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Un ricettario italiano per avvicinare l’Iran

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APPETITO. Italian Taste

Angelica Rossi-Tresa Maria Schutzmann-Sahar Salimian.Gooya House, Tehran, 2018 ISBN 978-600-8064-16-9.

Pubblicazione quantomeno singolare questa raccolta di ricette di cucina italiana in doppia lingua, inglese e persiano. Curata da un’italiana che ora vive in Iran, un’europea cresciuta a Roma nel culto della nostra tradizione culinaria e un’iraniana che lavora nell’hotellerie, questa operazione apparentemente nostalgica (nella prefazione le autrici parlano di nostalgia di casa e del loro attaccamento alle radici come uno dei motivi che le hanno spinte a collezionare quest’imponente ricettario) rappresenta molto di più. Immediatamente mi ha ricordato una conversazione avuta anni fa con Mohammad Ghanonparvar, grande studioso di letteratura persiana che ha trascorso la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti, il quale mi aveva confessato che il suo libro di maggior successo negli US era stato un libro di cucina persiana che lui e l’amata moglie americana avevano scritto agli inizi degli anni ’80. Anche quel momento storico era assai difficile per i rapporti Iran-US, la Rivoluzione e la crisi degli ostaggi americani trattenuti nello loro ambasciata di Tehran per circa un anno aveva creato un clima di ostilità nei confronti dei peraltro numerosi iraniani trasferitisi negli US che consentiva scarse manovre anche nel campo culturale. Ghanoonparvar vedeva solo sguardi ostili attorno ed era impensabile proporre traduzioni dalla lingua persiana o saggi sulla cultura iraniana a case editrici al di fuori di un ristretto circolo accademico. Fu allora, mi disse, che lui e la moglie pensarono a un libro di cucina, perché il cibo unisce, come un ponte.

Anche ora, più che mai, servono ponti, e il significato di APPETITO non è certo sfuggito a un’ambasciatrice culturale come Tiziana Buccico che ha presentato il libro alla recente Fiera del Libro di Tehran 2019.

C’è da chiedersi, però, perché, dopo 40 anni, siamo tornati alla tensione di allora, perché in questo periodo abbiamo costantemente demonizzato l’Iran, non solo il suo regime, ma pure i suoi abitanti. Al punto che le recenti inondazioni che hanno squassato ampi territori dell’altopiano, provocando morti, feriti, distruzioni che rincarano la dose di forte disagio vissuta dalla popolazione di laggiù -dovuta alle ingiuste sanzioni imposte da Washington che hanno l’unico effetto di creare povertà tra la popolazione che nulla a che fare con la direzione politica del paese- hanno avuto scarsissima eco qui da noi e solo una debole frangia dell’usuale catena della solidarietà è arrivata a recare soccorso agli iraniani colpiti dal disastro.

Ben venga quindi questo ricettario che ci ricorda che noi italiani siamo più vicini alla cultura persiana di qualsiasi altro popolo occidentale, e che non dovremmo farci travolgere dall’odio dettato dalle meschine ragioni politiche ed economiche altrui.

Iran indispensabile per sconfiggere IS

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Come al solito, anche quest’ennesimo giro di consultazioni sul nucleare iraniano conclusosi a Vienna in settimana lascia spazio ai commenti più disparati; si va dal cauto ottimismo ufficiale statunitense, alle perplessità britanniche, alla fiducia degli iraniani che si giungerà a un accordo prima della fatidica scadenza del 24 novembre.

Sul tema del nucleare sembra però essere calata una sorta di distrazione, essendo gli occhi di tutti fissati sul caos nella regione mediorientale in cui proprio l’Iran occupa un posto cruciale. La possibile risoluzione contro la minaccia dello Stato Islamico (IS), però, potrebbe scaturire proprio da un accordo sul nucleare, come hanno chiaramente fatto capire tanto il Presidente iraniano Rouhani quanto il suo ministro degli esteri Zarif, i quali hanno prospettato un attivo intervento anti IS da parte di Tehran qualora si giunga a una soluzione per loro accettabile sulle centrifughe dell’altopiano.

Che Tehran voglia impegnarsi nell’eliminare la piaga dell’IS è indiscutibile, tant’è che ha affrontato l’argomento con i nemici di sempre, i sauditi, cercando un’intesa comune per risolvere il marasma nell’area; e ciò nonostante l’IS sia anche figlio della politica saudita tesa a combattere gli sciiti e indebolire l’Iran sullo scacchiere mediorientale e internazionale.

I sauditi sono partner inaffidabili, sempre pronti a combattere l’affermazione politica degli sciiti, sia essa democraticamente acquisita (come in Iraq) o grazie alle armi, come accade in Yemen dove i miliziani sciiti Houthi si stanno allargando.

Anche Ankara, per vari motivi, non sembra seriamente intenzionata a combattere attivamente l’IS, per cui l’Iran si sta guardando intorno, cercando alleanze con le altre monarchie arabe del Golfo.

Un’ulteriore affermazione dell’Is in Iraq significherebbe per Tehran perdere uno dei maggiori partner commerciali, nonché la zona di installo di un grandioso gasdotto che in futuro dovrebbe trasportare il combustibile iraniano verso ovest. Oltre alla possibile perdita economica, vi è quella storico-simbolica: l’IS minaccia i luoghi santi degli sciiti, i più importanti dei quali si trovano in territorio iracheno. Ma, al momento, l’Iran non si è seriamente impegnato militarmente: l’unica presenza bellica iraniana in Iraq è costituita dalla brigata Al Qods, un contingente di circa 5mila uomini solitamente impiegato per l’addestramento. Piuttosto, Tehran ha per prima fornito armi al governo del Kurdistan, fatto, questo, non scontato, dal momento che l’Iran è da sempre un paese multietnico dove, fra i diversi gruppi che periodicamente insorgono richiedendo spazi di autonomia, i curdi rappresentano la comunità più bellicosa. Si tratta di uno scambio fruttuoso, ma non privo di possibili pericoli futuri per Tehran.

Il pragmatismo della Repubblica Islamica si è già rivelato in occasione della rimozione del primo ministro iracheno Maliki, un tempo caro alle autorità iraniane, ma poi dalle stesse sacrificato in quanto reo di aver agevolato, con il suo eccessivo settarismo, il malcontento nella minoranza sunnita irachena e la crescita del movimento d’opposizione confluito nell’IS.

Ecco perché un’alleanza non scritta tra Iran e gli Stati Uniti in funzione anti IS è possibile: ma perché essa non provochi poi malumori nel mondo arabo-sunnita, quest’ultimo deve necessariamente esserne coinvolto.

 

da Giornale di Brescia 19/10/2014

La crisi in Iraq

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Siria e Iraq: due entità prossime alla disgregazione, preda di devastanti guerre interne fra gruppi che si fronteggiano sotto opposte bandiere religiose che in realtà rappresentano interessi politici ed economici precisi. Su tutti pare primeggiare il neonato gruppo jihadista dapprima denominatosi Stato Islamico per l’Iraq e la Siria (ISIS) ma che ora, visto il suo successo quasi insperato (poche migliaia di uomini sono riusciti a conquistare mezzo Iraq e i territori siriani confinanti) si è proclamato Stato Islamico tout court, affermando di voler sottomettere l’intero mondo musulmano. La rapida avanzata dell’ISIS preoccupa l’Iran, per il quale il confinante Iraq al momento governato dallo sciita al-Maliki rappresenta un alleato importante: basti pensare che lo scambio commerciale fra i due Paesi nello scorso anno ha toccato i 12 miliardi di dollari, cifra che le rispettive autorità contavano di raddoppiare nel 2014. Per l’Iran, l’Iraq ha altresì un valore simbolico, in quanto sul suo territorio sono disseminati i santuari più importanti per il culto sciita, tant’è che Tehran s’è affrettata a inviare truppe scelte proprio a proteggerli.

Anche gli Stati Uniti valutano un intervento militare, ma, in realtà, ciò che è di primaria importanza è avviare un’immediata azione politica. Innanzitutto rimuovendo al-Maliki, beniamino tanto di Tehran quanto di Washington, che rappresenta però la causa principale del successo dell’ISIS in Iraq, dove i sunniti maltrattati dalla politica partigiana del primo ministro hanno spalancato le porte, alcuni addirittura gettando la divisa militare nazionale per vestire la lugubre uniforme dei guerriglieri islamici. Tra l’altro, al-Maliki è inviso agli stessi sciiti iracheni, soprattutto ai leader religiosi del movimento, quali il grande ayatollah al-Sistani (massima carica sciita nel Paese) e addirittura Muqtada al-Sadr, il religioso a capo di un proprio gruppo armato, che un tempo fu sostenitore di al Maliki. Tanto al-Sistani quanto al-Sadr hanno ripetutamente sconfessato al-Maliki e la sua politica di marginalizzazione nei confronti dei sunniti, che ha procurato solo ripetuti atti di terrorismo nei confronti degli sciiti, e hanno invocato un nuovo gabinetto. Anche Nechirvan Barzani, capo del governo regionale del Kurdistan, si è espresso in questo senso, dichiarando che i curdi non nutrono alcuna fiducia nei confronti di al-Maliki.

La soluzione politica, però, richiede l’accordo tra Iran e Stati Uniti, che hanno da poco ricominciato a parlarsi, ma fra i quali esiste tutt’ora una sfiducia di base; tanto che il Segretario di Stato Americano John Perry continua a cercare alleati anti crisi a Riyadh, dimenticando, tra l’altro, che i sauditi non sono senza colpe nella formazione di gruppi jihadisti che costantemente minacciano gli equilibri in Medio Oriente e oltre.

Su un punto Washington e Tehran convergono, seppure per ragioni differenti, ovvero sull’intenzione di lasciare Assad al posto di comando: l’Iran perché considera il dittatore di Damasco un alleato irrinunciabile, gli Stati Uniti perché pensano che un governante che da anni sistematicamente bombarda e gasa i propri concittadini rappresenti il male minore. Eppure i militanti dell’ISIS sono nati in Siria come prodotto conseguente alla sconsiderata politica di Assad, e di ciò tutti, tanto in Occidente quanto in Medio Oriente, dovrebbero tenere immediato conto.

Giornale di Brescia 7/7/2014

Iraq e lotta per la leadership nell’area

Unrest in Iraq

La conquista di Mosul e di Tikrit da parte delle forze dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conferma che la sigla non raccoglie vari gruppi di estremisti disorganizzati e senza un piano, ma costituisce un vero e proprio esercito in grado di impadronirsi della seconda città dell’Iraq, impossessandosi di ingenti risorse (si parla di centinaia di milioni di dollari rubati alle banche locali) e costituendo una preoccupante sfida non solo al governo di Baghdad, ma all’intera area.

Che non si potesse contare sul debole e corrotto governo di Maliki era notorio: tra le varie colpe del premier va annotata pure la trasformazione della forza di sicurezza nazionale in un corpo di polizia personale volto a controllare e reprimere i suoi nemici politici anziché difendere il Paese. Resta da capire, però, come abbiano fatto migliaia di uomini a trasferirsi dalla Siria senza essere intercettati, ad arruolare quegli iracheni (perlopiù sunniti, molti dei quali appartenenti alla vecchia guardia di Saddam) colpiti dalla politica settaria e corrotta di Maliki e a diventare una minaccia per la regione.

Il governo iraniano, in particolare, è preoccupato per questo rafforzamento di un’enclave jihadista/sunnita in Iraq e dalla minaccia dell’ISIS di colpire i santuari sciiti di Najaf e Karbala. A Tehran, però, i toni sono assai più cauti che in passato, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, da sempre accusata di essere il principale finanziatore dell’ISIS, ma con la quale ultimamente c’è un stato un riavvicinamento diplomatico. Nel web circolano i commenti del capo delle forze rivoluzionarie iraniane, Ghassem Suleimani, il quale promette aiuto e protezione ai correligionari sciiti iracheni e ai loro luoghi sacri, ma un consistente impegno militare iraniano appare quanto mai improbabile, giacché il teatro di guerra siriano drena da tempo ingenti risorse militari e finanziarie. Di certo, la piega che stanno prendendo gli eventi iracheni comporta un serio indebolimento delle aspirazioni iraniane alla leadership nell’area, e marca l’apparente vittoria dell’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran.

Neppure i sauditi, però, possono essere contenti di questa affermazione del fronte jihadista, anche se ne hanno abbondantemente finanziato alcuni gruppi, fintanto che questi rimanevano in Siria a fare da barriera anti-Iran. Ora però che gli islamisti militanti si sono aggregati sotto la bandiera dell’ISIS e perseguono un stato che contrasta e sfida le pretese saudite di rappresentare l’unica e legittima autorità del mondo islamico, i sauditi cercano di prenderne le distanze.

Totalmente sconfitti appaiono gli Stati Uniti, che raccolgono l’ennesimo fiasco dopo una lunga e costosa operazione di “democratizzazione” in Medio Oriente, con conseguente pericolo per la sicurezza del Golfo e il transito del petrolio.

Il principale perdente, comunque, è la società civile irachena che ripiomba nel caos dopo oltre un decennio di enormi difficoltà e pochi vantaggi ricevuti nel post Saddam, sacrificata dalle mire egemoniche delle potenze confinanti. Un intervento diplomatico appare pressoché impossibile, anche perché l’ISIS è perlopiù animato da combattenti interessati solo alla opzione militare, fino alla morte. Una posizione estrema che, paradossalmente, potrebbe provocare la sua implosione.

da Giornale di Brescia, 13/6/2014

L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana

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Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.

Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.

Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.

da Giornale di Brescia 9/9/2013