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Ennahda, la Costituzione e l’economia tunisine

Finalmente una buona notizia dalla Tunisia: il partito Ennahda ha deciso di non toccare il primo articolo della Costituzione che ancora il Paese alle sue radici storico-religiose, ma anche laiche. La decisione di confermare l’articolo primo senza inserire, quindi, la dicitura che avrebbe definito la Tunisia quale “Stato islamico” è di fatto un segnale positivo, dopo le incerte, per non dire ambigue, dichiarazioni pronunciare da Ghannouchi e compagni negli ultimi mesi. Soprattutto, Ennahda non si è fatto intimorire dalle manifestazioni di piazza di stampo salafita svoltesi nei giorni scorsi e che chiedevano a gran voce di implementare “la legge di Dio” (ovvero, la shari’a) a discapito di quella degli uomini. Anzi, Ghannouchi è intervenuto duramente, rammentando ai salafiti che la strada da loro imboccata porta alla guerra civile, un discorso che, purtroppo, non è piaciuto nemmeno ad alcuni del suo partito, i cosiddetti “giovani” che sono però assai più fondamentalisti di Ghannouchi (chi ha detto che i giovani sono sempre portatori di novità positive?!). Ciò rischia di creare una frattura all’interno del partito di maggioranza tunisino, ma forse anche ad avvicinare a Ghannouchi la componente laica presente nel Paese, finora assai sospettosa nei confronti del carismatico leader.

Rispetto agli altri stati coinvolti nella “primavera”, la Tunisia ha senza dubbio molti requisiti che fanno sperare in un suo deciso avvio sulla strada della democrazia, in primis la sua componente laica; inoltre, il Paese non è squassato da divisioni etniche, presentandosi alquanto omogeneo sotto questo aspetto che invece provoca disastrose conseguenze in altri stati arabi (vedi l’Iraq e la Libia); senza contare che possiede delle istituzioni che hanno dimostrato una buona tenuta democratica, a cominciare dall’esercito, composto da professionisti e scarsamente politicizzato.

Comunque, bisogna tener presente l’evoluzione della società tunisina, che perlopiù avanza la richiesta di democrazia non vissuta in contraddizione con la propria appartenenza religiosa e culturale, ma con questa dinamicamente integrata. Rachid Ghannouchi è stato abile a capire tale mutamento, anche perché lui stesso incarna, in parte, questa evoluzione. Difatti, fino ad oggi Ghannouchi si è attenuto a un profilo basso proponendo un programma moderato dove l’islam sembra quasi una cornice culturale di riferimento piuttosto che costituire un obiettivo politico nel senso deleterio che a volte ha assunto in altri contesti, ovvero, di unico e assoluto parametro di governo.

Nel distanziarsi dall’”islam politico” da parte di Ghannouchi potrebbe aver giocato un ruolo influente pure la convenzione, da stipularsi in questi giorni a Tunisi, con la quale la UE trasferirà alla Tunisia sei milioni e 477 mila euro da destinare allo sviluppo delle zone disagiate del Paese.

Nel quadro positivo tunisino, senza dubbio pesa pure il fattore economico: la Tunisia ha un PIL relativamente alto rispetto agli altri paesi coinvolti nella “primavera” e i suoi contatti economici con l’Europa sono decisamente più saldi. Ma Ghannouchi dovrà tenere in mente che i primi moti rivoluzionari sono scoppiati perché c’erano dei suoi connazionali che chiedevano, oltre a libertà e giustizia, lavoro e equità sociale. La vera sfida per Ennhada sarà proprio questa: le derive islamiste vanno di pari passo con l’insoddisfazione economica e nel Golfo sono sempre pronti ad approfittarne. Il vero impegno, ora, è assicurare il benessere economico a quanti più tunisini possibile.

pubblicato da Giornale di Brescia 31/3/2012.

 

 

 

I gelsomimi fioriscono solo in Tunisia?


LA RIVOLUZIONE
DEI GELSOMINI
È CONTAGIOSA
Anna Vanzan
Giornale di Brescia 29/1/2011
Il fuoco della rivolta si è esteso dal Maghreb alla penisola araba, finendo, al momento, nello Yemen. Le conseguenze di tali rivolte popolari, porteranno, molto probabilmente, a differenti risultati. Alla luce della situazione attuale, la Tunisia è destinata a raccogliere il successo maggiore per i dimostranti: comparando la sua situazione a quella dell’Egitto, ad esempio, è già evidente come Mubarak non pensi ad una rapida ritirata quale quella attuata dal collega tunisino Ben Ali. Fra i vari motivi, non ultimo è il fatto che Ben Ali ha presto capito di non poter contare sull’esercito, mentre Mubarak è, per ora, saldamente in controllo delle forze armate e di polizia che stanno reagendo pesantemente contro gli insorti. Inoltre, durante i giorni della rivolta, Ben Ali si è esposto con proclami che hanno rivelato la sua debolezza, mentre il furbo Mubarak si defila dal confronto diretto con i dimostranti, delegando all’uopo membri del suo Governo che, di fatto, risultano i mandanti della repressione in corso: compresa quella informatica, che sta oscurando quanto veramente succede al Cairo e dintorni.
Rispetto al presidente tunisino, inoltre, Mubarak può certo vantare un più saldo appoggio da parte delle forze internazionali: da un lato, stanno Europa, Stati Uniti e Israele. Possono questi tre grandi attori permettersi che esca di scena il garante di un solido muro contro la minaccia dei Fratelli Musulmani? La retorica che prospetta solo due soluzioni per gli egiziani (o con Mubarak o in preda al fondamentalismo dei Fratelli Musulmani) sta circolando insistentemente e persuasivamente. In un’area già travagliata, tra l’altro, dal conflitto israelo-palestinese e della probabile disgregazione del Sudan, le forze internazionali occidentali preferiscono lo status quo, seppure a discapito degli egiziani e della loro sete di democrazia. Dall’altro lato, stanno i regimi della penisola araba, spaventati per quanto sta accadendo. Ieri i giornali del Bahrein riportavano la notizia di una telefonata intercorsa tra il loro sovrano e Mubarak, con cui il reindiceva un’urgente riunione dei capi arabi onde fronteggiare la situazione, che sta precipitando pure in Yemen. Certamente galvanizzati dalla Rivoluzione del Gelsomini in Tunisia, e dalla scadenza elettorale per il rinnovo del loro Parlamento, prevista a fine aprile (dopo essere stata procrastinata per due anni!), gli yemeniti stanno scendendo in piazza, chiedendo la fine del regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978. Saleh è accusato dai suoi di corruzione, nepotismo (sta preparando il figlio Ahmed a succedergli tra un paio d’anni) e di aver appoggiato una politica economica disastrosa per il Paese: insomma, di avere il profilo di pragmatica per un «despota orientale». Su Saleh, anche Washington è assai dubbiosa: dopo l’11 settembre, il regime yemenita è stato abbondantemente finanziato dagli Stati Uniti per affiancarsi alla lotta contro il terrorismo. Ma Saleh, dopo qualche buon risultato iniziale, ha finito per stornare i fondi foraggiando gruppi estremisti stanziati nel Sud del Paese per combattere la sua guerra contro i ribelli del Nord. In tal modo, lo Yemen è divenuto una comoda postazione per l’Aqap, la cellula di al-Qaeda nella Penisola Arabica.
La realpolitik sta decidendo se Mubarak e Saleh sono preferibili a soluzioni ignote, anche se la Rivoluzione dei Gelsomini tunisina sta dimostrando che il cambiamento è possibile, senza per questo mettere una regione a ferro e a fuoco. Ma, forse, i gelsomini possono fiorire solo in Tunisia.

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