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Non demonizziamo la Libia!

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Il rapimento da parte di un gruppo di ribelli del primo ministro libico, Ali Zeidan, sembra confermare l’infausta previsione di Henry Kissinger, il quale mesi fa aveva incluso la Libia nell’elenco delle nazioni in disfacimento e/o ad altissimo rischio, insieme a Siria, Somalia, Yemen, Iraq e Afghanistan. Tale sequestro costituisce senza dubbio un atto comprovante la fragilità del processo di democratizzazione in corso nel paese nord africano, ma non deve, peraltro, inficiare i notevoli progressi compiuti dai libici da quando è finita la dittatura gheddafiana fino ad oggi. Chi ha visitato il Paese recentemente conferma che la vita è ripresa regolarmente tanto nei centri maggiori (Tripoli, Misurata, Benghasi) quanto nelle oasi del deserto, dove la gente passeggia tranquillamente nelle strade, si reca al lavoro, a scuola, o a fare compere. I negozi più ambiti sono quelli di moda italiana (una buona notizia anche per la nostra economia) e di gioielli. Qualche cittadino pessimista dichiara che la corsa all’oro è dovuta al fatto che la gente investe nel prezioso metallo per avere a disposizione un bene rapidamente convertibile in caso di fuga, ma è altresì vero che molti monili sono comperati per i matrimoni, ripresi dopo una lunga pausa, segno di voglia di stabilità del Paese; così come è un segnale positivo che le gioielleria rimangano aperte fino a sera tarda, senza paura di rapine, nonostante le milizie siano virtualmente sparite dalle strade, ora controllate solo dalla polizia regolare.

Ciò non significa, ovviamente, che la Libia sia divenuta il paese del bengodi, i problemi ci sono, quali i ripetuti scontri tra gruppi etnici rivali nel sud est del Paese che si contendono i traffici locali; o gli scioperi di alcune categorie di lavoratori non sufficientemente retribuiti. Ma dobbiamo ricordare che nel passato regime lo sciopero non era neppure consentito, così come esistevano solo media controllati strettamente dal governo, mentre ora una nuova generazione di giornalisti libici sta sperimentando la libertà di stampa. Allo stesso modo, le elezioni municipali svoltesi a Benghasi e Misurata nei mesi scorsi hanno confermato la voglia di democrazia dei libici che hanno affrontato lunghe code davanti ai seggi elettorali, conferendo, tra l’altro, fiducia ad alcune candidate. Anche questa rappresenta una novità positiva, che ristabilisce l’immagine delle donne nella sfera pubblica, immagine ridotta dal regime gheddafiano alla caricatura delle proprie guardie del corpo, metà soubrette e metà feroci aguzzine.

Come collocare, allora, in questo quadro il rapimento del primo ministro? Il gruppo che ha sequestrato Ali Zeidan è formato da ex-ribelli del passato regime ora passato al servizio dell’attuale governo, per il quale compie azioni di polizia; tanto da aver dichiarato di non avere rapito il primo ministro, bensì di averlo arrestato da parte della Procura libica (cosa, peraltro, smentita dalla stessa Procura). Il sequestro di Ali Zeidan è avvenuto a ridosso della cattura a Tripoli di Abou Anas al Libi, figura di spicco al Qaeda e ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane del 1998 in Kenya e Tanzania. Se i fatti sono collegati, ciò dimostrerebbe lo stretto legame tra il braccio nord africano di al Qaeda e alcuni gruppi di (ex) ribelli libici, i quali avrebbero “punito” il primo ministro per l’appoggio dato agli americani che, di fatto, hanno arrestato al Libi. Lo stesso Ali Zeidan aveva proprio in questi giorni chiesto spiegazioni a Washington riguardo al raid compiuto sul suolo libico proprio per prendere al Libi, ma il portavoce americano ha dichiarato che il governo provvisorio libico era stato anticipatamente informato dell’operazione.

Che si tratti di un arresto o di un rapimento, la vicenda di Ali Zeidan prova lo stato di divisione del governo provvisorio libico; al contrario, la sua società civile combatte quotidianamente per stabilire democrazia e la normalità.

da il Giornale di Brescia 11/10/2013.

Bin Laden, mito e realtà

L’eco dei commenti sull’uccisione di Osama Bin Laden non solo non si è ancora spenta, ma sembra alimentarsi di nuovi particolari che quotidianamente invadono i nostri mass media, rubando spazio ad avvenimenti ben più cruciali, quali, ad esempio, quelli che continuano a sostenere le rivolte in nord Africa e nel Medio Oriente. Le esagerazioni che hanno contornato Bin Laden da vivo continuano pure ora che è morto, alimentandone il mito: se prima era stato trasformato da Bush & Co. quale “uomo nero” per eccellenza, ora si continua ad attribuirgli un potere che eserciterebbe dalla tomba, promuovendone il fantasma per tenere viva l’ostilità tra occidente e mondo islamico, e, di conseguenza, lo stato di allarme (con tutto ciò che ne consegue). Incuranti del fatto che il modello di Bin Laden ha in realtà avuto ben pochi epigoni (ora si è addirittura coniato il termine di “terrorismo in franchising” per le cellule terroristiche che hanno agito ispirandosi ad al-Qaeda), si continua ad agitarne lo spettro (è il caso di dirlo!) attribuendogli un ruolo più o meno diretto anche nelle rivolte ancora in corso nel mondo arabo, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, e neppure con movimenti ispirati dall’ “islam politico”.

L’uccisione di Bin Laden è avvenuta mentre le popolazioni arabe (e non solo) chiedono libertà, democrazia, giustizia, sottolineando piuttosto come queste richieste siano in contrasto con l’opera e il pensiero del leader di al-Qaeda. Ma ammettere una tale lampante verità porterebbe, fra le varie conseguenze, una riflessione sull’inopportunità delle campagne belliche di questi ultimi dieci anni, dall’Afghanistan alla Libia, passando per l’Iraq ed una maggiore attenzione per quanto sta accadendo dal Marocco all’Asia centrale.