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Il memoriale di Taj as-Soltaneh, principessa Qajar (Iran)

41zOFiHFcmL._BO2,204,203,200_PIsitb-sticker-v3-big,TopRight,0,-55_SX278_SY278_PIkin4,BottomRight,1,22_AA300_SH20_OU01_Taj as-Soltaneh, principessa della casa reale Qajar (fine XVIII- inizi del XX secolo) è la prima donna d’Iran di cui ci resta un diario. Il racconto della sua vita ci offre un’inusuale prospettiva sui profondi cambiamenti che sconvolsero la società iraniana a cavallo tra i due secoli. Le pagine di questa narrazione ci traghettano dal dorato quanto angusto harem reale al movimento femminista d’Iran di cui Taj as-Soltaneh fu una delle prime animatrici.

a cura del Centro Essad Bey

http://www.amazon.it/Memorie-una-principessa-persiana-Qajar-ebook/dp/B00JO8ML4C/ref=sr_1_8?s=books&ie=UTF8&qid=1397549294&sr=1-8&keywords=vanzan+anna

 

Quote rosa e tradimenti

28560790_italicum-il-voto-slitta-dopo-il-funerale-delle-quote-rosa-che-renzi-manterr-0...quando le nazioni riescono finalmente a liberarsi, alle donne si chiede di fare un passo indietro in nome dell’unità nazionale. I diritti delle donne sono un genere di lusso che possono attendere fintanto che sia completato  il processo di nation building; di conseguenza, le donne che hanno contribuito alla caduta del colonialismo rimangono escluse non solo dalla condivisione del potere politico, ma pure da un giusto riconoscimento dei loro diritti fondamentali

Ho scritto queste considerazioni in un articolo a proposito dei movimenti femministi nei paesi colonizzati in Nord Africa e Medio Oriente negli anni ’50. Ma purtroppo queste parole si adattano alla situazione italiana dei nostri giorni.

 

25 Novembre, giornata per l’eliminazione delle vioenze contro le donne. Un mio pensiero per le donne di Libia

Una versione di questo art. è pubblicato sul Giornale di Brescia di oggi:

Da oltre dieci anni, le Nazioni Unite hanno designato il 25 novembre quale giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Se le vessazioni domestiche sono un problema che, purtroppo, accomuna tutte le donne del mondo, vi sono aree in cui esse subiscono una doppia violenza dovuta alle vicissitudini politiche del loro Paese. E’ il caso delle donne dei paesi arabi i quali, dal nord Africa al Golfo Persico, sono in preda a cambiamenti epocali dall’esito futuro ancora incerto e dove uomini e donne si confrontano quotidianamente con la brutalità con la quale i governi rispondono alle legittime domande dei cittadini.

In queste situazioni le donne non stanno semplicemente “cucendo le bandiere”, per usare una famosa immagine risorgimentale cara anche da noi, ma, dopo aver aiutato i connazionali a scardinare i regimi dittatoriali, lottano ora per costruire nuove democrazie nelle quali anche i loro diritti dovrebbero trovare la giusta collocazione.

E’ il caso della Libia, già peraltro scomparsa dall’attenzione internazionale che per mesi è rimasta focalizzata quasi esclusivamente sul destino del suo leader e su quello delle risorse petrolifere e delle loro possibili distribuzioni fra le potenze europee.

Viceversa, le donne libiche hanno apportato un contributo essenziale al rovesciamento di Gheddafi, giocando un ruolo sia tradizionale (gestendo cucine da campo e postazioni di soccorso sanitario per profughi e rivoltosi), sia più innovativo quale, ad esempio, quello svolto delle impiegate governative che hanno fornito informazioni utili ai ribelli; o quello delle donne che hanno contrabbandato armi destinate agli stessi. Molte hanno pagato un prezzo assai alto, con la loro vita o rimanendo vittime di stupro, strumento sempre usato nelle situazioni belliche, soprattutto quando gli attori sono animati da presunte istanze tribali e/o etniche, come avvenuto nel caso libico.

E proprio nel carattere tribale che parzialmente forma l’identità libica risiederebbe, in parte, l’ostilità a un’effettiva partecipazione politica delle donne nel prossimo governo; mentre, d’altro canto, una manipolata versione della religione islamica sta già paventando alle libiche una riduzione dei loro diritti. Non è tanto l’annunciata probabile assunzione della shari’a come parte integrante del diritto libico che spaventa le cittadine (ricordiamo, peraltro, che molte istituzioni sharitiche sono già presenti nei codici libici, seppure in versione “gheddafiana”); ma temono, piuttosto, la possibile imposizione di un’interpretazione monolitica (ovvero, patriarcale e misogina) della legge islamica.

Dal punto di vista delle donne la Libia è un paese ricco di contraddizioni, dove esse rappresentano solo il 25% della forza lavorativa del Paese, ma dove, altresì, in una città conservatrice come Bengasi costituiscono il 40% degli avvocati: un’ennesima riprova delle luci e ombre nelle politiche gheddafiane, comprese quelle di genere.

Ora, il bagno di sangue libico può comportare due conseguenze opposte per il destino delle donne, come già sperimentato in altri, recenti teatri di guerra: da un lato, frenarne bruscamente l’avanzata (come successo in Iraq); dall’altro, essere foriero di un impeto verso le istituzioni democratiche, come testimonia il Ruanda, un tempo flagellato da un’orrenda guerra civile, ora fra i paesi a maggiore rappresentanza parlamentare femminile al mondo.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sha’ria: legge immutabile o interpretabile da chi ha il potere?

Leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 29/3/201.

In questi giorni è tornata alla ribalta la vicenda di Asia Bibi, la pachistana incarcerata con l’accusa di blasfemia dopo la denuncia di vicine che l’avrebbero sentita inveire contro il profeta Maometto, e per essersi poi rifiutata di convertirsi. L’arresto di Bibi ha provocato tensioni in Pakistan, dove vige la pena capitale per blasfemia e apostasia, sfociate in disordini durante i quali sia il governatore del Punjab sia il ministro delle Minoranze religiose, a favore dell’abolizione di tale legge, sono stati assassinati.
La vicenda riporta alla ribalta il problema delle minoranze cristiane (o di altre fedi) in una società in cui la religione islamica è preponderante e delle gravi intolleranze di cui spesso sono vittime. Poco importa che né il Corano (che proibisce la conversione forzata, Sura 2:26) né eventi storici legati a Maometto corroborino l’idea che chi non è musulmano vada ucciso; e neppure che giuristi islamici si siano chiaramente espressi contro la barbara interpretazione. Agli amministratori dei Paesi dove la tensione tra musulmani e minoranze è più grave (Pakistan, Nigeria, Egitto, India) importa sviare l’opinione pubblica dalle loro malefatte, favorendo l’opera di capi religiosi fanatici che aizzano le folle contro i cristiani «nemici» distogliendo l’attenzione da malgoverno e corruzione.
L’ossessione di molti legislatori islamici sulla libertà di religione svela altri risvolti: in alcuni Paesi, pure le conversioni all’islam da parte di aderenti ad altre religioni sono ostacolate, soprattutto se le aspiranti musulmane sono donne. Negli Stati in cui divorziare è difficile, vi sono donne convertitesi provvisoriamente all’islam (in cui lo scioglimento del matrimonio è più semplice) per liberarsi dal vincolo, e poi tornate alla religione originaria. Questo uso della conversione ha spinto molti pensatori islamici ad invocare pene severe per le apostate. Ma si è pure verificato il caso in Kuwait di donne che, sfidando pene severe, hanno tentato di liberarsi di sgradevoli connubi fingendo di convertirsi ad altra religione: così non c’è neppure bisogno di rivolgersi ad una corte, poiché il legame tra un musulmano e una donna che non lo è viene automaticamente sciolto. Per chiudere la «pericolosa porta di libertà», le autorità kuwaitiane hanno deciso che l’apostasia femminile non conduce all’immediato scioglimento del matrimonio. Così hanno confermato che le leggi religiose cui molti s’appellano per giustificare il controllo sulla società possono essere modificate: conta solo il potere di chi le gestisce.