Rouhani a New York

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L’assemblea generale delle Nazioni Unite si sta prospettando come un appuntamento d’importanza cruciale per le sorti del mondo. Il leader più atteso sembra essere il neo Presidente della Repubblica Islamica d’Iran, Hassan Rouhani, attorno al quale gravitano argomenti di capitale interesse e strettamente collegati tra loro, quali la situazione siriana e il nucleare iraniano.

Il neo Presidente iraniano si presenta a New York con una serie di credenziali che fanno ben sperare: la mediazione iraniana è stata cruciale nella “resa” da parte di Bashar Assad per la consegna delle armi chimiche e Rouhani ha più volte dichiarato la volontà del proprio Paese a non perseguire il nucleare per fini bellici, e di avere comunque pieno mandato per stipulare un accordo in materia con le potenze occidentali. A tal proposito, Rouhani ha in programma un incontro, proprio a New York, con tutti i membri della P5 (Cina, Russia, Germania, Inghilterra, Francia), con esclusione, al momento, degli Stati Uniti. Ma lo scambio epistolare avvenuto nei mesi scorsi tra Rouhani e Obama fa ben sperare in un incontro, se non al vertice, almeno tra alti funzionali dei due stati.

Per quanto riguarda il fronte interno, Rouhani ha messo a segno una serie eventi positivi: la corsa al rialzo dei prezzi per i generi di prima necessità si è fermata (complice pure l’alleggerimento del blocco internazionale nei confronti del trasporto navale iraniano), così come si è parzialmente colmato il divario nel cambio tra il dollaro e la valuta iraniana. Alcune manovre volute dal Presidente (quali la liberazione dei social network prima accessibili solo attraverso l’uso di filtri e, più cospicuamente, la liberazione dal carcere di alcuni figure di dissidenti di spicco, quali l’avvocata Nasrin Sotudeh, ex braccio destro del Nobel per la Pace Shirin Ebadi) hanno riportato fiducia nella popolazione, spingendo verso un’unità nazionale che non si respirava dagli anni ’50, all’epoca della nazionalizzazione del petrolio da pare dell’allora ministro Mossadegh.

Ovviamente, vi sono molti scettici che attribuiscono queste timide riforme al bisogno di Tehran di allentare la pressione delle sanzioni e di allontanare la minaccia di un attacco alla Siria che avrebbe conseguenze letali anche per l’Iran. Alcuni “falchi” americani hanno applaudito il loro Presidente, Obama, per aver contribuito ad inasprire le sanzioni e aver minacciato la Siria di un attacco bellico, elementi che, secondo la loro interpretazione, avrebbero determinato l’ammorbidimento (anzi, la capitolazione), di Tehran.

Al contempo, molti altri plaudono la diplomazia che, negli ultimi tempi, sembra di nuovo animare i rapporti internazionali. Ambo le parti parlano di “rispetto reciproco”, mentre “flessibilità”, sembra essere la parola che anima i discorsi tanto di Tehran quanto di Washington. Indubbiamente, ciò rappresenta il segno positivo di una distensione che va ampliata e fortificata. Se ciò è dovuto, da parte iraniana, ai problemi economici che travagliano da tempo il Paese, certamente anche gli Stati Uniti debbono sottostare alle necessità di una crisi globale che li costringe a guardare al proprio interno, se vogliono mantenere la propria posizione negli affari mondiali.

In altra parole, anche Washington deve cambiare il proprio approccio e convogliare le proprie energie non verso una guerra logorante nei confronti di Tehran, ma verso un progetto di attiva collaborazione con l’Iran, senza il quale la regione rimarrà in uno stato di tensione, con la Siria in preda alla guerra civile, l’Iraq vittima di continui attacchi terroristici e l’Afghanistan destinato a divenire, dopo il ritiro americano, un luogo più violento e ingovernabile di quanto non fosse all’inizio del 2000.

da Giornale di Brescia, 24/9/2013.

L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana

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Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.

Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.

Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.

da Giornale di Brescia 9/9/2013