Arabia Saudita: non tutti sono felici per il new deal iraniano….

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Quello che si è aperto a Ginevra è il più carico di aspettative fra tanti negoziati avvenuti in questi ultimi anni tra l’Iran e il blocco di potenze occidentali che contestano a Tehran il suo programma nucleare. Il parziale riavvicinamento fra stati Uniti e Iran avvenuto il mese scorso nella sede newyorkese dell’ONU unito alle aperture tanto verbali quanto tangibili effettuate da parte della nuova Presidenza iraniana non solo in politica estera, ma, soprattutto, nella sfera domestica, hanno creato un clima di fiducia e speranza. Tale speranza è stata in parte confermata dai primi approcci tra il gruppo di potenze internazionali P5+1 e Iran; anche se ancora non è chiaro se la “road map” presentata da Tehran per arrivare a una risoluzione del conflitto sul nucleare sarà accettata, a Ginevra si respira un’altra aria, che intanto ha consentito di programmare un ravvicinato incontro nel mese prossimo di novembre. Chiaramente, non ci si poteva aspettare una capitolazione totale da parte dell’Iran, interessato soprattutto ad allentare la morsa delle sanzioni, ma anche a ritornare nel giro internazionale “occidentale”: un chiaro segnale in questo senso è stato dato dal fatto che i negoziati sono stati condotti dalla rappresentanza iraniana in lingua inglese, contrariamente a quanto avvenuto in passato. Altra novità è stata l’intervista concessa dal Ministro degli Affari Esteri, Abbas Araqchi, all’inviato di un quotidiano israeliano, il Times di Israele, al quale ha dichiarato che la risoluzione del problema nucleare porterebbe l’Iran a vivere in pace con tutti i Paesi. Il fatto che un alto funzionario della Repubblica Islamica conceda un’intervista a un esponente dei media israeliani è già di per se eccezionale, ma che poi, seppur senza nominarlo, includa implicitamente l’acerrimo nemico nei Paesi con cui convivere è di straordinaria importanza, calcolando che l’Iran a tutt’oggi non riconosce lo stato di Israele. Al contempo, la stampa iraniana ha annunciato l’ avvenuta cancellazione della seconda edizione del festival cinematografico “Nuovi orizzonti”, inaugurato l’anno scorso dall’ex Presidente Mahmud Ahmadinejad, un contenitore culturale di proiezioni e conferenze in chiave palesemente anti-israeliana. Ciò costituisce certamente un segno da parte del nuovo Presidente Rouhani di distacco dalla politica del predecessore, per dimostrare il nuovo corso delle diplomazia del suo Paese.

Certamente tutto ciò conferma l’urgenza dell’Iran di uscire dall’impasse in cui è stato condotto dalla stretta delle sanzioni, ma pure di smarcarsi da quell’elenco di Paesi “asse del male” dov’era stato incorniciato dall’ex Presidente degli Stati Uniti George Bush. Anche la dirigenza americana sta adottando un nuovo approccio nei confronti dell’Iran, creando così ansia nel suo più stretto alleato nell’area mediorientale, l’Arabia Saudita. Un primo segno di insoddisfazione da parte di Riyadh per quest’approccio Iran- US si è visto all’Assemblea delle Nazioni Unite avvenuta lo scorso mese, quando per la prima volta i sauditi hanno rinunciato all’opportunità di leggere un loro discorso, infastiditi dall’attesa creata intorno alla venuta del Presidente Rouhani. Questo voluto ritiro è stato seguito da un’intensa campagna sulla stampa saudita (ovviamente, solo di stato) in cui si denuncia l’ex amico statunitense accusandolo di tradimento. Nonostante si tratti probabilmente solo di un modo per alzare la posta, è chiaro che Riyadh paventa la nuova entrata dell’Iran nel gioco internazionale, soprattutto come produttore di petrolio: le sanzioni, infatti, impedendo all’Iran di vendere il proprio greggio ai Paesi occidentali (e pure a molti altri aderenti alle sanzioni), ha di fatto reso l’Arabia Saudita il primo esportatore di oro nero al mondo. La speranza è che le minacce saudite non inficino la cauta, ma promettente apertura statunitense nei confronti del’Iran.

da Giornale di Brescia 21/10/2013

Non demonizziamo la Libia!

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Il rapimento da parte di un gruppo di ribelli del primo ministro libico, Ali Zeidan, sembra confermare l’infausta previsione di Henry Kissinger, il quale mesi fa aveva incluso la Libia nell’elenco delle nazioni in disfacimento e/o ad altissimo rischio, insieme a Siria, Somalia, Yemen, Iraq e Afghanistan. Tale sequestro costituisce senza dubbio un atto comprovante la fragilità del processo di democratizzazione in corso nel paese nord africano, ma non deve, peraltro, inficiare i notevoli progressi compiuti dai libici da quando è finita la dittatura gheddafiana fino ad oggi. Chi ha visitato il Paese recentemente conferma che la vita è ripresa regolarmente tanto nei centri maggiori (Tripoli, Misurata, Benghasi) quanto nelle oasi del deserto, dove la gente passeggia tranquillamente nelle strade, si reca al lavoro, a scuola, o a fare compere. I negozi più ambiti sono quelli di moda italiana (una buona notizia anche per la nostra economia) e di gioielli. Qualche cittadino pessimista dichiara che la corsa all’oro è dovuta al fatto che la gente investe nel prezioso metallo per avere a disposizione un bene rapidamente convertibile in caso di fuga, ma è altresì vero che molti monili sono comperati per i matrimoni, ripresi dopo una lunga pausa, segno di voglia di stabilità del Paese; così come è un segnale positivo che le gioielleria rimangano aperte fino a sera tarda, senza paura di rapine, nonostante le milizie siano virtualmente sparite dalle strade, ora controllate solo dalla polizia regolare.

Ciò non significa, ovviamente, che la Libia sia divenuta il paese del bengodi, i problemi ci sono, quali i ripetuti scontri tra gruppi etnici rivali nel sud est del Paese che si contendono i traffici locali; o gli scioperi di alcune categorie di lavoratori non sufficientemente retribuiti. Ma dobbiamo ricordare che nel passato regime lo sciopero non era neppure consentito, così come esistevano solo media controllati strettamente dal governo, mentre ora una nuova generazione di giornalisti libici sta sperimentando la libertà di stampa. Allo stesso modo, le elezioni municipali svoltesi a Benghasi e Misurata nei mesi scorsi hanno confermato la voglia di democrazia dei libici che hanno affrontato lunghe code davanti ai seggi elettorali, conferendo, tra l’altro, fiducia ad alcune candidate. Anche questa rappresenta una novità positiva, che ristabilisce l’immagine delle donne nella sfera pubblica, immagine ridotta dal regime gheddafiano alla caricatura delle proprie guardie del corpo, metà soubrette e metà feroci aguzzine.

Come collocare, allora, in questo quadro il rapimento del primo ministro? Il gruppo che ha sequestrato Ali Zeidan è formato da ex-ribelli del passato regime ora passato al servizio dell’attuale governo, per il quale compie azioni di polizia; tanto da aver dichiarato di non avere rapito il primo ministro, bensì di averlo arrestato da parte della Procura libica (cosa, peraltro, smentita dalla stessa Procura). Il sequestro di Ali Zeidan è avvenuto a ridosso della cattura a Tripoli di Abou Anas al Libi, figura di spicco al Qaeda e ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane del 1998 in Kenya e Tanzania. Se i fatti sono collegati, ciò dimostrerebbe lo stretto legame tra il braccio nord africano di al Qaeda e alcuni gruppi di (ex) ribelli libici, i quali avrebbero “punito” il primo ministro per l’appoggio dato agli americani che, di fatto, hanno arrestato al Libi. Lo stesso Ali Zeidan aveva proprio in questi giorni chiesto spiegazioni a Washington riguardo al raid compiuto sul suolo libico proprio per prendere al Libi, ma il portavoce americano ha dichiarato che il governo provvisorio libico era stato anticipatamente informato dell’operazione.

Che si tratti di un arresto o di un rapimento, la vicenda di Ali Zeidan prova lo stato di divisione del governo provvisorio libico; al contrario, la sua società civile combatte quotidianamente per stabilire democrazia e la normalità.

da il Giornale di Brescia 11/10/2013.

il “pacchetto di democratizzazione” di Erdogan

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Ankara ha finalmente varato il pacchetto di riforme verso la strada della democratizzazione atteso da mesi, almeno fin da noti fatti di parco Gezi e delle successive manifestazioni anti governative, la cui dura repressione ha notevolmente annerito l’immagine del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) da anni alla guida della Turchia. Ma la risposta del Paese è, perlopiù, negativa. Sono soprattutto le minoranze, principale oggetto del “pacchetto di democratizzazione” a dimostrarsi scontente per questa che ritengono una opera di superficiale maquillage, a cominciare dalla comunità più controversa, ovvero, la curda. Ad esempio, ai 15 milioni di curdi che chiedevano l’introduzione della loro lingua nelle scuole è stato concesso solo di poter avere l’insegnamento in curdo presso gli istituti privati: ciò suona come una beffa, visto che la maggioranza di loro vive nella zona sud-est del Paese, notoriamente più povera, dove le scuole private sono pressoché inesistenti o inaffrontabili. L’altra richiesta cruciale, ovvero quella di abbassare la soglia del 10% ora necessaria per poter accedere al Parlamento (limite che favorisce i grandi partiti come l’AKP e tiene fuori, tra gli altri, propri quelli curdi), è stata accolta solo da una vaga promessa di rivedere il dato in seno al Parlamento stesso. Nessun passo concreto, inoltre, è stato fatto per decentralizzare l’amministrazione verso un più democratico potenziamento degli organi regionali e locali (altra richiesta curda).

Parimenti scontente sono le minoranze religiose, quali gli Alevi, costituenti circa il 20% della popolazione, che richiedevano il riconoscimento statale delle loro sedi di culto, e che hanno ottenuto solamente la possibilità di avere un’università statale re intitolata sotto il nome di un loro mistico trecentesco.

Gli irriducibili della laicità, poi, hanno accolto con terrore l’abolizione del giuramento di “buon turco” finora imposta agli scolari della scuola dell’obbligo a ogni inizio di settimana, e, soprattutto, lo sdoganamento del velo per le donne nei luoghi di lavoro pubblici, considerandoli quali espressione della precisa volontà dell’AKP di cancellare quel che resta della Turchia di Atatürk per sostituirla con una completamente islamizzata. In realtà, la proibizione del velo nelle pubbliche amministrazioni era divenuta obsoleta in un Paese in cui le donne l’hanno riabbracciato da decadi, e anzi spesso costituiva una forma di protesta contro le costrizioni dello Stato. Lo spettacolo delle studentesse che si toglievano il velo prima di varcare i cancelli delle università per poi rimetterselo quando uscivano era divenuto assurdo, per non parlare delle associazioni di donne sorte proprio per combattere tale proibizione. L’AKP, che governa grazie al consenso di cittadini per cui l’islam è l’identità principale e che, piaccia o no, sono in maggioranza nella Turchia d’oggi, non poteva non accogliere questa protesta che da anni travaglia la vita pubblica. Fermo restando che alcune professioni, quali quella di poliziotta e di giudice, rimarranno comunque “veil free”, la riforma faciliterà l’accesso delle donne a posti di pubblica amministrazione, dove adesso non vengono neppure prese in considerazione solo perché nella foto allegata al curriculum portano il velo.

Quello che desta preoccupazione in tutti, piuttosto, è la totale assenza nel pacchetto di norme che garantiscano maggiore libertà di espressione e che consentano di non etichettare i dissenzienti (quali quelli arrestati proprio durante le manifestazioni iniziate a parco Gezi il giugno scorso) quali terroristi, o che limitino lo strapotere della polizia nel sedare anche violentemente le manifestazioni di pacifica protesta. Ma quest’assenza potrebbe essere frutto di un abile calcolo politico dell’AKP e del suo astuto leader, Erdoğan: nel 2014 i turchi saranno chiamati alle urne, ed è probabile quindi che nei prossimi mesi, a ridosso delle elezioni, venga varata qualche altra riforma che, se annunciata troppo presto, potrebbe essere dimenticata dagli elettori.

dal Giornale di Brescia 3/10/2013