l’islam politico è morto, viva l’islam politico

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In Tunisia è stato ucciso un altro esponente dell’opposizione contro il partito islamico al governo Ennahda; in Egitto, il Presidente Morsi, espressione del partito islamico al potere, è stato esautorato dall’esercito dopo che milioni di cittadini ne hanno chiesto l’allontanamento; in Turchia, il leader dei partito islamico al governo da anni, Recep Erdoğan, è da oltre un mese contestato dalle piazze che lo accusano di aver tradito la democrazia. Questi eventi spingono molti osservatori a pensare all’implosione dell’islam “politico” e a dichiarare la fine di questo modello, ma, un’analisi dei fatti porta ad altre conclusioni. In Egitto, Morsi è stato contestato perché ha interpretato il mandato come un’autorizzazione a consolidare il proprio potere, convinto che l’anima religiosa degli egiziani fosse sufficiente per assoggettarli a un unico partito, seppure d’ispirazione religiosa. Inoltre, ha fallito (insieme ai Fratelli Musulmani) nel dare una risposta alla crisi economica e sociale in cui si dibatte il Paese, così come, parallelamente, in Tunisia ha fallito Ennahda, il cui governo coincide con una delle peggiori crisi economiche nella storia tunisina. In Turchia, dove Erdoğan ha portato il Paese al benessere e a un esponenziale incremento del PIL, le cose sono diverse: qui non è in discussione il partito religioso al governo (anche se, ovviamente, pure l’AKP ha i suoi oppositori), quanto proprio il suo leader e i suoi atteggiamenti dispotici, e la contestazione popolare è quindi ad personam. Le proteste a Ankara, Cairo e Tunisi non significano che i rispettivi cittadini vogliano liberarsi dell’islam politico, o che questi sia finito, ma solo che i cittadini non s’accontentano del vecchio slogan “l’islam è la soluzione” sbandierato dai partiti religiosi qualche tempo fa, ma invocano una direzione dall’identità islamica sì, ma con un forte accento democratico, e soprattutto, di provata competenza politico-economica. I partiti islamici, quindi, non possono contare solo sulle loro credenziali religiose per governare, ma debbono dimostrare capacità tecniche unite a una vocazione democratica. In questi ultimi anni, tunisini, egiziani e turchi hanno dimostrato che, seppur abbiano essi stessi eletto Ennahda, i Fratelli Musulmani e il Partito della Giustizia e Sviluppo, una volta accertato che il mandato da loro democraticamente consegnato non si è tramutato in benessere economico, politico, sociale, sono pronti a scendere in piazza e ha chiedere il cambiamento. Il ricatto operato in passato dai gruppi religiosi che pretendevano di identificare l’opposizione nei loro confronti come un insulto alla religione non funziona più. Tuttavia, nell’area la religione permane non solo come depositaria della fede e del culto, ma pure come guida alle pratiche quotidiane, e, in politica è considerata fonte di moralità, anzi, spesso rimpiazza il concetto stesso di moralità. L’insuccesso dei Fratelli Musulmani o il “tradimento” di Erdoğan non vengono interpretati come il fallimento dell’islam, e ciò spiega, almeno in parte, perché il colpo militare che ha deposto Morsi è stato salutato con favore – o, almeno, condonato – da molti paesi musulmani. D’altro canto, nelle società a forte componente musulmana si sta levando sempre più forte il richiamo a tenere la religione separata (ovvero, più in alto) della politica, proprio per evitare eventuali contaminazioni e che l’abuso della religione da parte di movimenti radicali per auto legittimarsi, in questo momento storico così incerto, possa condurre a identificare uno scacco politico come un insuccesso della religione stessa. Ma in queste società, dove lo spazio politico continua a rimanere ristretto e i regimi non incoraggiano l’opposizione, la religione finisce spesso per essere l’unica istituzione alternativa; e così mentre la politica diviene religiosa, l’islam diviene (o rimane) politico.

da il Giornale di Brescia 30/7/2013

Erdoğan contro Erdoğan

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Erdoğan contro Erdoğan: il super primo ministro turco, altamente contestato all’interno dopo i noti fatti del Parco Gazi, incorre ora pure nelle ire del suoi un tempo fedeli alleati e amici, ovvero l’Egitto e il Qatar. Il nuovo sovrano di Doha, infatti, non sembra per ora confermare il massiccio supporto ai Fratelli Musulmani offerto in passato dal re suo padre, e ha addirittura inviato le proprie felicitazioni al nuovo governo egiziano. Così il governo turco rimane la sola voce autorevole nell’area a chiedere la re installazione dell’ex Presidente egiziano Morsi, richiesta peraltro non apprezzato dal Cairo che ha accusato Erdoğan e i suoi di immischiarsi nei propri affari interni. Anzi, il portavoce del premier egiziano, Ahmed Elmoslmany, ha esplicitamente ammonito Ankara a non occuparsi di quanto succede a piazza Tahrir, visto che il Cairo non ha interferito nei fatti di piazza Taksim. L’accenno alla piazza istanbulina, sede della più grande contestazione popolare nei confronti di Erdoğan, deve essere risultata particolarmente sgradita al premier turco, il quale, tuttavia, non sembra voler fare marcia indietro sulle sue intransigenti posizioni nei confronti dei contestatori. Continua, infatti, l’ondata di arresti indiscriminati di persone solo in sospetto di aver partecipato a qualche manifestazione di protesta (esemplare il fermo di un venditore  di bandiere di Istanbul solo perché recanti la foto di Ataturk), tanto che ormai gli oppositori del primo ministro non lo chiamano più per nome, riferendosi invece comunemente a lui come “il dittatore”.

Erdoğan è accusato di aver minato le basi delle democrazia, accentuando i conflitti tra le varie anime del Paese (soprattutto quello tra la componente laica e quella religiosa), col solo fine di perseguire il proprio potere personale. La dissennata condotta del primo ministro, già iniziata da qualche tempo, ma culminata nell’ultimo mese in un atteggiamento dispotico di chiusura totale al dialogo con la popolazione, ha già fatto dimenticare i buoni servigi da lui offerti nei primi anni di amministrazione, fra i quali ricordiamo la re defizione dei compiti dell’esercito (in passato assai propenso a colpi di stato liberticidi), il processo di pacificazione con la componente curda, l’incremento esponenziale del PIL e l’accresciuto prestigio della Turchia a livello internazionale. Ora invece la Turchia sembra essere entrata in una fase di decadenza e di pessimismo, aumentati dalla tendenza economica negativa: dopo i fatti di Parco Gazi il flusso turistico ha subito un duro colpo, non solo per i mancati arrivi internazionali, ma pure perché gli stessi turchi stanno disertando i luoghi d’intrattenimento, le mete turistiche e i gli acquisti in genere. La delusione nei confronti di  Erdoğan fa leggere in chiave diversa i suoi successi passati, e molti sostengono egli abbia domato il potere dell’esercito non per fini democratici, ma per togliere di mezzo un contendente pericoloso; così come la sua preoccupazione di intrattenere il dialogo con il partito Curdo non sarebbe frutto del desidero di unificare finalmente il Paese, ma, piuttosto, di crearsi un alleato per la sua ambita futura carriera di Presidente. E’ infatti risaputo che Erdoğan mira ad essere letto Presidente nel 2014, ma solo se riuscirà prima a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, altrimenti la carica attuale darebbe poco prestigiosa per un uomo che è stato un potente primo ministro. Per far ciò, egli e il suo AKP stanno lavorando nell’ambito della commissione che sta riscrivendo la costituzione, ma vi sono opposizioni e quindi hanno bisogno del supporto del partito filo curdo Pace e Democrazia.

Intanto, però, i sondaggi hanno evidenziato come nell’ultimo mese Erdoğan abbia perduto molto supporto popolare, diventando nell’immaginario popolare il primo responsabile della crisi; i turchi, quindi, aspettano un gesto significativo da parte di colui che, negli ultimi tempi, si è auto nominato padrone assoluto del Paese.

 

dal Giornale di Brescia 21/7/2013

Morsi e i F.M. hanno fallito però…..

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Come due anni fa la piazza egiziana ha voluto e ottenuto la testa del Presidente della Repubblica. L’oramai ex Presidente Morsi ha deluso ogni aspettativa, perché invece che dirigere i propri sforzi per portare qualche cambiamento positivo alla languente economia egiziana si è adoperato solo per incrementare il proprio potere, distribuendo favori alla sua accolita, né più né meno di quanto aveva fatto Mubarak. Morsi ha creduto di poter fare tutto da solo, esclusivamente con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e senza tener conto di tre forze determinanti nel Paese: il partito oltranzista Nur, che costituisce il blocco più cospicuo in Parlamento dopo i Fratelli Musulmani e che ha lavorato per minare la loro credibilità; la piazza, che s’era già dimostrata capace di rovesciare un regime collaudato come quello di Mubarak; e, soprattutto, i militari che s’erano solo temporaneamente fatti da parte. In realtà, è proprio grazie a un patto stretto tra l’esercito e i Fratelli Musulmani che questi ultimi sono rimasti al potere, un accordo secondo il quale l’esercito ha continuato a gestire il proprio immenso patrimonio economico costituendo di fatto uno stato dentro lo stato. Ora i militari tornano protagonisti, astutamente ergendosi a difensori delle democratiche richieste dei milioni di cittadini inneggianti le dimissioni di Morsi e affermando di non volere esercitare alcun comando. Ma solo gli ingenui possono pensare che l’esercito non trasformi la situazione presente a proprio vantaggio, perché di certo i militari non rinunceranno al ruolo di guardiani dell’Egitto e si preoccuperanno che chiunque succeda a Morsi continui a tenere gli occhi chiusi sui loro immensi privilegi economici e politici.

Di sicuro i milioni di egiziani scesi in piazza contro Morsi chiedendo proprio l’intervento dell’esercito (nonostante le palesi violazioni dei diritti umani da questo perpetuate) sono ben consapevoli della minaccia rappresentata dai loro “liberatori”, ma probabilmente l’hanno considerata un male minore. Di fatto, però, la democrazia è stata violata da un atto commesso contro un Presidente e un partito che, bene o male, erano stati eletti dalla maggioranza degli elettori. Inoltre, non è chiara la via che il Paese prenderà. L’opposizione s’è attivata per far destituire il Presidente, ma raggiunto questo obiettivo non ha un programma, anche perché non si tratta di una forza organizzata, ma solo di una moltitudine di individui dalle convinzioni più disparate: laici, musulmani che non si riconoscono nei Fratelli fra i quali la massima autorità dell’università islamica di Al Azhar, simpatizzanti dell’ancient regime, copti e musulmani sciiti contro la cui persecuzione le autorità nulla hanno fatto, membri del partito Nur, liberali, socialisti, cittadini preoccupati dalla deriva autoritaria assunta da Morsi e dai Fratelli e stretti nella morsa di un’economia disastrata. A questo proposito, è bene ricordare come siano in pericolo gli investimenti e i finanziamenti assicurati dal Qatar all’Egitto direttamente attraverso la persona dell’ex Presidente Morsi, il quale nel mese di giugno s’era recato per l’ennesima volta a Doha per batter cassa. Il Qatar aveva assicurato il proprio aiuto in virtù del fatto che l’Egitto era in mano ai Fratelli Musulmani, c’è quindi il rischio che ora ritiri il proprio appoggio economico inferendo un colpo mortale alle finanze egiziane. Che l’atmosfera tra i due paesi sia rapidamente cambiata è confermato dal fatto che, non appena Morsi è stato destituito, le forze di sicurezza egiziane hanno oscurato alcuni canali televisivi, tra cui quello dell’emittente qatarina Al Jazira, che proprio due anni fa aveva costituito uno dei principali strumenti d’informazione sulla rivoluzione egiziana. Un fatto grave che getta un’ombra su questa nuova fase della rivoluzione, anche se, al momento, molti egiziani che all’epoca avevano inneggiato ad Al Jazira sono in festa.

da Il Giornale di Brescia 5/7/2013.