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Una riflessione su Marrakesh e il tentativo di negare l’esistenza della “società civile” nei paesi arabi

Il terribile attentato a Marrakesh è arivato come una benedizione per leader politici di differenti parti del mondo arabo in rivolta, dal presidente siriano Bashar al Assad a quello yemenita Abdullah Saleh, dai generali egiziani al sovrano bahrenita al Khalifa: ovvero a tutti coloro che pensano di poter continuare a governare i rispettivi paesi sparando sui propri cittadini che manifestano per vedere riconosciuti alcuni diritti fondamentali, solo perché si pongono quale “argine” ai fondamentalismi religiosi e/o terroristici. L’attentato di al-Qaeda, o dei suoi accoliti, viene già sbandierato quale prova dell’inevitabilità del loro governo da alcuni di questi leader. Lo spettro della sempre incombente minaccia di un regime islamista viene sempre agitato quale unica alternativa ai loro regimi presuntamente laici, infatti, da più di un leader nell’area, non ultimo dal colonello Gheddafi, che certo non sta dando prova né di buongoverno né di garanzia quale argine ad alcunché.

Le rivolte arabe impongono un doloroso ma inevitabile spargimento di sangue, e nonostante non si possa certo sminuire il loro impatto in termini di vite umane, va altresì riconosciuto il loro positivo dirompente effetto. Vi è un movimento di ampia portata che si dipana dal Marocco all’Arabia Saudita, e i cui attori invocano unanimemente democrazia, libertà, fine della corruzione, parole che hanno lo stesso significato lì come nel mondo occidentale. E i paladini di queste riforme sono i componenti delle società civili dei singoli paesi, quelle stesse società civili la cui esistenza è stata spesso negata pure nei dibattiti fra gli osservatori occidentali che hanno sempre descritto i paesi arabi come entità incapaci di articolare istituzioni politiche indipendenti, se non in termini “religiosi”.

Queste società civili stanno cercando di costruire un ordine politico democratico avulso tanto dalla egemonia dei partiti islamisti quanto dalla sudditanza occidentale. Certo, l’evoluzione politica è lunga, purtroppo sanguinosa e pure imprevedibile. In questi giorni negli Stati Uniti vi è un intenso dibattito sull’utilità dei “think tank”, i pensatoi i cui ricercatori dovrebbero fornire previsioni in merito a epocali avvenimenti internazionali. Ebbene, i critici sottolineano come gli analisti abbiano fallito nel prevedere alcuni eventi epocali degli ultimi trent’anni: dalla caduta dello shah d’Iran con il conseguente insediarsi della Repubblica Islamica alla guerra in Kuwait, dall’attentato alle Twin Towers alle catastrofiche guerre in Afghanistan e in Iraq. Per non parlare di quanto sta succedendo sulle sponde extra europee del Mediterraneo. Allo stesso modo, fino all’altro giorno si continuava a parlare dell “eccezione del Marocco”, come se il paese maghrebino potesse rimanere immune dall’ondata di cambiamento che squassa gli altri paesi arabi, e senza tener conto che non solo il Marocco condivide tutti i problemi degli altri stati in rivoluzione, ma in più è caratterizzato da un tasso di analfabetizzazione, di disoccupazione e di povertà superiore a molti altri.

Se vogliamo capire quanto sta succedendo assai vicino a noi, quindi, è necessario cambiare subito prospettiva d’indagine.

Il discorso di Bashar al Assad e la (nuova?) Siria

Leggi il mio intervento ne Il Giornale di Brescia del 20 aprile:

La Siria è stabile, aveva annunciato al mondo il suo presidente, Bashar al Assad, a fine gennaio. Ma l’ondata della rivolta è arrivata pure in Siria, e nonostante la polizia che ha sparato sui manifestanti, la protesta non si placa. Certo Bashar non ha il profilo dei colleghi usciti di scena, non è sclerotico (il 45enne presidente siriano è in carica «solo» dal 2000); né può essere accusato dai connazionali di essere portabandiera di interessi occidentali (leggi, americani), vista la politica anti Usa del partito Baath di cui Bashar è l’espressione.
Ma la reazione repressiva contro la piazza gli ha alienato moltissimi cittadini e ora Bashar deve risalire la china. Certo non basta la decisione di concedere a 150mila siriani curdi, da troppo tempo in attesa di uscire dal limbo della non-cittadinanza, il diritto di essere siriani a tutti gli effetti. I Siriani tutti vogliono riforme, la possibilità di formare partiti, libertà di stampa e interventi per arginare la disoccupazione, obiettivi che l’opposizione insegue da anni e che Bashar ha sempre negato, al massimo attuando una politica «cinese», concedendo qualche miglioramento economico, ma chiudendo rigorosamente l’accesso alla sfera politica ed amministrativa. Silenziando i moderati, Bashar ha però aperto la porta alle correnti islamiste, favorite dalle alleanze che l’apparentemente laico regime di Damasco ha tessuto con Iran, Hezbollah, Hamas (accordi determinati soprattutto dalla volontà di costituire un fronte comune contro America e Israele): squilibrio pericoloso in un paese multietnico e multireligioso come la Siria e che Bashar deve cercare di ricomporre immediatamente. Così sabato è comparso davanti al nuovo governo, chiedendo ai ministri di rispondere alle istanze dei cittadini, in modo da ricomporre la protesta prima possibile. Bashar ha parlato della necessità di chiudere la ferita apertasi tra compagine governativa e popolazione, dando avvio alle riforme più incalzanti, quali la revisione sia della legge sulla formazione dei partiti politici sia di quella che imbavaglia stampa e media. Bashar ha altresì sottolineato l’urgenza di intervenire per arginare disoccupazione e corruzione: e ha pure accennato alla possibilità di riformare la Polizia, «inadeguata» contro i manifestanti. Bashar non ha per ora detto cosa intenda fare coi due elementi di spicco dell’elite, il fratello Mahir e il cognato Asif Shawkat, rispettivamente capo della Guardia repubblicana e dell’Esercito, ritenuti corresponsabili della repressione.
Promesse di chi teme il tracollo o tardiva, ma necessaria, presa di coscienza di un leader? Bashar sa di poter contare sull’appoggio di cristiani, drusi, alawiti e sulla middle-class sunnita, oltre il 50% della popolazione: ma potrebbe non bastare.
Se Bashar al Assad vuole restare in sella e far cessare il bagno di sangue nel Paese deve mettere in pratica quanto esposto al nuovo gabinetto sabato e attuarlo quanto prima.

 

Bahrein: interessa a qualcuno?

La persecuzione contro la popolazione shiita in Bahrein non è cosa nuova, ma ora sta raggiungendo proporzioni epiche: le forze saudite, intervenute “per restaurare l’ordine” in Bahrein picchiano, stuprano, ammazzano a piacimento qualsiasi persona sia solo in sospetto di essere shiita, magari semplicemente perché non espone la foto del re al Khalifa. Quest’ultimo, in carica dal 2002, finge si tratti d’una questione di “lotta fra sette”, dove gli shiiti vorrebbero ribaltare il potere sunnita, con l’aiuto dell’Iran: e così, agitando lo spettro dell’estensione dell’influenza degli ayatollah nel Golfo, raduna consensi e aiuti per massacrare i suoi sudditi, che reclamano solo maggiore partecipazione alla vita dello Stato e il riconoscimento di diritti elementari. La famiglia al Khalifa in questi anni ha addirittura favorito l’immigrazione di sunniti, che ora, ovviamente, appoggiano la casata reale, incuranti del fatto che le riforme costituzionali promesse negli anni ’70 non siano mai state varate: tanto, per loro, scatta il meccanismo dei benefici concessi a chi appoggia il regime, mentre gli shiiti, per il solo fatto d’essere tali, vengono esclusi dalla vita pubblica e discriminati nei luoghi di lavoro e nell’arena sociale.

Il mondo, compreso quello arabo, sembra essersi dimenticato di quello che ha provocato in Iraq l’accentuazione del conflitto in termini di “sunnismo contro shiismo” e ignora quest’ultima vessazione da parte dell’Arabia Saudita con la complicità di altri paesi del Golfo e l’appoggio, più o meno tacito, di potenze occidentali. Sabato 16 aprile il Guardian ha pubblicato una scioccante testimonianza di un cittadino shiita del Bahrein che racconta di quanto sta succedendo all’interno del Paese: per quanto vogliamo ancora far finta di ignorare questa drammatica situazione?

Veli islamici:opinioni discordanti in Francia e Turchia

 

Mentre infuria la polemica sulla decisione francese di rendere il velo integrale un reato, e sono già scattate le prime misure contro le donne che vi si oppongono (ma la Francia non era il paese dell’uguaglianza e della libertà? E da quando in qua arrestare donne che protestano pacificamente è una misura atta a garantire la libertà delle donne stesse?), pure in Turchia infuria una polemica su un tema analogo, ma per diversi motivi. Ha destato infatti enorme scalpore l’opinione di Orhan eker, docente di Teologia all’università di Seluk, il quale sostiene che le turche sarebbero frequenti vittime di assalti sessuali a causa del loro abbigliamento troppo libero e “invitante”. La Turchia vanta un tristissimo record di violenza sulle donne, primato cresciuto esponenzialmente in questi ultime decadi, nelle quali, tra l’altro, l’uso di una qualche forma di velo da parte delle donne è in continua crescita. Nella civilissima Turchia sono in aumento non solo i casi di stupri e/o violenze di tipo sessuale, ma pure gli assassini configurati quali “delitti d’onore”: questi ultimi nel solo 2010 hanno mietuto più di 200 vittime. Fra le vari voci levatesi contro l’infelice uscita di eker si conta pure quale della teologa Hidayet Şefkatli Tuksal, esponente dell’associazione di femministe islamiche Başkent Kadin Platform (Piattaforma delle Cittadine), la quale ha sottolineato come purtroppo il velo non sia un deterrente contro le violenze sessuali, visto che ne rimangono vittime pure le donne che adottano le forme di hejab più rigorose.

Inoltre, il 90% delle donne turche che subiscono forme di violenza sono vittime di familiari o uomini del loro entourage, inclusi insegnanti o mentori di varia specie. Ma per i patriarchi come eker, la colpa è comunque solo delle donne, velate o non.

 

I Mujahedin e Khalq non sono più terroristi…

…ovvero, Europa e Stati Uniti commettono ancora errori di valutazione (e non solo).

Riassumiamo in breve la vicenda che da qualche mese è venuta alla ribalta. I Mujahedin e Khalq sono un’organizzazione “Marxista-islamista” sorta in Iran che ha disseminato panico e morti  prima combattendo contro lo shah e poi contro i capi della Rivoluzione Islamica. Ai tempi della guerra Iraq-Iran si sono rifugiati nel paese di Saddam Hussein, combattendo contro l’Iran (cosa che non li ha resi simpatici agli occhi dei connazionali). Riconosciuti internazionalmente come “terroristi”, son riusciti a farsi sdoganare dalle liste del terrorismo europeo nel 2009, mentre sono rimasti più a lungo nella lista dell’ufficio anti terrorismo del Dipartimento di Stato americano, probabilmente perché i Mujahedin hanno colpito più volte soprattutto obiettivi (umani) statunitensi. Ma ora anche gli US stanno per  depennarli dalla lista delle organizzazioni pericolose, vuoi perché i Mujahedin avrebbero fornito importanti informazioni sul programma nucleare in atto nella Repubblica Islamica, vuoi perché i Mujahedin stanno cavalcando l’onda dell’opposizione in atto in Iran, proponendosi come agenti attivi della stessa e , quindi, come forza democratica. In realtà, le loro credenziali democratiche sono inesistenti, e a casa loro non hanno supporto. Tanto che Ahmadinejad &co. cercano di discreditare i sostenitori dell’Onda Verde sostenendo che sarebbero in combutta proprio con i Mujahedin.

Insomma, gli US stanno per ricadere nel tranello “i nemici dei miei nemici….”. Evidentemente l’esperienza in Afghanistan (dove si sono fidati dei Taleban), in Iraq (ricordiamoci della pericolosa amicizia con Ahmed Chalabi che aveva spinto l’invasione sicuro che Saddam possedesse armi letali), tanto per citare due casi notori, non è bastata.

Così, mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sul Mediterraneo in fiamme, altrove si consumano altri drammi.

Sha’ria: legge immutabile o interpretabile da chi ha il potere?

Leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 29/3/201.

In questi giorni è tornata alla ribalta la vicenda di Asia Bibi, la pachistana incarcerata con l’accusa di blasfemia dopo la denuncia di vicine che l’avrebbero sentita inveire contro il profeta Maometto, e per essersi poi rifiutata di convertirsi. L’arresto di Bibi ha provocato tensioni in Pakistan, dove vige la pena capitale per blasfemia e apostasia, sfociate in disordini durante i quali sia il governatore del Punjab sia il ministro delle Minoranze religiose, a favore dell’abolizione di tale legge, sono stati assassinati.
La vicenda riporta alla ribalta il problema delle minoranze cristiane (o di altre fedi) in una società in cui la religione islamica è preponderante e delle gravi intolleranze di cui spesso sono vittime. Poco importa che né il Corano (che proibisce la conversione forzata, Sura 2:26) né eventi storici legati a Maometto corroborino l’idea che chi non è musulmano vada ucciso; e neppure che giuristi islamici si siano chiaramente espressi contro la barbara interpretazione. Agli amministratori dei Paesi dove la tensione tra musulmani e minoranze è più grave (Pakistan, Nigeria, Egitto, India) importa sviare l’opinione pubblica dalle loro malefatte, favorendo l’opera di capi religiosi fanatici che aizzano le folle contro i cristiani «nemici» distogliendo l’attenzione da malgoverno e corruzione.
L’ossessione di molti legislatori islamici sulla libertà di religione svela altri risvolti: in alcuni Paesi, pure le conversioni all’islam da parte di aderenti ad altre religioni sono ostacolate, soprattutto se le aspiranti musulmane sono donne. Negli Stati in cui divorziare è difficile, vi sono donne convertitesi provvisoriamente all’islam (in cui lo scioglimento del matrimonio è più semplice) per liberarsi dal vincolo, e poi tornate alla religione originaria. Questo uso della conversione ha spinto molti pensatori islamici ad invocare pene severe per le apostate. Ma si è pure verificato il caso in Kuwait di donne che, sfidando pene severe, hanno tentato di liberarsi di sgradevoli connubi fingendo di convertirsi ad altra religione: così non c’è neppure bisogno di rivolgersi ad una corte, poiché il legame tra un musulmano e una donna che non lo è viene automaticamente sciolto. Per chiudere la «pericolosa porta di libertà», le autorità kuwaitiane hanno deciso che l’apostasia femminile non conduce all’immediato scioglimento del matrimonio. Così hanno confermato che le leggi religiose cui molti s’appellano per giustificare il controllo sulla società possono essere modificate: conta solo il potere di chi le gestisce.

Di nuovo in guerra per “motivi umanitari”

Leggi il mio articolo nel Giornale di Brescia 22/3/2011

Il 2011, iniziato con la speranza disseminata dai movimenti non violenti sviluppatisi in Nord Africa e richiedenti democrazia e giustizia, rischia di tramutarsi in un anno di rivoluzioni tanto incompiute quanto sanguinarie. L’attenzione del mondo è, ovviamente, catalizzata dalla situazione in Libia, dove le forze dell’Alleanza occidentale stanno intervenendo contro il regime di Gheddafi.
Un intervento discutibile, per molti motivi: ammesso che si tratti di un «intervento umanitario», verrebbe allora da chiedersi perché non ci si mobiliti pure per le popolazioni civili in Yemen e Bahrein, entrambe esposte alla brutale repressione dei loro regimi. Certo, l’intervento occidentale in Libia pare avere la benedizione della Lega Araba, che non si è espressa invece in merito ai conflitti civili in Yemen e Bahrein, per ovvi motivi: se molti regimi arabi e gli US ritengono il rais yemenita Saleh «baluardo contro al Qaeda», gli stessi sospettano che dietro alle sommosse contro Al Khalifa del Bahrein ci sia il sostegno dell’Iran. Per cui, piuttosto che una possibile paventata espansione di al-Qaeda e degli ayatollah iraniani, meglio tenere in sella crudeli tiranni che ammazzano i propri sudditi.
Nessuno si muove in aiuto ai cittadini di quei due Stati, forse cinicamente sperando solo che le cose si acquietino in qualche modo e si possa continuare a correrci il Grand Prix.
Sul parere interventista della Lega Araba pesano, inoltre, vari sospetti; di certo i Paesi aderenti sperano che, d’ora in poi, si instauri un principio importante: nessun intervento delle truppe occidentali sarà più possibile senza il loro placet. Ma con che autorità si esprime una Lega i cui associati sono perlopiù Paesi, come lo Yemen o l’Arabia Saudita, governati da leader delegittimati o violentemente contestati dagli stessi loro cittadini? Sorge il dubbio che i Paesi della Lega Araba vogliano solo stornare l’attenzione pubblica da quanto sta succedendo al loro interno e che non siano sicuri delle proprie azioni. Infatti non solo non hanno dato supporto logistico alle operazioni Onu-Us in Libia, ma stanno già facendo marcia indietro: vedi la dichiarazione del segretario della Lega, Amir Moussa, che si è lagnato sulle modalità dell’intervento bellico franco-inglese anti Gheddafi.
Forse, questi regimi arabi si stanno rendendo conto che ora rischiano di essere detronizzati tanto dalla rivolta interna quanto da un possibile intervento straniero. L’intervento militare in Libia, insomma, si fonda su una serie di ipocrisie e di valutazioni sbagliate, sia da parte occidentale sia da parte della Lega Araba e, soprattutto, su un principio di legittimazione che non esiste: l’operazione è stata avallata dall’insolito supporto di regimi ormai delegittimati. Speriamo di non dover pagare, in futuro, un prezzo troppo alto per tale azzardata valutazione

Il Comitato per l’islam italiano, maschilista nei toni e nei fatti

Il Comitato per l’islam italiano, insediato presso il Ministero degli Interni lo scorso anno, e’ noto per le sue difficoltà, dal momento che contempla nel suo seno un’esigua minoranza di musulmani e di esperti in materia, mentre invece abbondano noti polemisti anti islam. Questa sbilanciata composizione continua a favorire prese di posizioni paradossali e discriminatorie proprio nei confronti dei musulmani.

L’ultimo documento stilato lo scorso 11 marzo (e disponibile sul sito del Viminale) in merito alle vicende che coinvolgono gli stati delle sponde meridionale e orientale del Mediterraneo, oltre ad essere intriso di banalità (le rivolte sono frutto di “una mobilitazione con una forte componente generazionale“); di mancanza d’informazione (il Comitato non prende in considerazione la situazione in Libia per “oggettiva complessità della situazione e dell’attuale scarsa decifrabilità“: ma allora, che ci sta a fare?); e del solito spauracchio della miscela “migrazione e islam (“al momento vi è solo una situazione di confusione e di incertezza, che determina una forte spinta all’emigrazione; ed è fuori di dubbio che quando c’è immigrazione senza controllo c’è spazio per le infiltrazioni da parte di criminali e di terroristi”), il comunicato sfiora il ridicolo sostenendo che la rivolta in Tunisia sarebbe stata animata da “giovani maschi [che] hanno lottato per ottenere il riconoscimento di fondamentali diritti umani”!

Oltre alla palese menzogna di simile affermazione, contraddetta se non altro dai numerosi servizi fotografici e televisivi che dimostrano l’intensa partecipazione femminile alle proteste per l’affermazione della democrazia, il linguaggio del Comitato è maschilista e discriminatorio. Come, del resto, la sua stessa composizione, che prevede solo una donna nel suo seno. Dal momento che il dibattito italiano è inflazionato da chi vuol sottolineare la presunta inferiorità delle donne nell’islam, non sarebbe ora che le istituzioni dessero un segno opposto, favorendo una maggiore partecipazione delle donne musulmane almeno negli organismi che le riguardano da vicino?