, ma perché, ancora una volta, le forze internazionali dimostrano spregio per il simbolo stesso della religione praticata dalla stragrande maggioranza degli afgani. In un paese diviso da rivalità tribali, etniche, e, soprattutto, politiche, il Corano è la bandiera nazionale.

Altro motivo di frustrazione per moltissimi afgani è il fatto che gli americani hanno confermato la volontà di avviare i colloqui con i Taleban che si sono aperti un ufficio diplomatico a Doha: è il palese riconoscimento di una sconfitta, nonché la legittimazione di una forza che avrebbe essere stata sgominata da una guerra decennale che ha comportato pesanti perdite e lutti.

L’avvio dei colloqui coi Taleban è già una vittoria per questi ultimi: ma arrivare al cuore di Kabul e tenerla in scacco per 20 ore significa voler alzare ancora la posta.

pubblicato su Giornale di Brescia, 23/2/2012.

Bin Laden, mito e realtà

L’eco dei commenti sull’uccisione di Osama Bin Laden non solo non si è ancora spenta, ma sembra alimentarsi di nuovi particolari che quotidianamente invadono i nostri mass media, rubando spazio ad avvenimenti ben più cruciali, quali, ad esempio, quelli che continuano a sostenere le rivolte in nord Africa e nel Medio Oriente. Le esagerazioni che hanno contornato Bin Laden da vivo continuano pure ora che è morto, alimentandone il mito: se prima era stato trasformato da Bush & Co. quale “uomo nero” per eccellenza, ora si continua ad attribuirgli un potere che eserciterebbe dalla tomba, promuovendone il fantasma per tenere viva l’ostilità tra occidente e mondo islamico, e, di conseguenza, lo stato di allarme (con tutto ciò che ne consegue). Incuranti del fatto che il modello di Bin Laden ha in realtà avuto ben pochi epigoni (ora si è addirittura coniato il termine di “terrorismo in franchising” per le cellule terroristiche che hanno agito ispirandosi ad al-Qaeda), si continua ad agitarne lo spettro (è il caso di dirlo!) attribuendogli un ruolo più o meno diretto anche nelle rivolte ancora in corso nel mondo arabo, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, e neppure con movimenti ispirati dall’ “islam politico”.

L’uccisione di Bin Laden è avvenuta mentre le popolazioni arabe (e non solo) chiedono libertà, democrazia, giustizia, sottolineando piuttosto come queste richieste siano in contrasto con l’opera e il pensiero del leader di al-Qaeda. Ma ammettere una tale lampante verità porterebbe, fra le varie conseguenze, una riflessione sull’inopportunità delle campagne belliche di questi ultimi dieci anni, dall’Afghanistan alla Libia, passando per l’Iraq ed una maggiore attenzione per quanto sta accadendo dal Marocco all’Asia centrale.

Un afgano a Trento

Gridami (2010) è il film che il regista afgano Reza Mohebi ha girato fra le vallate trentine, scegliendo le più scarne e cupe. Niente spettacolari vette asiatiche con la bellezza abbagliante delle loro nevi, quindi, ma brulli montarozzi che degli attributi montani mantengono solo la sensazione di gelo e solitudine. Fra valli desolate, container arrugginiti e capannoni industriali in disarmo,  Mohebi rappresenta il dramma della ricerca del lavoro, della casa, della stabilità affettiva da parte di un emigrato afgano, Soluch, che diviene paradigma del dramma di tutti gli emigrati, e, per translato, dell’umanità.

All’inizio, Soluch ha una casa e una donna: ma l’interno della abitazione è una natura morta e la moglie lo sta per lasciare per un altro. Siamo in autunno, la stagione, dice la moglie di Soluch, che la fa soffrire: perché lei stessa, in realtà, è la terra, il divenire delle stagioni.  Si innesca una corsa verso un precipizio di disperazione che Mohebi trasforma in una fiaba surreale, nella quale la Donna recita dietro ad una maschera teatrale, tentando invano di reinventarsi la vita, colorandola con l’illusione di un nuovo amore. Soluch rimane più concreto, ma nel suo mondo popolato da immagini simboliche che ricordano il paese dal quale è stato esiliato (gli onnipresenti frutti del melograno, l’aquilone con cui gioca il figlio, i versi dei poeti persiani),  le uniche parole concrete pronunciate sono contratto, lavoro, guerra, licenziamento, servizi sociali. Soluch tenta invano di aggrapparsi alla vita reale, che gli sfugge crudelmente. A Soluch non resta che sublimare le sue angosce in una improvvisata danza sufi, secolare veicolo di distacco dalle angose terrene per ritrovare la Verità.

Sono 70′ di pura angoscia, ma anche di struggente poesia, pieni di oggetti, parole, gesti simbolici ancorati soprattutto alla cultura afgana, e che Mohebi compone in un’originale miscela. Non è tanto il burqa, che pure compare nelle scene finali del film, quasi a voler confortare lo spettatore con un segno a lui riconoscibile di “afganità”, a fare da filo conduttore, ma gli onnipresenti chicchi di melograno: all’inizio sgranati dalla Donna, come giorni o come figli; poi maciullati e grondanti succo/sangue; infine sparsi per terra, in caduta libera, come i sogni che non si avverano mai.

Un triangolo amoroso, una storia di emarginazione, un’allegoria della vita: il film di Reza Mohebi si legge come i versi di una poesia mistica persiana, in cui ognuno trova ciò che cerca.