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Il voto turco: prime impressioni

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Fin dal mattino, lunghe file di votanti si sono formate fuori dai seggi elettorali in Turchia, dove si votava per le elezioni amministrative 2014, una massiccia affluenza che conferma come questa tornata elettorale fosse particolarmente sentita e considerata come un test di prova del rapporto di fiducia tra la popolazione e il suo Premier Recep Tayyip Erdoğan.

 

Il partito turco della Giustizia e Sviluppo (AKP) si conferma primo e Erdoğan rimane in sella. Evidentemente, non è bastato che il partito al governo tradisse il suo nome (l’acronimo AK in turco significa “puro”) con una catena di conclamati scandali avvenuti negli ultimi mesi. A dispetto della corruzione conclamata della leadership turca, della svolta autoritaria del premier rivelatasi appieno con i fatti del Parco Gezi e confermata dal suo oscurare i social network proprio in occasione di questa tornata elettorale, i turchi hanno preferito la stabilità e premiato chi, fra l’altro, ha consentito che l’economia del Paese incrementasse del 230% in dieci anni (fra il 2002 e il 2012) e l’inflazione dal 29,8% del 2002 al 7,4% nel 2013.

 

Il secondo partito, Cumhuriyet Halk (CHP) di centro sinistra, si conferma forte nelle municipalità e nelle province che si affacciano sull’Egeo, soprattutto nella sua roccaforte, Izmir, erodendo voti al partito nazionalista, Milliyetçi Hareket (MHP) e dimostrando così come i turchi siano sempre più orientati verso il centro moderato.

 

L’AKP è riuscito a conquistare Istanbul, piazza importantissima, anche dopo la repressione dei manifestanti a parco Gezi. Probabilmente ha perso voti da parte dei giovani “laici”, ma la sua recente diatriba con il movimento islamista Güllen (un tempo alleato dell’AKP) che Erdoğan ha accusato di fomentare e manovrare gli scandali contro di lui, ha probabilmente fruttato qualche voto al partito di governo da parte di chi vede con sospetto l’azione di Fetullah Güllen, apparentemente solo filantropica, ma in realtà volta a creare un potere forte e più radicalmente islamista nel cuore della Turchia.

 

Ora Erdoğan pensa di concretizzare il suo progetto di costituire un sistema presidenziale attorno alla sua carismatica figura, ma alcune insidie potrebbero frapporsi alla sua smisurata ambizione. Innanzitutto, i problemi economici: anche se l’onda lunga della crisi economica questa volta non è arrivata alle urne, il governo turco deve prendere seri e immediati provvedimenti per evitare che il boom economico dell’ultima decade si trasformi in un baratro che inghiottirebbe non solo l’AKP ma l’intera nazione. Inoltre, l’immagine all’estero di Erdoğan è seriamente compromessa, a causa di scandali e autoritarismo; se in Europa, che non vede più Ankara come possibile serio e stabile mediatore per i problemi del Medio Oriente, il fronte contrario all’entrata della Turchia nell’Unione Europea sta aumentato, negli Stati Uniti, dove risiede Fetullah Güllen e la sua potente macchina di propaganda, Erdoğan è sempre più guardato con sospetto.

Il premier turco non ha molto tempo quindi per godersi la vittoria; gli servono presto altri risultati tangibili, anche perché le elezioni presidenziali sono alle porte.

da Giornale di Brescia 31/3/2014.

E’ la fine di Erdogan?

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Dopo circa dodici anni di potere, “Re Erdoḡan” o “il dittatore” com’è comunemente chiamato dai turchi che sempre più malvolentieri  sopportano il loro Primo Ministro,  sembra proprio aver concluso la sua straordinaria carriera politica. Certo continua a poter contare su uno zuccolo duro di sostenitori, tant’è che pensa di presentarsi all’appuntamento elettorale di agosto  come candidato alla Presidenza  della Turchia, ma è altrettanto indubbio che non solo il rampante Primo Ministro ha imboccato l’inesorabile strada del declino politico, ma, soprattutto, che l’offuscamento della sua immagine corrisponde ad una parallela opacizzazione dell’immagine della stessa Turchia. In questi ultimi anni,  Erdoḡan s’era imposto come arbiter di molte situazione  critiche in Medio Oriente: ha fatto da mediatore tra l’Europa e l’Iran e tra questo e i Paesi Arabi del Golfo; s’è eretto a unico difensore dei siriani contro Bashar Assad, ospitando in Turchia milioni di profughi e ha più volte contestato Israele, rompendo un’alleanza  pluri decennale tra  Ankara e Telaviv. Proponendo, poi, suo Paese come unico possibile modello di  conciliazione tra anima religiosa e necessità delle modernizzazione, Erdoḡan era divenuto il leader ideale del mondo tanto musulmano quanto occidentale.

                  Adesso  Erdoḡan sembra avere rovinato tutto: la sua repressione  del movimento di protesta  per l’abbattimento del parco Gezi a Istanbul l’ha reso estremamente impopolare sia in patria sia all’estero. In Turchia, il suo coinvolgimento in casi di corruzione riguardanti l’edilizia gli ha alienato la simpatia di moltissimi cittadini, delusi dal fatto che il Primo Ministro, dopo aver trasferito le forze di polizia che avevano scoperto la corruzione dei figli di tre ministri , si sta comportando allo stesso modo con gli investigatori che hanno rivelato le recenti intercettazioni  ove Erdoḡan impartisce al figlio istruzioni per occultare ingenti somme. Ovviamente, non si tratta solo del fattore etico; se la cementizzazione della Turchia ha scosso  l’anima ecologista del Paese, la crisi economica  e la bolla edilizia hanno portato alla ribalta il ruolo di master  mind della speculazione giocato dal Primo Ministro. E’ vero che l’ascesa politica di Erdoḡan ha coinciso con l’esplosione economica del Paese, i cui consumi sono quadruplicati grazie anche al bassissimo tasso d’interesse praticato dalle banche, fortemente voluto dal Primo Ministro quale applicazione delle norma shariatica che equipara i tassi d’interesse elevati all’usura. Tuttavia, la spinta all’espansione edilizia ha creato in Turchia una bolla paragonabile a quella creatasi in occidente negli anni scorsi, con le medesime nefaste conseguenze. L’inflazione è cresciuta così come il debito estero (soprattutto nei confronti degli Stati Uniti che fino ad oggi hanno pompato l’economia turca con milioni e milioni di dollari )  mentre  la confidenza dei cittadini nelle possibilità economiche del loro Paese  è nettamente diminuita.

                  In questo clima di crisi politica, economica e sociale le elezioni amministrative del 30 marzo  assumono un peso fondamentale. Le urne daranno chiare indicazioni sull’umore dei  turchi e poco varrà al Primo Ministro il suo cercare di nascondere la verità oscurando  il web. Queste misure liberticide, infatti, non fanno, da un lato, che accrescere l’insofferenza nei confronti de  “il dittatore”; dall’altro, ne mettono in luce la sua attuale preoccupazione.

da Giornale di Brescia 24/3/2014

il “pacchetto di democratizzazione” di Erdogan

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Ankara ha finalmente varato il pacchetto di riforme verso la strada della democratizzazione atteso da mesi, almeno fin da noti fatti di parco Gezi e delle successive manifestazioni anti governative, la cui dura repressione ha notevolmente annerito l’immagine del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) da anni alla guida della Turchia. Ma la risposta del Paese è, perlopiù, negativa. Sono soprattutto le minoranze, principale oggetto del “pacchetto di democratizzazione” a dimostrarsi scontente per questa che ritengono una opera di superficiale maquillage, a cominciare dalla comunità più controversa, ovvero, la curda. Ad esempio, ai 15 milioni di curdi che chiedevano l’introduzione della loro lingua nelle scuole è stato concesso solo di poter avere l’insegnamento in curdo presso gli istituti privati: ciò suona come una beffa, visto che la maggioranza di loro vive nella zona sud-est del Paese, notoriamente più povera, dove le scuole private sono pressoché inesistenti o inaffrontabili. L’altra richiesta cruciale, ovvero quella di abbassare la soglia del 10% ora necessaria per poter accedere al Parlamento (limite che favorisce i grandi partiti come l’AKP e tiene fuori, tra gli altri, propri quelli curdi), è stata accolta solo da una vaga promessa di rivedere il dato in seno al Parlamento stesso. Nessun passo concreto, inoltre, è stato fatto per decentralizzare l’amministrazione verso un più democratico potenziamento degli organi regionali e locali (altra richiesta curda).

Parimenti scontente sono le minoranze religiose, quali gli Alevi, costituenti circa il 20% della popolazione, che richiedevano il riconoscimento statale delle loro sedi di culto, e che hanno ottenuto solamente la possibilità di avere un’università statale re intitolata sotto il nome di un loro mistico trecentesco.

Gli irriducibili della laicità, poi, hanno accolto con terrore l’abolizione del giuramento di “buon turco” finora imposta agli scolari della scuola dell’obbligo a ogni inizio di settimana, e, soprattutto, lo sdoganamento del velo per le donne nei luoghi di lavoro pubblici, considerandoli quali espressione della precisa volontà dell’AKP di cancellare quel che resta della Turchia di Atatürk per sostituirla con una completamente islamizzata. In realtà, la proibizione del velo nelle pubbliche amministrazioni era divenuta obsoleta in un Paese in cui le donne l’hanno riabbracciato da decadi, e anzi spesso costituiva una forma di protesta contro le costrizioni dello Stato. Lo spettacolo delle studentesse che si toglievano il velo prima di varcare i cancelli delle università per poi rimetterselo quando uscivano era divenuto assurdo, per non parlare delle associazioni di donne sorte proprio per combattere tale proibizione. L’AKP, che governa grazie al consenso di cittadini per cui l’islam è l’identità principale e che, piaccia o no, sono in maggioranza nella Turchia d’oggi, non poteva non accogliere questa protesta che da anni travaglia la vita pubblica. Fermo restando che alcune professioni, quali quella di poliziotta e di giudice, rimarranno comunque “veil free”, la riforma faciliterà l’accesso delle donne a posti di pubblica amministrazione, dove adesso non vengono neppure prese in considerazione solo perché nella foto allegata al curriculum portano il velo.

Quello che desta preoccupazione in tutti, piuttosto, è la totale assenza nel pacchetto di norme che garantiscano maggiore libertà di espressione e che consentano di non etichettare i dissenzienti (quali quelli arrestati proprio durante le manifestazioni iniziate a parco Gezi il giugno scorso) quali terroristi, o che limitino lo strapotere della polizia nel sedare anche violentemente le manifestazioni di pacifica protesta. Ma quest’assenza potrebbe essere frutto di un abile calcolo politico dell’AKP e del suo astuto leader, Erdoğan: nel 2014 i turchi saranno chiamati alle urne, ed è probabile quindi che nei prossimi mesi, a ridosso delle elezioni, venga varata qualche altra riforma che, se annunciata troppo presto, potrebbe essere dimenticata dagli elettori.

dal Giornale di Brescia 3/10/2013

l’islam politico è morto, viva l’islam politico

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In Tunisia è stato ucciso un altro esponente dell’opposizione contro il partito islamico al governo Ennahda; in Egitto, il Presidente Morsi, espressione del partito islamico al potere, è stato esautorato dall’esercito dopo che milioni di cittadini ne hanno chiesto l’allontanamento; in Turchia, il leader dei partito islamico al governo da anni, Recep Erdoğan, è da oltre un mese contestato dalle piazze che lo accusano di aver tradito la democrazia. Questi eventi spingono molti osservatori a pensare all’implosione dell’islam “politico” e a dichiarare la fine di questo modello, ma, un’analisi dei fatti porta ad altre conclusioni. In Egitto, Morsi è stato contestato perché ha interpretato il mandato come un’autorizzazione a consolidare il proprio potere, convinto che l’anima religiosa degli egiziani fosse sufficiente per assoggettarli a un unico partito, seppure d’ispirazione religiosa. Inoltre, ha fallito (insieme ai Fratelli Musulmani) nel dare una risposta alla crisi economica e sociale in cui si dibatte il Paese, così come, parallelamente, in Tunisia ha fallito Ennahda, il cui governo coincide con una delle peggiori crisi economiche nella storia tunisina. In Turchia, dove Erdoğan ha portato il Paese al benessere e a un esponenziale incremento del PIL, le cose sono diverse: qui non è in discussione il partito religioso al governo (anche se, ovviamente, pure l’AKP ha i suoi oppositori), quanto proprio il suo leader e i suoi atteggiamenti dispotici, e la contestazione popolare è quindi ad personam. Le proteste a Ankara, Cairo e Tunisi non significano che i rispettivi cittadini vogliano liberarsi dell’islam politico, o che questi sia finito, ma solo che i cittadini non s’accontentano del vecchio slogan “l’islam è la soluzione” sbandierato dai partiti religiosi qualche tempo fa, ma invocano una direzione dall’identità islamica sì, ma con un forte accento democratico, e soprattutto, di provata competenza politico-economica. I partiti islamici, quindi, non possono contare solo sulle loro credenziali religiose per governare, ma debbono dimostrare capacità tecniche unite a una vocazione democratica. In questi ultimi anni, tunisini, egiziani e turchi hanno dimostrato che, seppur abbiano essi stessi eletto Ennahda, i Fratelli Musulmani e il Partito della Giustizia e Sviluppo, una volta accertato che il mandato da loro democraticamente consegnato non si è tramutato in benessere economico, politico, sociale, sono pronti a scendere in piazza e ha chiedere il cambiamento. Il ricatto operato in passato dai gruppi religiosi che pretendevano di identificare l’opposizione nei loro confronti come un insulto alla religione non funziona più. Tuttavia, nell’area la religione permane non solo come depositaria della fede e del culto, ma pure come guida alle pratiche quotidiane, e, in politica è considerata fonte di moralità, anzi, spesso rimpiazza il concetto stesso di moralità. L’insuccesso dei Fratelli Musulmani o il “tradimento” di Erdoğan non vengono interpretati come il fallimento dell’islam, e ciò spiega, almeno in parte, perché il colpo militare che ha deposto Morsi è stato salutato con favore – o, almeno, condonato – da molti paesi musulmani. D’altro canto, nelle società a forte componente musulmana si sta levando sempre più forte il richiamo a tenere la religione separata (ovvero, più in alto) della politica, proprio per evitare eventuali contaminazioni e che l’abuso della religione da parte di movimenti radicali per auto legittimarsi, in questo momento storico così incerto, possa condurre a identificare uno scacco politico come un insuccesso della religione stessa. Ma in queste società, dove lo spazio politico continua a rimanere ristretto e i regimi non incoraggiano l’opposizione, la religione finisce spesso per essere l’unica istituzione alternativa; e così mentre la politica diviene religiosa, l’islam diviene (o rimane) politico.

da il Giornale di Brescia 30/7/2013

Erdoğan contro Erdoğan

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Erdoğan contro Erdoğan: il super primo ministro turco, altamente contestato all’interno dopo i noti fatti del Parco Gazi, incorre ora pure nelle ire del suoi un tempo fedeli alleati e amici, ovvero l’Egitto e il Qatar. Il nuovo sovrano di Doha, infatti, non sembra per ora confermare il massiccio supporto ai Fratelli Musulmani offerto in passato dal re suo padre, e ha addirittura inviato le proprie felicitazioni al nuovo governo egiziano. Così il governo turco rimane la sola voce autorevole nell’area a chiedere la re installazione dell’ex Presidente egiziano Morsi, richiesta peraltro non apprezzato dal Cairo che ha accusato Erdoğan e i suoi di immischiarsi nei propri affari interni. Anzi, il portavoce del premier egiziano, Ahmed Elmoslmany, ha esplicitamente ammonito Ankara a non occuparsi di quanto succede a piazza Tahrir, visto che il Cairo non ha interferito nei fatti di piazza Taksim. L’accenno alla piazza istanbulina, sede della più grande contestazione popolare nei confronti di Erdoğan, deve essere risultata particolarmente sgradita al premier turco, il quale, tuttavia, non sembra voler fare marcia indietro sulle sue intransigenti posizioni nei confronti dei contestatori. Continua, infatti, l’ondata di arresti indiscriminati di persone solo in sospetto di aver partecipato a qualche manifestazione di protesta (esemplare il fermo di un venditore  di bandiere di Istanbul solo perché recanti la foto di Ataturk), tanto che ormai gli oppositori del primo ministro non lo chiamano più per nome, riferendosi invece comunemente a lui come “il dittatore”.

Erdoğan è accusato di aver minato le basi delle democrazia, accentuando i conflitti tra le varie anime del Paese (soprattutto quello tra la componente laica e quella religiosa), col solo fine di perseguire il proprio potere personale. La dissennata condotta del primo ministro, già iniziata da qualche tempo, ma culminata nell’ultimo mese in un atteggiamento dispotico di chiusura totale al dialogo con la popolazione, ha già fatto dimenticare i buoni servigi da lui offerti nei primi anni di amministrazione, fra i quali ricordiamo la re defizione dei compiti dell’esercito (in passato assai propenso a colpi di stato liberticidi), il processo di pacificazione con la componente curda, l’incremento esponenziale del PIL e l’accresciuto prestigio della Turchia a livello internazionale. Ora invece la Turchia sembra essere entrata in una fase di decadenza e di pessimismo, aumentati dalla tendenza economica negativa: dopo i fatti di Parco Gazi il flusso turistico ha subito un duro colpo, non solo per i mancati arrivi internazionali, ma pure perché gli stessi turchi stanno disertando i luoghi d’intrattenimento, le mete turistiche e i gli acquisti in genere. La delusione nei confronti di  Erdoğan fa leggere in chiave diversa i suoi successi passati, e molti sostengono egli abbia domato il potere dell’esercito non per fini democratici, ma per togliere di mezzo un contendente pericoloso; così come la sua preoccupazione di intrattenere il dialogo con il partito Curdo non sarebbe frutto del desidero di unificare finalmente il Paese, ma, piuttosto, di crearsi un alleato per la sua ambita futura carriera di Presidente. E’ infatti risaputo che Erdoğan mira ad essere letto Presidente nel 2014, ma solo se riuscirà prima a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, altrimenti la carica attuale darebbe poco prestigiosa per un uomo che è stato un potente primo ministro. Per far ciò, egli e il suo AKP stanno lavorando nell’ambito della commissione che sta riscrivendo la costituzione, ma vi sono opposizioni e quindi hanno bisogno del supporto del partito filo curdo Pace e Democrazia.

Intanto, però, i sondaggi hanno evidenziato come nell’ultimo mese Erdoğan abbia perduto molto supporto popolare, diventando nell’immaginario popolare il primo responsabile della crisi; i turchi, quindi, aspettano un gesto significativo da parte di colui che, negli ultimi tempi, si è auto nominato padrone assoluto del Paese.

 

dal Giornale di Brescia 21/7/2013

Disordini a Istanbul

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I nodi tra il premier turco Erdoğan e quei cittadini scontenti del suo operato stanno venendo rapidamente al pettine in questi ultimi giorni. Il mese di maggio s’era aperto all’insegna della contestazione, dopo che il governo aveva varato una legge che restringe l’uso degli alcolici in pubblico; in realtà, nella sostanza poco cambia: se ne vieta la vendita a supermercati e negozi dalle 22 alle 6, si vieta alle compagnie che li vendono di sponsorizzare eventi pubblici, nonché di pubblicizzarsi nei programmi radio e tv nazionali. Per il resto, nulla cambia, ma questa serie di divieti posti su un prodotto altamente simbolico come l’alcol ha avuto un effetto esplosivo su tutti coloro che pensano che Erdoğan e i suo partito (AKP) stiano trascinando la Turchia nel baratro dell’islamizzazione forzata. I precedenti a questo proposito non mancano, basti pensare alla polemica sull’uso del velo, che l’AKP da molti anni sta cercando di sdoganare negli impieghi pubblici (dov’è bandito da quasi un secolo); o alle frasi pronunciate dal premier proprio un anno fa a proposito dell’aborto (legale in Turchia) che egli definì “un assassinio”, scatenando le ire di moltissime turche; nonché a molti piccoli segni che marcano una maggiore invadenza della religione in un Paese che per decadi aveva fatto della laicità una bandiera.

Le violenze di Istanbul, però, sono di altro segno, anche se, probabilmente, frutto anche di uno scontento maturato per la tentata “islamizzazione” del Paese da parte dell’AKP, e mostrano, da un lato, una matrice ecologica, dall’altro, una prettamente politica, legata soprattutto alla figura di Erdoğan. E’ vero, infatti, che gli istambulini sono scesi in piazza per difendere l’annunciato abbattimento del parco Gezi, uno dei pochi spazi verdi nella zona centrale di Taksim, ma la rabbia è stata aumentata dal fatto che gli alberi devono cedere il posto a un centro commerciale, per un giro d’affari milionario di cui uno dei beneficiati sarebbe proprio il premier in carica e altri personaggi di spicco dell’AKP. E contro di questi si è scatenata la protesta, sedata con una prepotenza e una violenza poco consone a un governo, e al suo leader, che in questi anni si sono adoperati, in patria all’estero, per apparire moderni e moderati, quasi una sorta di calmiere agli estremismi militari del passato e a quelli religiosi dei tempi recenti.

La brutale reazione del governo contro i manifestanti, ha mostrato invece il lato deleterio della modernizzazione, ovvero, ancora una volta, l’uso della tecnologia per colpire i dissenzienti, le cui comunicazioni via cellulare sono state intercettate per isolarli e colpirli, mentre internet sta subendo rallentamenti. Al contempo, i maggiori giornali turchi stanno cercando di minimizzare quanto accaduto, riproponendo il problema della censura (e auto censura) della stampa in Turchia.

Il premier s’è reso conto di aver commesso un passo falso, e si è già espresso pubblicamente condannando l’eccessivo uso della forza da parte della polizia, che ha lasciato sulla strada decine di feriti e dichiarando di aver già richiesto al Ministro degli Interni di fare luce su quanto accaduto. Ma la polizia è ancora schierata in forze a Taksim e nessun annuncio è stato fatto in merito a un ripensamento rispetto abbattimento del bosco.

da Il Giornale di Brescia 2 giugno 2013

Turchia: Steinbeck, laici e islamici…

turkey10bA sorpresa, il primo ministro turco Erdoğan ha rimpastato il suo governo sostituendo ben quattro ministri, perlopiù in posti chiave quali il Ministero degli Interni, della Giustizia, della Cultura e Turismo e della Sanità. Gli osservatori locali inseriscono la manovra (cui Erdoğan, peraltro, non è nuovo) nella strategia per le prossime amministrative che si terranno nel 2014: e, difatti, il premier ha esonerato dall’incarico alla Cultura Ertuğul Gűnay dopo anni di ottimo lavoro solo per permettergli di candidarsi sindaco a Izmir, carica solitamente vinta dal partito d’opposizione repubblicano (CHP). Izmir è ritenuta un bastione “laico”, ma è luogo troppo importante perché il partito al governo (AKP) se la lascia scappare, ed ecco quindi che l’AKP candida alla sua guida uno stimato ex ministro di tendenze laiche e liberali.

Proprio da Izmir era partita il mese scorso un’offensiva contro Erdoğan, di natura culturale: il locale direttivo della pubblica istruzione, infatti, aveva criticato la decisione del governo centrale di includere nella lista dei cento libri indispensabili nel curriculum scolastico di ogni cittadino turco il romanzo Uomini e topi di Steinbeck, giudicandone alcuni passaggi “volgari e razzisti”. Il paradossale (in quanto lanciato proprio da un’amministrazione “laica”) attacco nei confronti del Ministero della Cultura ha avuto così l’effetto di richiamare l’attenzione del governo centrale verso le coste egee.

La polemica scaturita ha gettato benzina sul fuoco della diatriba tra l’anima secolare e quella religiosa turche, particolarmente accesa in questo periodo in cui la Turchia sta revisionando la propria Costituzione, per la cui stesura l’AKP deve necessariamente cercare la collaborazione del CHP, principale partito d’opposizione. La seconda alternativa sarebbe rappresentata dal partito ultranazionalista (MHP), ma ciò rappresenterebbe sia un allontanamento della Turchia dall’Europa (e della sua possibile entrata nella UE) sia un ritorno indietro nella trattativa di riappacificazione con la componente curda ultimamente intensamente perseguita dal governo.

La collaborazione tra l’AKP e il CHP sembra quindi la strada più naturale ed auspicabile, ma, ovviamente, non senza intoppi. Il CHP, animato da laici moderati e da intransigenti kemalisti, rimprovera al partito di governo, tra l’altro, di praticare una politica non meritocratica favorendo l’occupazione dei posti pubblici di cittadini di “comprovata fede musulmana” a discapito degli altri. L’AKP, di rimando, risponde che per quasi cent’anni la Turchia è stata dominata dai LAST (turchi laici, ataturkisti, sunniti) a molti dei quali sono stati assegnati incarichi non per merito ma per “comprovata fede kemalista”.

Resta la necessità, da parte del governo turco, di comporre quanto prima la questione curda, anche per portare a casa un risultato positivo dopo alcuni fallimenti verificatisi in politica estera, soprattuto in relazione alla situazione siriana: fintanto che il regime di Bashar al-Assad rimane saldo in sella, infatti, la Turchia non riesce a perseguire il suo scopo di proporsi come nazione leader nell’area.

Erdoğan e i suoi continuano a farsi forti nel buoni risultati in campo economico e della stabilità del Paese in questo senso: a breve vedremo se ciò basterà a garantire all’AKP la guida della Turchia.

 

dal Giornale di Brescia 28/1/2013.

 

 

Erdogan e la sfida ad Assad

Domenica scorsa, Istanbul ha ospitato il secondo incontro degli “Amici della Siria”, 80 paesi occidentali e arabi, riunitisi per decidere quali misure adottare per costringere Assad a mollare l’assedio sui suoi concittadini e, possibilmente, pure il potere. Il summit s’è concluso in modo piuttosto inconcludente, così come era accaduto al primo di quest’incontri, tenutosi in Tunisia il mese scorso. E ciò nonostante la conferenza si sia svolta in Turchia con l’apertura del suo Primo Ministro Erdoğan, che ha degli ottimi motivi per spingere i partner ad esser più incisivi contro Assad: circa 17mila siriani rifugiati nel suo Paese che costituiscono una minaccia alla stabilità, anche economica, raggiunta da Ankara.

Erdoğan è addirittura volato in Iran qualche giorno fa, cercando di convincere il più fedele alleato di Assad dell’area a cambiare posizione, ma Tehran è stata inflessibile, nonostante la Turchia appoggi la Repubblica Islamica nel suo pervicace perseguimento dell’energia nucleare e si dichiari ostentatamente contraria ad ogni ipotesi di attacco contro l’Iran. Tehran, tra l’altro, teme che la caduta di Assad si converta in un accrescimento di potere della Turchia in Medio Oriente, a discapito dell’opera svolta in questi anni dall’Iran per divenire l’attore protagonista.

L’alleanza tra Ankara e Tehran, pur tra alti e bassi, continua, perché l’una ha bisogno dell’altra e perché il volume di scambio tra i due Paesi ha raggiunto, nell’ultimo anno, la cospicua somma di 16 miliardi di dollari.

Incassato il parere negativo di Tehran, stante il veto di Cina e Russia ad un intervento contro Damasco e l’indecisione degli “80 amici”, Erdoğan si rivela sempre più impaziente, soprattutto dopo che le Nazioni Unite hanno dichiarato di voler prendere in considerazione un accordo tra Assad e il suoi oppositori. Il Primo Ministro turco, infatti, teme che il possibile successo di una tale operazione (caldeggiata, tra gli altri, dall’ex segretario generale ONU, Kofi Annan), possa mantenere in qualche modo al potere Assad, mentre ormai egli ha dichiarato guerra al leader siriano. In queste settimane, infatti, dopo aver inviato i suoi generali in un blitz teso a controllare la possibilità di creare una “zona cuscinetto” tra Turchia e Siria (dove presumibilmente collocare i rifugiati sotto controllo dell’esercito turco), Ankara ha pure chiuso la sua ambasciata a Damasco. Queste nervose operazioni hanno suscitato qualche preoccupazione sia fra molte autorità turche, che ritengono che il loro Premier stia prendendo iniziative che lo isolano dagli alleati, sia fra questi ultimi, sospettosi del ruolo di gendarme dell’area che Erdoğan sembra volere assumere.

Il nervosismo di Erdoğan appare evidente pure dalla sua nuova campagna anti Alevi, accusati di essere dei basisti dell’elite governativa siriana, composta da Alawiti. Ma Alevi (una corrente mistica presente solo in Turchia, minoritaria e perseguitata) e Alawiti (una corrente sciita cui aderiscono gli Assad e il loro entourage) hanno assai poco da spartire, se non l’assonanza del nome, e certo Erdoğan ne è ben al corrente. Ma il fatto che il Kemal Kılıçdaroğlu, leader del maggiore partito d’opposizione turco (Socialdemocratico) sia Alevi ha certamente ispirato Erdoğan a questa piccola battaglia mediatica contro i suoi principali oppositori interni. Due piccioni con una fava per il furbo leader turco, che con ogni mezzo si sta preparando un futuro per il post premierato anche al di là dei confini nazionali.

pubblicato da Giornale di Brescia, 6/4/2012.

 

Erdogan,”sponsor” di an-Nahda?

leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 29/10/2011:

Si sono chiuse le urne tunisine e gran parte del mondo s’è rallegrata soprattutto per l’alta percentuale di votanti, quasi a voler esorcizzare la preoccupazione per l’avanzata generale dei partiti islamici, per quanto moderati essi siano. Tale preoccupazione si trasforma in autentica paura in molti tunisini, i quali temono che l’avvento al potere di an-Nahda possa condurre ad un futuro e rapido deterioramento di alcune prerogative già acquisite decadi or sono, quali un codice di famiglia progressista, la facoltà di professare religioni diverse da quella maggioritaria, la presenza capillare e visibile delle donne nella società.

Al di là delle affermazioni dei leader del partito vincitore, che continuano a ribadire di non costituire un pericolo per le libertà personali dei tunisini, due cose sono certe: sono cambiati tanto i modelli perseguiti dall’islam politico globale, quanto le popolazioni musulmane. Nessuno può oggi pensare di poter instaurare un regime “all’iraniana” come accaduto negli anni ’80, e le stesse rivolte nei paesi arabi contro le dittature laico-militari hanno dimostrato come tutti i cittadini siano più che mai desiderosi di democrazia e libertà, seppur modellate secondo le loro esigenze, ovvero, declinando democrazia e libertà all’interno di una cornice religiosa-islamica. A questo proposito, è utile ricordare come sia piuttosto la Turchia a costituire un modello per gli stati arabi mediterranei. In questi anni di governo, l’AKP guidato da Erdoğan ha dimostrato non solo di essere in grado di mantenere un vasto consenso fra i propri elettori, ma pure di conquistare cittadini precedentemente contrari a votare per un partito religioso, grazie a una politica di inclusione di tutti e di mantenimento degli standard di vita “laici”. E’ stato proprio Erdoğan, nel suo tour settembrino tra Tunisia e Egitto, a sventolare il “modello turco” fondato sulla democrazia e la laicità, in cui tutte le religioni vengono ugualmente rispettate, che neutralizza le possibili minacce delle forze armate e riconosce alle minoranze pari dignità e piena legittimità, come un modello copiabile anche in altri paesi. Vista la situazione generale della Turchia, il livello di benessere conseguito, l’espansione economica e il ruolo prestigioso che il Paese s’è conquistato durante gli anni di governo di Erdoğan, l’AKP non poteva regalare spot migliore ai colleghi tunisini di an-Nahda.

Certamente, comunque, i tunisini hanno votato il partito più distante dal dittatore Ben Ali appena rovesciato, ma il fatto che an-Nahda abbia raccolto un ampio consenso anche tra i numerosi tunisini residenti all’estero merita una considerazione a parte, che investe il fallimento di un certo modello laico, nonché dei partiti che l’appoggiano, tanto in Tunisia quanto nella sponda settentrionale del Mediterraneo. Se molti tunisini residenti in Francia e in Italia, infatti, pur vivendo nel contesto di società laiche, che consentono anche a loro ampie libertà, hanno votato per un partito religioso, significa che il laicismo non è un formato gradito a tutti. Tutti, piuttosto, credono nella democrazia e nella libertà, ma intendono perseguire ed attuare queste due categorie secondo modalità, formule e credenze loro proprie.