il “pacchetto di democratizzazione” di Erdogan

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Ankara ha finalmente varato il pacchetto di riforme verso la strada della democratizzazione atteso da mesi, almeno fin da noti fatti di parco Gezi e delle successive manifestazioni anti governative, la cui dura repressione ha notevolmente annerito l’immagine del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) da anni alla guida della Turchia. Ma la risposta del Paese è, perlopiù, negativa. Sono soprattutto le minoranze, principale oggetto del “pacchetto di democratizzazione” a dimostrarsi scontente per questa che ritengono una opera di superficiale maquillage, a cominciare dalla comunità più controversa, ovvero, la curda. Ad esempio, ai 15 milioni di curdi che chiedevano l’introduzione della loro lingua nelle scuole è stato concesso solo di poter avere l’insegnamento in curdo presso gli istituti privati: ciò suona come una beffa, visto che la maggioranza di loro vive nella zona sud-est del Paese, notoriamente più povera, dove le scuole private sono pressoché inesistenti o inaffrontabili. L’altra richiesta cruciale, ovvero quella di abbassare la soglia del 10% ora necessaria per poter accedere al Parlamento (limite che favorisce i grandi partiti come l’AKP e tiene fuori, tra gli altri, propri quelli curdi), è stata accolta solo da una vaga promessa di rivedere il dato in seno al Parlamento stesso. Nessun passo concreto, inoltre, è stato fatto per decentralizzare l’amministrazione verso un più democratico potenziamento degli organi regionali e locali (altra richiesta curda).

Parimenti scontente sono le minoranze religiose, quali gli Alevi, costituenti circa il 20% della popolazione, che richiedevano il riconoscimento statale delle loro sedi di culto, e che hanno ottenuto solamente la possibilità di avere un’università statale re intitolata sotto il nome di un loro mistico trecentesco.

Gli irriducibili della laicità, poi, hanno accolto con terrore l’abolizione del giuramento di “buon turco” finora imposta agli scolari della scuola dell’obbligo a ogni inizio di settimana, e, soprattutto, lo sdoganamento del velo per le donne nei luoghi di lavoro pubblici, considerandoli quali espressione della precisa volontà dell’AKP di cancellare quel che resta della Turchia di Atatürk per sostituirla con una completamente islamizzata. In realtà, la proibizione del velo nelle pubbliche amministrazioni era divenuta obsoleta in un Paese in cui le donne l’hanno riabbracciato da decadi, e anzi spesso costituiva una forma di protesta contro le costrizioni dello Stato. Lo spettacolo delle studentesse che si toglievano il velo prima di varcare i cancelli delle università per poi rimetterselo quando uscivano era divenuto assurdo, per non parlare delle associazioni di donne sorte proprio per combattere tale proibizione. L’AKP, che governa grazie al consenso di cittadini per cui l’islam è l’identità principale e che, piaccia o no, sono in maggioranza nella Turchia d’oggi, non poteva non accogliere questa protesta che da anni travaglia la vita pubblica. Fermo restando che alcune professioni, quali quella di poliziotta e di giudice, rimarranno comunque “veil free”, la riforma faciliterà l’accesso delle donne a posti di pubblica amministrazione, dove adesso non vengono neppure prese in considerazione solo perché nella foto allegata al curriculum portano il velo.

Quello che desta preoccupazione in tutti, piuttosto, è la totale assenza nel pacchetto di norme che garantiscano maggiore libertà di espressione e che consentano di non etichettare i dissenzienti (quali quelli arrestati proprio durante le manifestazioni iniziate a parco Gezi il giugno scorso) quali terroristi, o che limitino lo strapotere della polizia nel sedare anche violentemente le manifestazioni di pacifica protesta. Ma quest’assenza potrebbe essere frutto di un abile calcolo politico dell’AKP e del suo astuto leader, Erdoğan: nel 2014 i turchi saranno chiamati alle urne, ed è probabile quindi che nei prossimi mesi, a ridosso delle elezioni, venga varata qualche altra riforma che, se annunciata troppo presto, potrebbe essere dimenticata dagli elettori.

dal Giornale di Brescia 3/10/2013