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Rouhani’s “American Boys”

Rohani-first-cabinet-session-1Strano paese l’Iran, dopo che i suoi capi hanno trascorso oltre 30 anni a gridare “morte all’America” si ritrova un governo i cui ministri hanno un dottorato conseguito negli Stati Uniti, o in Europa. Javad Zarif, ad esempio, Ministro degli Esteri, ha conseguito il suo dottorato a Denver; Akbar Salehi, negoziatore per il nucleare, ha ottenuto il suo PhD in ingegneria nuclear al MIT; Mohammad Vaezi, Ministro delle Comunicazioni, ha un dottorato conseguito all’Università di Varsavia, ma ha studiato prima in vari atenei americani; Ali Akhoundi, Ministro dei Trasporti, ha ottenuto il suo PhD a Londra.

Lo stesso Rouhani ha un dottorato ottenuto all’Università di Glasgow, dove ha studiato e si è dottorata (in diritto internazionale) pure Elham Amimzadeh, una dei vice Presidenti iraniani. Lo staff del Presidente è diretto da Mohammad Nahvandian, PhD in economia presso la Geroge Washington University, negli Stati Uniti…

Chissà se anche i consiglieri di Obama hanno una formazione internazionale. Ah no, non ne hanno bisogno, infatti si vede dai risultati della politica estera americana in queste decadi….

Perchè non piace la pace con l’Iran

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Come prevedibile, l’accordo, per quanto provvisorio, sul programma nucleare iraniano siglato tra la Repubblica Islamica d’Iran e le potenze occidentali, è in pericolo. Con esso è in periglio il progetto di pacificazione in Medio Oriente, che appoggia sul riposizionamento dell’Iran come fulcro e motore d’ogni tensione nell’area. In questi anni, infatti, l’Iran è stato investito di responsabilità più o meno reali, relative a ogni crisi scoppiata attorno ai suoi confini: dagli attentati in Iraq (della cui perenne destabilizzazione s’incolpa Tehran e i suoi aiuti alla leadership sciita); alla guerra civile siriana (in cui l’Iran è accusato d’appoggiare incondizionatamente Bashar al Asad); alle continue crisi libanesi (uno dei cui protagonisti, il partito Hezbollah, è una “costola” della Repubblica Islamica); per finire in Afghanistan, dove è impantanata la forza internazionale, impossibilitata però a stringere una necessaria alleanza con Tehran che sarebbe certamente foriera di positivi cambiamenti.

E’ soprattutto negli Stati Uniti che trova favore il partito “anti-Iran”, per il quale il Paese dell’altopiano è un nemico ormai storico e che imputa a Tehran ogni avvenimento negativo; i sostenitori di questa teoria sostengono che la Repubblica Islamica rappresenta una minaccia per Israele, che la tregua dell’accordo consente all’Iran di congelare il proprio programma ma di non eliminarlo, e, soprattutto, che l’accordo ha riportato l’Iran al centro della diplomazia internazionale, sdoganandolo da “stato canaglia” e rifacendogli nutrire ambizioni di protagonista in Medio Oriente.

In effetti, la costruzione dell’Iran quale “nemico” internazionale ha avuto una leggera scossa lo scorso 24 novembre, e anche se l’intervento sulle sanzioni è così minimale da non poter avere profondi benefici effetti sull’economia iraniana, il suo valore simbolico è altissimo, tanto per la politica internazionale quanto per quella domestica iraniana. Ad esempio, il successo dell’accordo di Ginevra ha consentito al Presidente Rouhani, suo principale sponsor, di intervenire pesantemente sull’amministrazione locale, sostituendo quasi tutti i governatori delle province, appartenenti all’ultraconservatore Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, per sostituirli con civili di comprovate abilità. Conoscendo inoltre il poco gradimento riscosso nei paesi arabi circostanti, il governo di Tehran ha rimesso in piedi i negoziati per restituire quanto prima agli Emirati le tre isole situate nel golfo di Hormuz, importante check point petrolifero, oggetto di contesa fin dai tempi del deposto shah. Il fronte arabo anti-Iran, prima compatto, ha ricevuto una scossa pure grazie al rifiuto del sultano dell’Oman di far parte di un’eventuale coalizione araba in funzione anti Repubblica Islamica: “siamo in una fase storica in cui il mondo ha bisogno di pace e stabilità” ha dichiarato qualche giorno fa Yousif al Ibrahim, ministro degli esteri omanita.

Certo l’accordo sul nucleare comporta alcuni rischi, ma gli scettici dovrebbero porsi il quesito se i rischi della negoziazione siano maggiori del continuare a tenere un paese come l’Iran sotto scacco minacciando di bombardarlo. I negoziati meritano una chance e così la pace nel mondo.

da Giornale di Brescia 15/12/2013

Iran e US: troppi falchi

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Per Stati Uniti e Iran è tempo di raggiungere un accordo sul nucleare. Se il Presidente iraniano Rouhani ne ha impellente necessità per far uscire il suo Paese dall’impasse economica determinata dalle sanzioni, Obama ne ha urgenza per chiudere definitivamente la possibilità di un confronto militare di cui sarebbero ritenuti responsabili gli Stati Uniti, e che avrebbe conseguenze catastrofiche per il mondo intero.

Pure, ci sono i falchi dei rispettivi Paesi che remano contro a un sempre più vicino accordo: se a Washington un gruppo di senatori minaccia l’Iran di nuove sanzioni, a Tehran nei giorni scorsi s’è celebrato il 34° anniversario della presa dell’ambasciata americana da parte dei rivoluzionari khomeinisti, che hanno riempito l’aria della inquinata capitale con slogan di “morte all’America”. Che a Washington la lobby delle armi e della guerra sia sempre all’opera è risaputo; meno conosciuta è la situazione all’interno dell’Iran, dove negli ultimi mesi sembrava che l’antico odio verso il “grande Satana” (ovvero, gli Stati Uniti) si fosse dissolto, e che merita quindi una riflessione.

Rouhani, si sa, ha avviato un nuovo rapporto con Washington fatto di diplomazia e avvicinamento; questo new deal è incoraggiato dal leader supremo, Khamenei, acerrimo nemico degli USA da sempre, ma che, ultimamente, con il pragmatismo tipico della leadership politica iraniana, ha dato il suo beneplacito alle trattative sul nucleare, senza intervenire in prima persona, ma lasciando che sia il neo Presidente a esporsi. Tuttavia, quest’ultimo, è bene ricordarlo, senza l’appoggio di Khamenei non andrebbe molto lontano.

La nuova Presidenza ha comportato, tra le altre cose, la rimozione degli ultimi murales anti USA, ormai sbiaditi, su alcuni edifici nella capitale iraniana. Ma alcuni gruppi di irriducibili, quali il Corpo della Guardie Rivoluzionarie e i Basij (sorta di milizia para militare formatasi nei primi giorni della Rivoluzione) hanno rilanciato la sfida a Rouhani e compagni, istituendo un premio per la miglior opera visiva che celebri l’anti americanismo internazionale (Grande Premio“Morte all’America”), nonché organizzando la manifestazione di protesta contro gli Stati Uniti tenutasi il 4 u.s.

Tutto ciò conferma, ancora una volta, come il regime iraniano sia frammentato, fin dal suo incipit, causa le diverse ideologie sottostanti ai vari movimenti unitisi per attuare la Rivoluzione Islamica del 1978-79. Il potere è retto da un sistema in cui diverse elite si combattono quotidianamente, unite solo da un unico desiderio di controllare la società, e che, paradossalmente, sono tenute in vita proprio da questa dialettica. In questo momento i gruppi che contrastano Rouhani e la sua politica riformista cercano di sbilanciare la tensione e l’attenzione sulla politica estera, per far fallire il negoziato con gli Stati Uniti e ridurre le pretese del riformisti. Questi ultimi, infatti, stanno lavorando non solo sul fronte esterno, ma soprattutto, su quello interno, creando vasto consenso tra la popolazione. Il giorno della manifestazione anti USA, il ministro della Cultura, Ali Jannati, ha annunciato il suo piano per legalizzare definitivamente i social network (il cui accesso, al momento, è inficiato dalla censura e da continue interruzioni di servizio); mentre altri collaboratori scelti da Rouhani stanno coinvolgendo organi governativi e ONG per attuare riforme nei confronti della censura non solo nei confronti di manifestazioni culturali (stampa, letteratura, arti varie) ma anche per sollevare la stretta sulla vita quotidiana dei cittadini.

Tutto ciò è avversato dai falchi, che temono la riduzione del loro potere mantenuto tramite una politica del terrore.

Nella negoziazione sul nucleare, quindi, non contano solo il numero delle centrifughe concesse a Tehran o delle pur necessarie visite degli ispettori AIEA agli impianti iraniani; è in gioco un futuro migliore per decine di milioni di iraniani e per il mondo intero.

da  10/11/2013.

L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana

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Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.

Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.

Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.

da Giornale di Brescia 9/9/2013