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Terrorismo “islamico” e possibili soluzioni

Obama-King-AbdullahDopo l’unanime e globale condanna del sanguinoso attentato di Parigi è ora tempo di trovare strategie per evitare che la guerra che il terrorismo ha dichiarato al mondo civile (e non solo a quello europeo) dilaghi ulteriormente. Inutile chiedere ai cosiddetti musulmani moderati di umiliarsi nelle pubbliche piazze e nei talk show televisivi scusandosi per i terroristi dei quali sono duplici vittime: sia perché sono da essi ammazzati in Siria, Nigeria, Afghanistan, Yemen (ma anche a Parigi e a New York); sia perché dopo ogni atto violento compiuto in nome dell’islam diventano il bersaglio della pubblica indignazione che li ritiene responsabili di ogni male solo perché professano una religione strumentalmente invocata da criminali per giustificare i loro efferati delitti.

Con immutata ipocrisia, gli stati occidentali chiedono ai musulmani migrati fedeltà alla convivenza civile, mentre essi stessi continuano a intessere rapporti politici e soprattutto economici con chi da decadi arma gruppi terroristici al fine di mantenere intatta la propria supremazia in Medio Oriente: l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e altri stati del Golfo.

In questi anni i sauditi hanno speso miliardi di dollari per finanziare moschee e scuole coraniche dove si predica l’ostilità anche contro quei musulmani che non si adeguano alla forma dell’islam praticata a Ryadh, soprattutto contro gli sciiti. Non si tratta, ovviamente, solo d’ideologia religiosa, ma di politica: lo sciismo è praticato in maggioranza in Iran, paese rivale che contrasta l’egemonia saudita nel Golfo e oltre. Diffondere l’idea che gli sciiti non sono musulmani ma miscredenti ha contribuito a seminare odio e violenza nell’area mediorientale. I più esagitati, armati dai petrodollari sauditi, addestrati nei campi afgani e pakistani, sono confluiti indisturbati in formazioni quali al Qaeda e l’ISIS, strumentali, tra l’altro, a impedire l’espansione dell’Iran, costituendo un solido fronte contro i suoi alleati quali Assad, e a gettare nel caos l’Iraq, dove la caduta di Saddam aveva momentaneamente favorito la maggioranza sciita filo-iraniana. In questi ultimi 35 anni l’occidente ha aiutato a costruire un cordone sanitario attorno all’Iran chiudendo gli occhi su come le monarchie del Golfo alimentassero un terrorismo che non si limitava ad agire nell’area, ma dichiarava la sua volontà e capacità di esportare la lotta armata nel cuore dell’occidente. Gli Stati Uniti, che pure hanno pagato un enorme tributo di sangue a questa scriteriata politica con il 9/11, rimangono i principali alleati dell’Arabia Saudita e delle monarchie associate, così come l’Europa. E ora gli stati europei, soprattutto Gran Bretagna e Francia che hanno perpetuato il loro passato coloniale tanto all’estero (ricordiamo solo la recente e infelice operazione francese in Libia) quanto in patria, dove il jihadismo si nutre e prospera nell’emarginazione sociale e economica e nell’identificazione con l’umiliazione subita dai musulmani in Palestina, in Siria ecc., sono divenuti serbatoi di violenza pronta a esplodere in ogni momento.

Se continueremo a ignorare le palesi violazioni dei diritti umani nel Golfo, compreso l’accordo delle petrolmonarchie per sedare le richieste di cambiamento che le rivoluzioni arabe hanno inevitabilmente portato anche da loro; se faremo finta che la persecuzione nei confronti degli sciiti non esista; e se ignoreremo il quotidiano massacro dei siriani sperando che si ammazzino tra loro per risolvere il problema, possiamo esser certi che andremo incontro a episodi ben più gravi di quello parigino.

 

da Giornale di Brescia 10/1/2015

Iran indispensabile per sconfiggere IS

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Come al solito, anche quest’ennesimo giro di consultazioni sul nucleare iraniano conclusosi a Vienna in settimana lascia spazio ai commenti più disparati; si va dal cauto ottimismo ufficiale statunitense, alle perplessità britanniche, alla fiducia degli iraniani che si giungerà a un accordo prima della fatidica scadenza del 24 novembre.

Sul tema del nucleare sembra però essere calata una sorta di distrazione, essendo gli occhi di tutti fissati sul caos nella regione mediorientale in cui proprio l’Iran occupa un posto cruciale. La possibile risoluzione contro la minaccia dello Stato Islamico (IS), però, potrebbe scaturire proprio da un accordo sul nucleare, come hanno chiaramente fatto capire tanto il Presidente iraniano Rouhani quanto il suo ministro degli esteri Zarif, i quali hanno prospettato un attivo intervento anti IS da parte di Tehran qualora si giunga a una soluzione per loro accettabile sulle centrifughe dell’altopiano.

Che Tehran voglia impegnarsi nell’eliminare la piaga dell’IS è indiscutibile, tant’è che ha affrontato l’argomento con i nemici di sempre, i sauditi, cercando un’intesa comune per risolvere il marasma nell’area; e ciò nonostante l’IS sia anche figlio della politica saudita tesa a combattere gli sciiti e indebolire l’Iran sullo scacchiere mediorientale e internazionale.

I sauditi sono partner inaffidabili, sempre pronti a combattere l’affermazione politica degli sciiti, sia essa democraticamente acquisita (come in Iraq) o grazie alle armi, come accade in Yemen dove i miliziani sciiti Houthi si stanno allargando.

Anche Ankara, per vari motivi, non sembra seriamente intenzionata a combattere attivamente l’IS, per cui l’Iran si sta guardando intorno, cercando alleanze con le altre monarchie arabe del Golfo.

Un’ulteriore affermazione dell’Is in Iraq significherebbe per Tehran perdere uno dei maggiori partner commerciali, nonché la zona di installo di un grandioso gasdotto che in futuro dovrebbe trasportare il combustibile iraniano verso ovest. Oltre alla possibile perdita economica, vi è quella storico-simbolica: l’IS minaccia i luoghi santi degli sciiti, i più importanti dei quali si trovano in territorio iracheno. Ma, al momento, l’Iran non si è seriamente impegnato militarmente: l’unica presenza bellica iraniana in Iraq è costituita dalla brigata Al Qods, un contingente di circa 5mila uomini solitamente impiegato per l’addestramento. Piuttosto, Tehran ha per prima fornito armi al governo del Kurdistan, fatto, questo, non scontato, dal momento che l’Iran è da sempre un paese multietnico dove, fra i diversi gruppi che periodicamente insorgono richiedendo spazi di autonomia, i curdi rappresentano la comunità più bellicosa. Si tratta di uno scambio fruttuoso, ma non privo di possibili pericoli futuri per Tehran.

Il pragmatismo della Repubblica Islamica si è già rivelato in occasione della rimozione del primo ministro iracheno Maliki, un tempo caro alle autorità iraniane, ma poi dalle stesse sacrificato in quanto reo di aver agevolato, con il suo eccessivo settarismo, il malcontento nella minoranza sunnita irachena e la crescita del movimento d’opposizione confluito nell’IS.

Ecco perché un’alleanza non scritta tra Iran e gli Stati Uniti in funzione anti IS è possibile: ma perché essa non provochi poi malumori nel mondo arabo-sunnita, quest’ultimo deve necessariamente esserne coinvolto.

 

da Giornale di Brescia 19/10/2014

Iraq e lotta per la leadership nell’area

Unrest in Iraq

La conquista di Mosul e di Tikrit da parte delle forze dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conferma che la sigla non raccoglie vari gruppi di estremisti disorganizzati e senza un piano, ma costituisce un vero e proprio esercito in grado di impadronirsi della seconda città dell’Iraq, impossessandosi di ingenti risorse (si parla di centinaia di milioni di dollari rubati alle banche locali) e costituendo una preoccupante sfida non solo al governo di Baghdad, ma all’intera area.

Che non si potesse contare sul debole e corrotto governo di Maliki era notorio: tra le varie colpe del premier va annotata pure la trasformazione della forza di sicurezza nazionale in un corpo di polizia personale volto a controllare e reprimere i suoi nemici politici anziché difendere il Paese. Resta da capire, però, come abbiano fatto migliaia di uomini a trasferirsi dalla Siria senza essere intercettati, ad arruolare quegli iracheni (perlopiù sunniti, molti dei quali appartenenti alla vecchia guardia di Saddam) colpiti dalla politica settaria e corrotta di Maliki e a diventare una minaccia per la regione.

Il governo iraniano, in particolare, è preoccupato per questo rafforzamento di un’enclave jihadista/sunnita in Iraq e dalla minaccia dell’ISIS di colpire i santuari sciiti di Najaf e Karbala. A Tehran, però, i toni sono assai più cauti che in passato, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, da sempre accusata di essere il principale finanziatore dell’ISIS, ma con la quale ultimamente c’è un stato un riavvicinamento diplomatico. Nel web circolano i commenti del capo delle forze rivoluzionarie iraniane, Ghassem Suleimani, il quale promette aiuto e protezione ai correligionari sciiti iracheni e ai loro luoghi sacri, ma un consistente impegno militare iraniano appare quanto mai improbabile, giacché il teatro di guerra siriano drena da tempo ingenti risorse militari e finanziarie. Di certo, la piega che stanno prendendo gli eventi iracheni comporta un serio indebolimento delle aspirazioni iraniane alla leadership nell’area, e marca l’apparente vittoria dell’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran.

Neppure i sauditi, però, possono essere contenti di questa affermazione del fronte jihadista, anche se ne hanno abbondantemente finanziato alcuni gruppi, fintanto che questi rimanevano in Siria a fare da barriera anti-Iran. Ora però che gli islamisti militanti si sono aggregati sotto la bandiera dell’ISIS e perseguono un stato che contrasta e sfida le pretese saudite di rappresentare l’unica e legittima autorità del mondo islamico, i sauditi cercano di prenderne le distanze.

Totalmente sconfitti appaiono gli Stati Uniti, che raccolgono l’ennesimo fiasco dopo una lunga e costosa operazione di “democratizzazione” in Medio Oriente, con conseguente pericolo per la sicurezza del Golfo e il transito del petrolio.

Il principale perdente, comunque, è la società civile irachena che ripiomba nel caos dopo oltre un decennio di enormi difficoltà e pochi vantaggi ricevuti nel post Saddam, sacrificata dalle mire egemoniche delle potenze confinanti. Un intervento diplomatico appare pressoché impossibile, anche perché l’ISIS è perlopiù animato da combattenti interessati solo alla opzione militare, fino alla morte. Una posizione estrema che, paradossalmente, potrebbe provocare la sua implosione.

da Giornale di Brescia, 13/6/2014

Bahrain, Formula 1, e la pulizia nei confronti degli sciiti

Il Bahrain è un paese “tranquillo e pacifico”: così s’era espresso Bernie Ecclestone, proprietario dei diritti commerciali della Formula Uno, solo la settimana scorsa, annunciando la propria decisione di mandare avanti il carrozzone della miliardaria gara automobilistica nel tormentato Paese del Golfo, nonostante molti osservatori avessero consigliato il contrario.

Ecclestone è stato clamorosamente smentito, e non poteva essere altrimenti: il Bahrain è in fiamme da oltre un anno, anche se la copertura mediatica internazionale latita, confermando che non tutte le rivoluzioni sono gradite e quindi pubblicizzate allo stesso modo. L’altr’anno, per dire il vero, la gara era stata sospesa proprio per motivi di palese insicurezza dovuti alle continue manifestazioni di protesta dei cittadini bahrainiti (35 dei quali uccisi proprio alla vigilia della kermesse automobilistica) e della cruente repressione messa in atto dalla dinastia regnante al Khalifa nei loro confronti. Sono state appunto le autorità di Manama a caldeggiare la ripresa della Formula Uno sul loro territorio, per dimostrare che la situazione era rientrata e loro nuovamente in controllo: ma non è così. Solo la scorsa settimana, un manifestante di 15 anni è morto a seguito dei colpi sparati dalla polizia, ennesima vittima di una guerra che si protrae da troppo tempo fra la società civile e le forze del governo, queste ultime supportate dall’esercito saudita. L’Arabia Saudita, infatti, sta perseguendo una”pulizia etnica” nei confronti degli sciiti presenti sia sul proprio territorio sia in altri paesi del Golfo, e abbina la propria repressione armata con la persuasione, nei confronti delle popolazioni sunnite, di voler perseguire il loro bene ed estirpare la presenza sciita in quanto “quinta colonna” dell’Iran che vorrebbe allungare le mani sul petrolio sunnita. L’unico risultato, per ora, è che la tensione settaria nel Golfo è drammaticamente cresciuta, e che anche gruppi sunniti, contrari alla monarchia dei Sa’ud, incoraggiati dalla proteste sciite si stanno organizzando e manifestando contro il proprio governo. In questo modo, la potenza saudita sta ottenendo proprio l’effetto contrario, quello di far crescere un movimento d’opposizione trasversale (sunniti e sciiti) a possibile beneficio proprio del nemico iraniano.

Anche la forzata manifestazione automobilistica in Bahrain sta producendo l’indesiderato effetto di avere gli occhi dell’opinione pubblica internazionale finalmente rivolti ad abusi e repressione: i Khalifa hanno le prigioni piene di cittadini rei solo di aver manifestato pacificamente contro la loro dittatura; di medici e infermieri, colpevoli di aver medicato i feriti dalle forze governative; e di giornalisti e blogger che hanno documentato quanto accaduto.

Ora, qualcuno tenta di confondere le carte in tavola asserendo che si tratta di manifestazioni anti occidente, ma i bahrainiti non hanno nulla contro l’occidente, avevano solo chiesto di non iniziare una manifestazione sportiva che avrebbe avallato e legittimato un regime del quale essi chiedono la rimozione. Certo, nella sua ultima edizione (2010), la Formula Uno aveva portato cento mila persone a Manama, con un giro d’entrate per la monarchia aggirantisi attorno al mezzo miliardo di dollari: ora, invece, ma solo dopo un ennesimo spargimento di sangue, alcuni parlamentari britannici hanno chiesto la sospensione della gara in quanto legittima le politiche repressive del governo bahrainita.

Questa lodevole iniziativa deve ora continuare, censurando la monarchia di Al Khalifa e richiamandola al rispetto dei propri cittadini.

 

Pubblicato in Giornale di Brescia 24/4/2012.

Complotto iraniano contro l’Arabia Saudita?

Da molti giorni il presunto complotto da parte del governo iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, Abdel al-Jubair, tiene banco sia sulle testate americane sia fra gli organi di informazione dei maggiori think thank statunitensi esperti in geopolitica. Nonostante il governo americano abbia non solo considerata plausibile la denuncia dei sauditi e addirittura arrestato due cittadini irano-americani accusati di essere implicati nell’abortito attentato, infatti, gli interrogativi sulla fallita congiura rimangono sul tavolo.

Certo, l’inimicizia tra Ryad e Tehran si è aggravata in questi ultimi anni, e non è un mistero che i due paesi ormai si combattano in una sorta di Guerra Fredda mediorientale, scontrandosi anche in modo bellico, non diretto, ma attraverso il rispettivo intervento in altri paesi, quali il Bahrein.

Sebbene nessuno scommetta sull’innocenza tout court del regime di Tehran, certo non scagionabile solo perché ha protestato veementemente contro l’accusa, negando sdegnosamente ogni implicazione nel presunto attentato, molti si chiedono, però, cosa avrebbe da guadagnare il regime degli ayatollah da un simile atto terroristico, e perché avrebbe agito in modo così ingenuo. Secondo le accuse, infatti, i servizi segreti iraniani si sarebbero serviti di affiliati al cartello della droga messicano, che avrebbero dovuto far saltare in aria Abdel al-Jubair mentre questi si trovava in un ristorante di Washington: cosa altamente improbabile, visto che è internazionalmente risaputo che le organizzazioni criminali messicane sono infiltrate da agenti FBI e DEA, con i quali certamente gli iraniani non vogliono incrociarsi.

Ma il quesito più importante riguarda la mancanza di strategia in una simile impresa. In questo momento, i rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti sono ad un livello assai basso, complice, soprattutto, il vento della primavera rivoluzionaria araba che Ryad osteggia apertamente sia ospitando i tiranni cacciati dai rispettivi paesi, sia offrendo supporto militare e logistico per reprimere le rivolte popolari negli stessi. E ciò, agendo in rotta di collisione con Washington che invece continua a esprimere il proprio supporto al cambiamento democratico in atto.

L’Iran non ha quindi nessun interesse a compiere atti che “riavvicinino” sauditi e americani, e neppure ad accrescere la tensione con l’Arabia Saudita o con gli Stati Uniti.

Mentre rimane comunque da scoprire l’identità di chi abbia ordito il complotto, quel che è certo è che quest’ennesimo episodio aggrava la tensione sia nell’area mediorientale sia a livello globale, fra Occidente e Medio Oriente. I sauditi continuano a chiedere “che l’Iran paghi”, ma Washington dovrà porre attenzione a non cadere nella trappola. Dopo il fallimento della “diplomazia coercitiva” praticata da Bush nei confronti della Repubblica Islamica d’Iran, neppure la politica intrapresa da Obama sembra efficace nel confronto con l’Iran, che ha acquisito una notevole importanza strategica in un Medio Oriente allargato fino all’Afghanistan, paese per il controllo del quale l’aiuto di Tehran è più che mai indispensabile. Inoltre, con l’uscita americana dall’Iraq l’influenza dell’Iran è destinata a crescere, aumentando il suo peso nello scacchiere internazionale. E’ più che mai necessario che si torni alla politica, senza cedere alle perniciose lusinghe delle armi.

Ancora sulle Saudite: anzi, su Abdullah Abdul Aziz

Una mia analisi sul Giornale di Brescia del 26 settembre:

Abdullah Abdul Aziz, sovrano dell’Arabia Saudita, ha ceduto: le donne potranno entrare a far parte della Shura, il Consiglio consultivo del regno, a partire dalla prossima sessione. Non solo, le saudite potranno candidarsi alle prime elezioni municipali (le uniche a svolgersi nel Paese arabo), ma non alle prossime, che si svolgeranno a fine settimana, ma nella successiva tornata, fra tra quattro anni circa.

La notizia è senza dubbio positiva, anche se non sufficiente a prevedere un rapido e roseo cammino per i diritti delle donne nell’ultra conservatore paese saudita: verrebbe infatti da chiedersi come si recheranno a svolgere le proprie mansioni politiche le consigliere elette, visto che non possono guidare, mentre le poche papabili all’incarico, inserite nel mondo del lavoro, lottano quotidianamente per farsi largo in una società ferocemente patriarcale, dove, ad esempio, una donna avvocato per recarsi in aula deve essere accompagnata da una figura maschile.

Questa graziosa concessione di Sua Maestà, comunque, rivela l’ansia che s’è impadronita dell’élite saudita, che non può più pensare di governare in modo autocratico e dispotico in quanto custode dei luoghi sacri dell’islam. Evidentemente, anche qui la primavera araba inizia a dare i primi frutti, dopo che nella prima fase di ribellione, la corte saudita aveva commesso alcuni passi falsi. Infatti, dopo aver chiaramente appoggiato Mubarak, ha offerto manforte al collega Khalifa al fine di contrastare militarmente la protesta dei cittadini del Bahrein, perlopiù sciiti. Queste due azioni hanno provocato enorme malcontento tra i sauditi, soprattutto tra gli sciiti, da sempre oggetto delle angherie della corona saudita.

Tuttavia, Abdullah Abdul Aziz è riuscito ad assestare due colpi a suo favore in poco tempo: il primo, agli inizi di agosto, quando si è erto a difensore dei siriani, attaccando violentemente il presidente Bashar al Assad per i ripetuti massacri; il secondo, grazie all’annuncio odierno di apertura politica nei confronti delle sue suddite.

Ovviamente in entrambi i casi si tratta di un calcolo politico. Se con l’attacco alla Siria la monarchia saudita intende colpire il suo principale nemico, l’Iran (che, al momento, costituisce l’alleato più sicuro per Bashar al Assad), cercando di contrastarne la crescente egemonia nell’area, con la concessione del voto alle donne il vecchio Abdullah Abdul Aziz cerca di calmare la montante protesta interna.

Infatti, pure l’Arabia Saudita soffre degli stessi problemi socio economici che hanno scatenato le proteste nel resto del mondo arabo: nonostante, infatti, il Paese sia assai più ricco di risorse (leggi, petrolio) rispetto alle altre realtà in rivoluzione, la sua giovane popolazione soffre di disoccupazione e di sotto occupazione. Le statistiche ufficiali parlano del 13% dei Sauditi sotto la soglia di povertà. E pure chi può contare su uno stipendio medio non se la passa bene: un commesso guadagna circa 800$ al mese, ma ce ne vogliono almeno 25mila per poter affrontare le spese di un matrimonio. Con il 60% della popolazione al di sotto dei 30 anni, questi problemi rischiano di divenire esplosivi. Per non parlare delle limitazioni alla libertà personale, di cui fanno le spese soprattutto le donne.

Alla monarchia saudita, insomma, urgono alcune operazioni di maquillage, e, con l’attenzione internazionale puntata soprattutto sul mondo femminile, ha deciso di uscire allo scoperto proprio con una “riforma” che, apparentemente, favorisce proprio le donne.

Bahrein: interessa a qualcuno?

La persecuzione contro la popolazione shiita in Bahrein non è cosa nuova, ma ora sta raggiungendo proporzioni epiche: le forze saudite, intervenute “per restaurare l’ordine” in Bahrein picchiano, stuprano, ammazzano a piacimento qualsiasi persona sia solo in sospetto di essere shiita, magari semplicemente perché non espone la foto del re al Khalifa. Quest’ultimo, in carica dal 2002, finge si tratti d’una questione di “lotta fra sette”, dove gli shiiti vorrebbero ribaltare il potere sunnita, con l’aiuto dell’Iran: e così, agitando lo spettro dell’estensione dell’influenza degli ayatollah nel Golfo, raduna consensi e aiuti per massacrare i suoi sudditi, che reclamano solo maggiore partecipazione alla vita dello Stato e il riconoscimento di diritti elementari. La famiglia al Khalifa in questi anni ha addirittura favorito l’immigrazione di sunniti, che ora, ovviamente, appoggiano la casata reale, incuranti del fatto che le riforme costituzionali promesse negli anni ’70 non siano mai state varate: tanto, per loro, scatta il meccanismo dei benefici concessi a chi appoggia il regime, mentre gli shiiti, per il solo fatto d’essere tali, vengono esclusi dalla vita pubblica e discriminati nei luoghi di lavoro e nell’arena sociale.

Il mondo, compreso quello arabo, sembra essersi dimenticato di quello che ha provocato in Iraq l’accentuazione del conflitto in termini di “sunnismo contro shiismo” e ignora quest’ultima vessazione da parte dell’Arabia Saudita con la complicità di altri paesi del Golfo e l’appoggio, più o meno tacito, di potenze occidentali. Sabato 16 aprile il Guardian ha pubblicato una scioccante testimonianza di un cittadino shiita del Bahrein che racconta di quanto sta succedendo all’interno del Paese: per quanto vogliamo ancora far finta di ignorare questa drammatica situazione?