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L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana

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Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.

Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.

Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.

da Giornale di Brescia 9/9/2013

Erdogan e la sfida ad Assad

Domenica scorsa, Istanbul ha ospitato il secondo incontro degli “Amici della Siria”, 80 paesi occidentali e arabi, riunitisi per decidere quali misure adottare per costringere Assad a mollare l’assedio sui suoi concittadini e, possibilmente, pure il potere. Il summit s’è concluso in modo piuttosto inconcludente, così come era accaduto al primo di quest’incontri, tenutosi in Tunisia il mese scorso. E ciò nonostante la conferenza si sia svolta in Turchia con l’apertura del suo Primo Ministro Erdoğan, che ha degli ottimi motivi per spingere i partner ad esser più incisivi contro Assad: circa 17mila siriani rifugiati nel suo Paese che costituiscono una minaccia alla stabilità, anche economica, raggiunta da Ankara.

Erdoğan è addirittura volato in Iran qualche giorno fa, cercando di convincere il più fedele alleato di Assad dell’area a cambiare posizione, ma Tehran è stata inflessibile, nonostante la Turchia appoggi la Repubblica Islamica nel suo pervicace perseguimento dell’energia nucleare e si dichiari ostentatamente contraria ad ogni ipotesi di attacco contro l’Iran. Tehran, tra l’altro, teme che la caduta di Assad si converta in un accrescimento di potere della Turchia in Medio Oriente, a discapito dell’opera svolta in questi anni dall’Iran per divenire l’attore protagonista.

L’alleanza tra Ankara e Tehran, pur tra alti e bassi, continua, perché l’una ha bisogno dell’altra e perché il volume di scambio tra i due Paesi ha raggiunto, nell’ultimo anno, la cospicua somma di 16 miliardi di dollari.

Incassato il parere negativo di Tehran, stante il veto di Cina e Russia ad un intervento contro Damasco e l’indecisione degli “80 amici”, Erdoğan si rivela sempre più impaziente, soprattutto dopo che le Nazioni Unite hanno dichiarato di voler prendere in considerazione un accordo tra Assad e il suoi oppositori. Il Primo Ministro turco, infatti, teme che il possibile successo di una tale operazione (caldeggiata, tra gli altri, dall’ex segretario generale ONU, Kofi Annan), possa mantenere in qualche modo al potere Assad, mentre ormai egli ha dichiarato guerra al leader siriano. In queste settimane, infatti, dopo aver inviato i suoi generali in un blitz teso a controllare la possibilità di creare una “zona cuscinetto” tra Turchia e Siria (dove presumibilmente collocare i rifugiati sotto controllo dell’esercito turco), Ankara ha pure chiuso la sua ambasciata a Damasco. Queste nervose operazioni hanno suscitato qualche preoccupazione sia fra molte autorità turche, che ritengono che il loro Premier stia prendendo iniziative che lo isolano dagli alleati, sia fra questi ultimi, sospettosi del ruolo di gendarme dell’area che Erdoğan sembra volere assumere.

Il nervosismo di Erdoğan appare evidente pure dalla sua nuova campagna anti Alevi, accusati di essere dei basisti dell’elite governativa siriana, composta da Alawiti. Ma Alevi (una corrente mistica presente solo in Turchia, minoritaria e perseguitata) e Alawiti (una corrente sciita cui aderiscono gli Assad e il loro entourage) hanno assai poco da spartire, se non l’assonanza del nome, e certo Erdoğan ne è ben al corrente. Ma il fatto che il Kemal Kılıçdaroğlu, leader del maggiore partito d’opposizione turco (Socialdemocratico) sia Alevi ha certamente ispirato Erdoğan a questa piccola battaglia mediatica contro i suoi principali oppositori interni. Due piccioni con una fava per il furbo leader turco, che con ogni mezzo si sta preparando un futuro per il post premierato anche al di là dei confini nazionali.

pubblicato da Giornale di Brescia, 6/4/2012.