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Iran indispensabile per sconfiggere IS

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Come al solito, anche quest’ennesimo giro di consultazioni sul nucleare iraniano conclusosi a Vienna in settimana lascia spazio ai commenti più disparati; si va dal cauto ottimismo ufficiale statunitense, alle perplessità britanniche, alla fiducia degli iraniani che si giungerà a un accordo prima della fatidica scadenza del 24 novembre.

Sul tema del nucleare sembra però essere calata una sorta di distrazione, essendo gli occhi di tutti fissati sul caos nella regione mediorientale in cui proprio l’Iran occupa un posto cruciale. La possibile risoluzione contro la minaccia dello Stato Islamico (IS), però, potrebbe scaturire proprio da un accordo sul nucleare, come hanno chiaramente fatto capire tanto il Presidente iraniano Rouhani quanto il suo ministro degli esteri Zarif, i quali hanno prospettato un attivo intervento anti IS da parte di Tehran qualora si giunga a una soluzione per loro accettabile sulle centrifughe dell’altopiano.

Che Tehran voglia impegnarsi nell’eliminare la piaga dell’IS è indiscutibile, tant’è che ha affrontato l’argomento con i nemici di sempre, i sauditi, cercando un’intesa comune per risolvere il marasma nell’area; e ciò nonostante l’IS sia anche figlio della politica saudita tesa a combattere gli sciiti e indebolire l’Iran sullo scacchiere mediorientale e internazionale.

I sauditi sono partner inaffidabili, sempre pronti a combattere l’affermazione politica degli sciiti, sia essa democraticamente acquisita (come in Iraq) o grazie alle armi, come accade in Yemen dove i miliziani sciiti Houthi si stanno allargando.

Anche Ankara, per vari motivi, non sembra seriamente intenzionata a combattere attivamente l’IS, per cui l’Iran si sta guardando intorno, cercando alleanze con le altre monarchie arabe del Golfo.

Un’ulteriore affermazione dell’Is in Iraq significherebbe per Tehran perdere uno dei maggiori partner commerciali, nonché la zona di installo di un grandioso gasdotto che in futuro dovrebbe trasportare il combustibile iraniano verso ovest. Oltre alla possibile perdita economica, vi è quella storico-simbolica: l’IS minaccia i luoghi santi degli sciiti, i più importanti dei quali si trovano in territorio iracheno. Ma, al momento, l’Iran non si è seriamente impegnato militarmente: l’unica presenza bellica iraniana in Iraq è costituita dalla brigata Al Qods, un contingente di circa 5mila uomini solitamente impiegato per l’addestramento. Piuttosto, Tehran ha per prima fornito armi al governo del Kurdistan, fatto, questo, non scontato, dal momento che l’Iran è da sempre un paese multietnico dove, fra i diversi gruppi che periodicamente insorgono richiedendo spazi di autonomia, i curdi rappresentano la comunità più bellicosa. Si tratta di uno scambio fruttuoso, ma non privo di possibili pericoli futuri per Tehran.

Il pragmatismo della Repubblica Islamica si è già rivelato in occasione della rimozione del primo ministro iracheno Maliki, un tempo caro alle autorità iraniane, ma poi dalle stesse sacrificato in quanto reo di aver agevolato, con il suo eccessivo settarismo, il malcontento nella minoranza sunnita irachena e la crescita del movimento d’opposizione confluito nell’IS.

Ecco perché un’alleanza non scritta tra Iran e gli Stati Uniti in funzione anti IS è possibile: ma perché essa non provochi poi malumori nel mondo arabo-sunnita, quest’ultimo deve necessariamente esserne coinvolto.

 

da Giornale di Brescia 19/10/2014

Turchia: Steinbeck, laici e islamici…

turkey10bA sorpresa, il primo ministro turco Erdoğan ha rimpastato il suo governo sostituendo ben quattro ministri, perlopiù in posti chiave quali il Ministero degli Interni, della Giustizia, della Cultura e Turismo e della Sanità. Gli osservatori locali inseriscono la manovra (cui Erdoğan, peraltro, non è nuovo) nella strategia per le prossime amministrative che si terranno nel 2014: e, difatti, il premier ha esonerato dall’incarico alla Cultura Ertuğul Gűnay dopo anni di ottimo lavoro solo per permettergli di candidarsi sindaco a Izmir, carica solitamente vinta dal partito d’opposizione repubblicano (CHP). Izmir è ritenuta un bastione “laico”, ma è luogo troppo importante perché il partito al governo (AKP) se la lascia scappare, ed ecco quindi che l’AKP candida alla sua guida uno stimato ex ministro di tendenze laiche e liberali.

Proprio da Izmir era partita il mese scorso un’offensiva contro Erdoğan, di natura culturale: il locale direttivo della pubblica istruzione, infatti, aveva criticato la decisione del governo centrale di includere nella lista dei cento libri indispensabili nel curriculum scolastico di ogni cittadino turco il romanzo Uomini e topi di Steinbeck, giudicandone alcuni passaggi “volgari e razzisti”. Il paradossale (in quanto lanciato proprio da un’amministrazione “laica”) attacco nei confronti del Ministero della Cultura ha avuto così l’effetto di richiamare l’attenzione del governo centrale verso le coste egee.

La polemica scaturita ha gettato benzina sul fuoco della diatriba tra l’anima secolare e quella religiosa turche, particolarmente accesa in questo periodo in cui la Turchia sta revisionando la propria Costituzione, per la cui stesura l’AKP deve necessariamente cercare la collaborazione del CHP, principale partito d’opposizione. La seconda alternativa sarebbe rappresentata dal partito ultranazionalista (MHP), ma ciò rappresenterebbe sia un allontanamento della Turchia dall’Europa (e della sua possibile entrata nella UE) sia un ritorno indietro nella trattativa di riappacificazione con la componente curda ultimamente intensamente perseguita dal governo.

La collaborazione tra l’AKP e il CHP sembra quindi la strada più naturale ed auspicabile, ma, ovviamente, non senza intoppi. Il CHP, animato da laici moderati e da intransigenti kemalisti, rimprovera al partito di governo, tra l’altro, di praticare una politica non meritocratica favorendo l’occupazione dei posti pubblici di cittadini di “comprovata fede musulmana” a discapito degli altri. L’AKP, di rimando, risponde che per quasi cent’anni la Turchia è stata dominata dai LAST (turchi laici, ataturkisti, sunniti) a molti dei quali sono stati assegnati incarichi non per merito ma per “comprovata fede kemalista”.

Resta la necessità, da parte del governo turco, di comporre quanto prima la questione curda, anche per portare a casa un risultato positivo dopo alcuni fallimenti verificatisi in politica estera, soprattuto in relazione alla situazione siriana: fintanto che il regime di Bashar al-Assad rimane saldo in sella, infatti, la Turchia non riesce a perseguire il suo scopo di proporsi come nazione leader nell’area.

Erdoğan e i suoi continuano a farsi forti nel buoni risultati in campo economico e della stabilità del Paese in questo senso: a breve vedremo se ciò basterà a garantire all’AKP la guida della Turchia.

 

dal Giornale di Brescia 28/1/2013.

 

 

Erdogan,”sponsor” di an-Nahda?

leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 29/10/2011:

Si sono chiuse le urne tunisine e gran parte del mondo s’è rallegrata soprattutto per l’alta percentuale di votanti, quasi a voler esorcizzare la preoccupazione per l’avanzata generale dei partiti islamici, per quanto moderati essi siano. Tale preoccupazione si trasforma in autentica paura in molti tunisini, i quali temono che l’avvento al potere di an-Nahda possa condurre ad un futuro e rapido deterioramento di alcune prerogative già acquisite decadi or sono, quali un codice di famiglia progressista, la facoltà di professare religioni diverse da quella maggioritaria, la presenza capillare e visibile delle donne nella società.

Al di là delle affermazioni dei leader del partito vincitore, che continuano a ribadire di non costituire un pericolo per le libertà personali dei tunisini, due cose sono certe: sono cambiati tanto i modelli perseguiti dall’islam politico globale, quanto le popolazioni musulmane. Nessuno può oggi pensare di poter instaurare un regime “all’iraniana” come accaduto negli anni ’80, e le stesse rivolte nei paesi arabi contro le dittature laico-militari hanno dimostrato come tutti i cittadini siano più che mai desiderosi di democrazia e libertà, seppur modellate secondo le loro esigenze, ovvero, declinando democrazia e libertà all’interno di una cornice religiosa-islamica. A questo proposito, è utile ricordare come sia piuttosto la Turchia a costituire un modello per gli stati arabi mediterranei. In questi anni di governo, l’AKP guidato da Erdoğan ha dimostrato non solo di essere in grado di mantenere un vasto consenso fra i propri elettori, ma pure di conquistare cittadini precedentemente contrari a votare per un partito religioso, grazie a una politica di inclusione di tutti e di mantenimento degli standard di vita “laici”. E’ stato proprio Erdoğan, nel suo tour settembrino tra Tunisia e Egitto, a sventolare il “modello turco” fondato sulla democrazia e la laicità, in cui tutte le religioni vengono ugualmente rispettate, che neutralizza le possibili minacce delle forze armate e riconosce alle minoranze pari dignità e piena legittimità, come un modello copiabile anche in altri paesi. Vista la situazione generale della Turchia, il livello di benessere conseguito, l’espansione economica e il ruolo prestigioso che il Paese s’è conquistato durante gli anni di governo di Erdoğan, l’AKP non poteva regalare spot migliore ai colleghi tunisini di an-Nahda.

Certamente, comunque, i tunisini hanno votato il partito più distante dal dittatore Ben Ali appena rovesciato, ma il fatto che an-Nahda abbia raccolto un ampio consenso anche tra i numerosi tunisini residenti all’estero merita una considerazione a parte, che investe il fallimento di un certo modello laico, nonché dei partiti che l’appoggiano, tanto in Tunisia quanto nella sponda settentrionale del Mediterraneo. Se molti tunisini residenti in Francia e in Italia, infatti, pur vivendo nel contesto di società laiche, che consentono anche a loro ampie libertà, hanno votato per un partito religioso, significa che il laicismo non è un formato gradito a tutti. Tutti, piuttosto, credono nella democrazia e nella libertà, ma intendono perseguire ed attuare queste due categorie secondo modalità, formule e credenze loro proprie.

 

 

 

Veli islamici:opinioni discordanti in Francia e Turchia

 

Mentre infuria la polemica sulla decisione francese di rendere il velo integrale un reato, e sono già scattate le prime misure contro le donne che vi si oppongono (ma la Francia non era il paese dell’uguaglianza e della libertà? E da quando in qua arrestare donne che protestano pacificamente è una misura atta a garantire la libertà delle donne stesse?), pure in Turchia infuria una polemica su un tema analogo, ma per diversi motivi. Ha destato infatti enorme scalpore l’opinione di Orhan eker, docente di Teologia all’università di Seluk, il quale sostiene che le turche sarebbero frequenti vittime di assalti sessuali a causa del loro abbigliamento troppo libero e “invitante”. La Turchia vanta un tristissimo record di violenza sulle donne, primato cresciuto esponenzialmente in questi ultime decadi, nelle quali, tra l’altro, l’uso di una qualche forma di velo da parte delle donne è in continua crescita. Nella civilissima Turchia sono in aumento non solo i casi di stupri e/o violenze di tipo sessuale, ma pure gli assassini configurati quali “delitti d’onore”: questi ultimi nel solo 2010 hanno mietuto più di 200 vittime. Fra le vari voci levatesi contro l’infelice uscita di eker si conta pure quale della teologa Hidayet Şefkatli Tuksal, esponente dell’associazione di femministe islamiche Başkent Kadin Platform (Piattaforma delle Cittadine), la quale ha sottolineato come purtroppo il velo non sia un deterrente contro le violenze sessuali, visto che ne rimangono vittime pure le donne che adottano le forme di hejab più rigorose.

Inoltre, il 90% delle donne turche che subiscono forme di violenza sono vittime di familiari o uomini del loro entourage, inclusi insegnanti o mentori di varia specie. Ma per i patriarchi come eker, la colpa è comunque solo delle donne, velate o non.