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25 Novembre, giornata per l’eliminazione delle vioenze contro le donne. Un mio pensiero per le donne di Libia

Una versione di questo art. è pubblicato sul Giornale di Brescia di oggi:

Da oltre dieci anni, le Nazioni Unite hanno designato il 25 novembre quale giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Se le vessazioni domestiche sono un problema che, purtroppo, accomuna tutte le donne del mondo, vi sono aree in cui esse subiscono una doppia violenza dovuta alle vicissitudini politiche del loro Paese. E’ il caso delle donne dei paesi arabi i quali, dal nord Africa al Golfo Persico, sono in preda a cambiamenti epocali dall’esito futuro ancora incerto e dove uomini e donne si confrontano quotidianamente con la brutalità con la quale i governi rispondono alle legittime domande dei cittadini.

In queste situazioni le donne non stanno semplicemente “cucendo le bandiere”, per usare una famosa immagine risorgimentale cara anche da noi, ma, dopo aver aiutato i connazionali a scardinare i regimi dittatoriali, lottano ora per costruire nuove democrazie nelle quali anche i loro diritti dovrebbero trovare la giusta collocazione.

E’ il caso della Libia, già peraltro scomparsa dall’attenzione internazionale che per mesi è rimasta focalizzata quasi esclusivamente sul destino del suo leader e su quello delle risorse petrolifere e delle loro possibili distribuzioni fra le potenze europee.

Viceversa, le donne libiche hanno apportato un contributo essenziale al rovesciamento di Gheddafi, giocando un ruolo sia tradizionale (gestendo cucine da campo e postazioni di soccorso sanitario per profughi e rivoltosi), sia più innovativo quale, ad esempio, quello svolto delle impiegate governative che hanno fornito informazioni utili ai ribelli; o quello delle donne che hanno contrabbandato armi destinate agli stessi. Molte hanno pagato un prezzo assai alto, con la loro vita o rimanendo vittime di stupro, strumento sempre usato nelle situazioni belliche, soprattutto quando gli attori sono animati da presunte istanze tribali e/o etniche, come avvenuto nel caso libico.

E proprio nel carattere tribale che parzialmente forma l’identità libica risiederebbe, in parte, l’ostilità a un’effettiva partecipazione politica delle donne nel prossimo governo; mentre, d’altro canto, una manipolata versione della religione islamica sta già paventando alle libiche una riduzione dei loro diritti. Non è tanto l’annunciata probabile assunzione della shari’a come parte integrante del diritto libico che spaventa le cittadine (ricordiamo, peraltro, che molte istituzioni sharitiche sono già presenti nei codici libici, seppure in versione “gheddafiana”); ma temono, piuttosto, la possibile imposizione di un’interpretazione monolitica (ovvero, patriarcale e misogina) della legge islamica.

Dal punto di vista delle donne la Libia è un paese ricco di contraddizioni, dove esse rappresentano solo il 25% della forza lavorativa del Paese, ma dove, altresì, in una città conservatrice come Bengasi costituiscono il 40% degli avvocati: un’ennesima riprova delle luci e ombre nelle politiche gheddafiane, comprese quelle di genere.

Ora, il bagno di sangue libico può comportare due conseguenze opposte per il destino delle donne, come già sperimentato in altri, recenti teatri di guerra: da un lato, frenarne bruscamente l’avanzata (come successo in Iraq); dall’altro, essere foriero di un impeto verso le istituzioni democratiche, come testimonia il Ruanda, un tempo flagellato da un’orrenda guerra civile, ora fra i paesi a maggiore rappresentanza parlamentare femminile al mondo.