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Morsi e i F.M. hanno fallito però…..

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Come due anni fa la piazza egiziana ha voluto e ottenuto la testa del Presidente della Repubblica. L’oramai ex Presidente Morsi ha deluso ogni aspettativa, perché invece che dirigere i propri sforzi per portare qualche cambiamento positivo alla languente economia egiziana si è adoperato solo per incrementare il proprio potere, distribuendo favori alla sua accolita, né più né meno di quanto aveva fatto Mubarak. Morsi ha creduto di poter fare tutto da solo, esclusivamente con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e senza tener conto di tre forze determinanti nel Paese: il partito oltranzista Nur, che costituisce il blocco più cospicuo in Parlamento dopo i Fratelli Musulmani e che ha lavorato per minare la loro credibilità; la piazza, che s’era già dimostrata capace di rovesciare un regime collaudato come quello di Mubarak; e, soprattutto, i militari che s’erano solo temporaneamente fatti da parte. In realtà, è proprio grazie a un patto stretto tra l’esercito e i Fratelli Musulmani che questi ultimi sono rimasti al potere, un accordo secondo il quale l’esercito ha continuato a gestire il proprio immenso patrimonio economico costituendo di fatto uno stato dentro lo stato. Ora i militari tornano protagonisti, astutamente ergendosi a difensori delle democratiche richieste dei milioni di cittadini inneggianti le dimissioni di Morsi e affermando di non volere esercitare alcun comando. Ma solo gli ingenui possono pensare che l’esercito non trasformi la situazione presente a proprio vantaggio, perché di certo i militari non rinunceranno al ruolo di guardiani dell’Egitto e si preoccuperanno che chiunque succeda a Morsi continui a tenere gli occhi chiusi sui loro immensi privilegi economici e politici.

Di sicuro i milioni di egiziani scesi in piazza contro Morsi chiedendo proprio l’intervento dell’esercito (nonostante le palesi violazioni dei diritti umani da questo perpetuate) sono ben consapevoli della minaccia rappresentata dai loro “liberatori”, ma probabilmente l’hanno considerata un male minore. Di fatto, però, la democrazia è stata violata da un atto commesso contro un Presidente e un partito che, bene o male, erano stati eletti dalla maggioranza degli elettori. Inoltre, non è chiara la via che il Paese prenderà. L’opposizione s’è attivata per far destituire il Presidente, ma raggiunto questo obiettivo non ha un programma, anche perché non si tratta di una forza organizzata, ma solo di una moltitudine di individui dalle convinzioni più disparate: laici, musulmani che non si riconoscono nei Fratelli fra i quali la massima autorità dell’università islamica di Al Azhar, simpatizzanti dell’ancient regime, copti e musulmani sciiti contro la cui persecuzione le autorità nulla hanno fatto, membri del partito Nur, liberali, socialisti, cittadini preoccupati dalla deriva autoritaria assunta da Morsi e dai Fratelli e stretti nella morsa di un’economia disastrata. A questo proposito, è bene ricordare come siano in pericolo gli investimenti e i finanziamenti assicurati dal Qatar all’Egitto direttamente attraverso la persona dell’ex Presidente Morsi, il quale nel mese di giugno s’era recato per l’ennesima volta a Doha per batter cassa. Il Qatar aveva assicurato il proprio aiuto in virtù del fatto che l’Egitto era in mano ai Fratelli Musulmani, c’è quindi il rischio che ora ritiri il proprio appoggio economico inferendo un colpo mortale alle finanze egiziane. Che l’atmosfera tra i due paesi sia rapidamente cambiata è confermato dal fatto che, non appena Morsi è stato destituito, le forze di sicurezza egiziane hanno oscurato alcuni canali televisivi, tra cui quello dell’emittente qatarina Al Jazira, che proprio due anni fa aveva costituito uno dei principali strumenti d’informazione sulla rivoluzione egiziana. Un fatto grave che getta un’ombra su questa nuova fase della rivoluzione, anche se, al momento, molti egiziani che all’epoca avevano inneggiato ad Al Jazira sono in festa.

da Il Giornale di Brescia 5/7/2013.

Egitto alle urne

Gli egiziani tornano alle urne per il ballottaggio che dovrebbe eleggere il nuovo Presidente della Repubblica in un clima di grande incertezza acuito dal recente scioglimento, da parte della Corte Costituzionale, del Parlamento eletto solo qualche mese fa. Questa manovra, tesa  a disfarsi di un’assemblea “troppo” sbilanciata a favore dei fratelli Musulmani e della compagine islamista più estrema (salafita), conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le forze armate non hanno perso l’appetito per il potere, tanto da aver messo in atto questo colpo di stato incompleto. Se vincitore di queste elezioni dovesse risultare Ahmed Shafiq, loro candidato (Shafiq è un ex generale dell’ aeronautica), le forze armate avrebbero il controllo completo, l’ancient regime sarebbe restaurato e la primavera di piazza Tahrir vanificata.

Contro quest’ipotesi si scagliano tanto gli islamisti quanto i laici, ma, in realtà, alla maggioranza degli egiziani non piace né Ahmed Shafiq (e quanto significherebbe la sua elezione), né il suo oppositore, Muhamed Mursi, candidato dei Fratelli Musulmani. uomo privo di carisma e ubbidiente al Partito che diverrebbe  il rappresentante di un Egitto decisamente sbilanciato verso una piena connotazione “religiosa” del Paese.

Tuttavia, molti laici, ma pure la componente Copta, sembrano preferire, tra i due mali, la soluzione Shafiq; ecco perché anche Mursi ha corteggiato i Copti dichiarando la sua disponibilità a farli partecipi del nuovo corso politico egiziano, e perché ha cercato di ammorbidire alcune posizioni dell’ala più conservatrice dei Fratelli in materia di controllo sulla società, parlando della non necessità di imporre il velo alle donne e dimostrandosi più possibilista dei colleghi di partito nell’apertura politica alle minoranze.

E’ pure vero che i Fratelli scontano la cattiva performance post elettorale e il conseguente scontento della popolazione, compresi i loro votanti, i quali s’illudevano, irrealisticamente, in un rapido miglioramento delle condizioni economico-lavorative del Paese. Molti hanno votato i Fratelli conoscendo il loro grande impegno sociale sul territorio, la loro rete di successo volta ad assicurare assistenza sanitaria e scolastica nelle zone disagiate, il loro rapido intervento a favore dei disoccupati e dei più poveri: ma reggere le sorti del Paese è altra cosa, soprattutto se si hanno le forze armate che remano contro. Ricordiamo che l’esercito controlla la risorsa principale del Paese, ovvero l’agricoltura, ma pure molte industrie nonché i lucrosi insediamenti turistici del Mar Rosso.

D’altro canto, per molti è difficile pure dare il voto a Shafiq, ex membro del partito di Mubarak, correo di tante azioni corrotte in compagnia dell’ex faraone e sospettato, tra l’altro, di aver ordito l’attacco delle “truppe cammellate” che hanno picchiato e ucciso alcuni manifestanti in piazza Tahrir nel gennaio 2011. Ecco perché, ad esempio, gli animatori del Movimento del 6 Aprile, uno dei gruppi di giovani egiziani più attivi nella “primavera”, considera piuttosto un’alleanza con i Fratelli Musulmani, qualora vincesse il loro candidato Mursi, ma esclude la possibilità di venire a patti con Shafiq.

Così, gli egiziani vanno alle urne per scegliere tra Scilla e Cariddi, mentre la vera sconfitta, al momento, è la democrazia, assieme ai suoi seguaci. In più, vi è l’incombente pericolo di nuovi e sanguinosi disordini nelle piazze del Paese, qualsiasi sia il verdetto delle urne.

pubblicato da Giornale di Brescia 17/6/2012

l’eredità della guerra dei 6 giorni

Nella ridda di anniversari ed appuntamenti che si rincorrono nel Medio Oriente in questi ultimi mesi è scivolato via quasi totalmente ignorato dall’attenzione internazionale il 45 anniversario della guerra del 6 giorni, combattuta nel giugno 1967 fra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra. La guerra lampo fruttò a Israele cruciali territori strappati ai tre paesi arabi, fra cui le alture del Golan, in Siria, e aprì una fase di crisi profonda nell’area ancor oggi ben lungi dall’essere risolta.

Al di là delle perdite umane e territoriali, comunque ingenti, la cocente sconfitta comportò uno sconvolgimento socio-politico culturale non solo nei tre paesi arabi coinvolti, ma nell’area islamica tutta. Basti pensare che l’evento bellico è comunemente conosciuto come “an-naksa”, la ricaduta, la sconfitta per antonomasia, in quanto lo shock subito per questa rapida e inaspettata vittoria israeliana si è scolpito per sempre nella memoria storica dei paesi musulmani.

L’Egitto è forse il Paese che più ha scontato, alla lunga scadenza, tale sconfitta: l’Egitto doveva assicurare alla coalizione militare l’impatto della sua formidabile forza aerea, che venne invece annientata dalle forze israeliane già nel primo giorno del conflitto, il 5 giugno 1967. La guerra continuò rapida e impietosa per gli alleati arabi, e già l’8 giugno, per evitare che gli israeliani prendessero pure il controllo sul Canale di Suez, il leader egiziano Nasser dovette accettare la pace imposta dall’ONU e le successive condizioni dei vincitori.

Il 10 giugno, era già tutto finito. Nasser era stato umiliato, e con lui l’intero Paese. Nasser poi presentò le proprie dimissioni, peraltro respinte, ma ormai s’era infranto il sogno dell’intraprendente politico, il suo progetto di pan-arabismo sotto la propria leadership, e, soprattutto, l’idea di uno stato laico vincente. La sconfitta del 1967 ha provocato la sfiducia collettiva nello stato laico, nelle sua declinazione socialista dimostratasi incapace di fronteggiare il nemico, aprendo la strada ad una sempre maggior influenza dei nuovi gruppi islamisti. L’anno precedente la catastrofe, nel 1966, Nasser aveva fatto giustiziare Sayyd Qutb, padre fondatore dei Fratelli Musulmani: la sconfitta da parte di Israele venne quindi interpretata da molti come conseguenza di una deviazione dalla via “religiosa”, ritenuta l’unica possibile per lo sviluppo di un paese ad alata concentrazione musulmana. Molti nazionalisti disillusi abbandonarono le loro convinzioni per abbracciare un “islam politico” le cui derive estremiste minacciano ancor oggi l’incolumità mondiale, in primis quella degli stessi musulmani, principali vittime del terrorismo islamista internazionale. E’ nell’Egitto post 1967, infatti, che ha cominciato la sua opera di predicazione jihadista un allora giovanissimo al-Zawahri, poi fuggito in Asia Centrale dove partecipa al progetto della neonato al-Qaeda.

L’eredità di quei 6 giorni del giugno 1967 è altresì rappresentata dalla massa di sfollati palestinesi che sono ancora rimasti tali; dai territori occupati in Palestina e Giordania; dall’isolamento di Israele e dalla tensione in tutta l’area.

La memoria della guerra dei 6 giorni è presente in molta letteratura in lingua araba, nella cinematografia mediorientale, ma è anche spesso sfruttata da regimi illiberali che con il pretesto di difendere la causa palestinese, cercano di deviare l’attenzione dei propri concittadini dai problemi interni. La guerra dei 6 giorni non può essere cancellata, ma la questione palestinese deve tornare alla ribalta dell’agenda internazionale, ora distratta su altri fronti, perché da ciò dipende la sicurezza di noi tutti.

 pubblicato da Giornale di Brescia, 14/6/2012

I gelsomimi fioriscono solo in Tunisia?


LA RIVOLUZIONE
DEI GELSOMINI
È CONTAGIOSA
Anna Vanzan
Giornale di Brescia 29/1/2011
Il fuoco della rivolta si è esteso dal Maghreb alla penisola araba, finendo, al momento, nello Yemen. Le conseguenze di tali rivolte popolari, porteranno, molto probabilmente, a differenti risultati. Alla luce della situazione attuale, la Tunisia è destinata a raccogliere il successo maggiore per i dimostranti: comparando la sua situazione a quella dell’Egitto, ad esempio, è già evidente come Mubarak non pensi ad una rapida ritirata quale quella attuata dal collega tunisino Ben Ali. Fra i vari motivi, non ultimo è il fatto che Ben Ali ha presto capito di non poter contare sull’esercito, mentre Mubarak è, per ora, saldamente in controllo delle forze armate e di polizia che stanno reagendo pesantemente contro gli insorti. Inoltre, durante i giorni della rivolta, Ben Ali si è esposto con proclami che hanno rivelato la sua debolezza, mentre il furbo Mubarak si defila dal confronto diretto con i dimostranti, delegando all’uopo membri del suo Governo che, di fatto, risultano i mandanti della repressione in corso: compresa quella informatica, che sta oscurando quanto veramente succede al Cairo e dintorni.
Rispetto al presidente tunisino, inoltre, Mubarak può certo vantare un più saldo appoggio da parte delle forze internazionali: da un lato, stanno Europa, Stati Uniti e Israele. Possono questi tre grandi attori permettersi che esca di scena il garante di un solido muro contro la minaccia dei Fratelli Musulmani? La retorica che prospetta solo due soluzioni per gli egiziani (o con Mubarak o in preda al fondamentalismo dei Fratelli Musulmani) sta circolando insistentemente e persuasivamente. In un’area già travagliata, tra l’altro, dal conflitto israelo-palestinese e della probabile disgregazione del Sudan, le forze internazionali occidentali preferiscono lo status quo, seppure a discapito degli egiziani e della loro sete di democrazia. Dall’altro lato, stanno i regimi della penisola araba, spaventati per quanto sta accadendo. Ieri i giornali del Bahrein riportavano la notizia di una telefonata intercorsa tra il loro sovrano e Mubarak, con cui il reindiceva un’urgente riunione dei capi arabi onde fronteggiare la situazione, che sta precipitando pure in Yemen. Certamente galvanizzati dalla Rivoluzione del Gelsomini in Tunisia, e dalla scadenza elettorale per il rinnovo del loro Parlamento, prevista a fine aprile (dopo essere stata procrastinata per due anni!), gli yemeniti stanno scendendo in piazza, chiedendo la fine del regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978. Saleh è accusato dai suoi di corruzione, nepotismo (sta preparando il figlio Ahmed a succedergli tra un paio d’anni) e di aver appoggiato una politica economica disastrosa per il Paese: insomma, di avere il profilo di pragmatica per un «despota orientale». Su Saleh, anche Washington è assai dubbiosa: dopo l’11 settembre, il regime yemenita è stato abbondantemente finanziato dagli Stati Uniti per affiancarsi alla lotta contro il terrorismo. Ma Saleh, dopo qualche buon risultato iniziale, ha finito per stornare i fondi foraggiando gruppi estremisti stanziati nel Sud del Paese per combattere la sua guerra contro i ribelli del Nord. In tal modo, lo Yemen è divenuto una comoda postazione per l’Aqap, la cellula di al-Qaeda nella Penisola Arabica.
La realpolitik sta decidendo se Mubarak e Saleh sono preferibili a soluzioni ignote, anche se la Rivoluzione dei Gelsomini tunisina sta dimostrando che il cambiamento è possibile, senza per questo mettere una regione a ferro e a fuoco. Ma, forse, i gelsomini possono fiorire solo in Tunisia.

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