Gridami (2010) è il film che il regista afgano Reza Mohebi ha girato fra le vallate trentine, scegliendo le più scarne e cupe. Niente spettacolari vette asiatiche con la bellezza abbagliante delle loro nevi, quindi, ma brulli montarozzi che degli attributi montani mantengono solo la sensazione di gelo e solitudine. Fra valli desolate, container arrugginiti e capannoni industriali in disarmo, Mohebi rappresenta il dramma della ricerca del lavoro, della casa, della stabilità affettiva da parte di un emigrato afgano, Soluch, che diviene paradigma del dramma di tutti gli emigrati, e, per translato, dell’umanità.
All’inizio, Soluch ha una casa e una donna: ma l’interno della abitazione è una natura morta e la moglie lo sta per lasciare per un altro. Siamo in autunno, la stagione, dice la moglie di Soluch, che la fa soffrire: perché lei stessa, in realtà, è la terra, il divenire delle stagioni. Si innesca una corsa verso un precipizio di disperazione che Mohebi trasforma in una fiaba surreale, nella quale la Donna recita dietro ad una maschera teatrale, tentando invano di reinventarsi la vita, colorandola con l’illusione di un nuovo amore. Soluch rimane più concreto, ma nel suo mondo popolato da immagini simboliche che ricordano il paese dal quale è stato esiliato (gli onnipresenti frutti del melograno, l’aquilone con cui gioca il figlio, i versi dei poeti persiani), le uniche parole concrete pronunciate sono contratto, lavoro, guerra, licenziamento, servizi sociali. Soluch tenta invano di aggrapparsi alla vita reale, che gli sfugge crudelmente. A Soluch non resta che sublimare le sue angosce in una improvvisata danza sufi, secolare veicolo di distacco dalle angose terrene per ritrovare la Verità.
Sono 70′ di pura angoscia, ma anche di struggente poesia, pieni di oggetti, parole, gesti simbolici ancorati soprattutto alla cultura afgana, e che Mohebi compone in un’originale miscela. Non è tanto il burqa, che pure compare nelle scene finali del film, quasi a voler confortare lo spettatore con un segno a lui riconoscibile di “afganità”, a fare da filo conduttore, ma gli onnipresenti chicchi di melograno: all’inizio sgranati dalla Donna, come giorni o come figli; poi maciullati e grondanti succo/sangue; infine sparsi per terra, in caduta libera, come i sogni che non si avverano mai.
Un triangolo amoroso, una storia di emarginazione, un’allegoria della vita: il film di Reza Mohebi si legge come i versi di una poesia mistica persiana, in cui ognuno trova ciò che cerca.