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Iraq e lotta per la leadership nell’area

Unrest in Iraq

La conquista di Mosul e di Tikrit da parte delle forze dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conferma che la sigla non raccoglie vari gruppi di estremisti disorganizzati e senza un piano, ma costituisce un vero e proprio esercito in grado di impadronirsi della seconda città dell’Iraq, impossessandosi di ingenti risorse (si parla di centinaia di milioni di dollari rubati alle banche locali) e costituendo una preoccupante sfida non solo al governo di Baghdad, ma all’intera area.

Che non si potesse contare sul debole e corrotto governo di Maliki era notorio: tra le varie colpe del premier va annotata pure la trasformazione della forza di sicurezza nazionale in un corpo di polizia personale volto a controllare e reprimere i suoi nemici politici anziché difendere il Paese. Resta da capire, però, come abbiano fatto migliaia di uomini a trasferirsi dalla Siria senza essere intercettati, ad arruolare quegli iracheni (perlopiù sunniti, molti dei quali appartenenti alla vecchia guardia di Saddam) colpiti dalla politica settaria e corrotta di Maliki e a diventare una minaccia per la regione.

Il governo iraniano, in particolare, è preoccupato per questo rafforzamento di un’enclave jihadista/sunnita in Iraq e dalla minaccia dell’ISIS di colpire i santuari sciiti di Najaf e Karbala. A Tehran, però, i toni sono assai più cauti che in passato, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, da sempre accusata di essere il principale finanziatore dell’ISIS, ma con la quale ultimamente c’è un stato un riavvicinamento diplomatico. Nel web circolano i commenti del capo delle forze rivoluzionarie iraniane, Ghassem Suleimani, il quale promette aiuto e protezione ai correligionari sciiti iracheni e ai loro luoghi sacri, ma un consistente impegno militare iraniano appare quanto mai improbabile, giacché il teatro di guerra siriano drena da tempo ingenti risorse militari e finanziarie. Di certo, la piega che stanno prendendo gli eventi iracheni comporta un serio indebolimento delle aspirazioni iraniane alla leadership nell’area, e marca l’apparente vittoria dell’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran.

Neppure i sauditi, però, possono essere contenti di questa affermazione del fronte jihadista, anche se ne hanno abbondantemente finanziato alcuni gruppi, fintanto che questi rimanevano in Siria a fare da barriera anti-Iran. Ora però che gli islamisti militanti si sono aggregati sotto la bandiera dell’ISIS e perseguono un stato che contrasta e sfida le pretese saudite di rappresentare l’unica e legittima autorità del mondo islamico, i sauditi cercano di prenderne le distanze.

Totalmente sconfitti appaiono gli Stati Uniti, che raccolgono l’ennesimo fiasco dopo una lunga e costosa operazione di “democratizzazione” in Medio Oriente, con conseguente pericolo per la sicurezza del Golfo e il transito del petrolio.

Il principale perdente, comunque, è la società civile irachena che ripiomba nel caos dopo oltre un decennio di enormi difficoltà e pochi vantaggi ricevuti nel post Saddam, sacrificata dalle mire egemoniche delle potenze confinanti. Un intervento diplomatico appare pressoché impossibile, anche perché l’ISIS è perlopiù animato da combattenti interessati solo alla opzione militare, fino alla morte. Una posizione estrema che, paradossalmente, potrebbe provocare la sua implosione.

da Giornale di Brescia, 13/6/2014

Non dimentichiamoci l’Iraq….

images (4)L’attenzione internazionale ha spostato da tempo i riflettori dall’Iraq, ma il Paese rappresenta più che mai un utile laboratorio di lezioni da imparare ed applicare al Medio Oriente allargato. Se la caduta di Saddam ha rappresentato l’emergere della componente sciita maggioritaria per anni vessata da quella sunnita, il dopo Saddam si sta contraddistinguendo per un banale rovesciamento delle posizioni, con i sunniti che protestano lamentando disparità e sperequazioni compiuti ai loro danni dal governo sciita.

Certo i sunniti hanno le loro ragioni se a loro favore s’è recentemente espresso addirittura un leader sciita del calibro di Muqtada al Sadr, ma i partiti sunniti, che stanno puntando ad un’ulteriore smembramento del Paese con lo scopo di ottenere uno stato indipendente sul modello di quello curdo, non si peritano di servirsi, per i loro scopi secessionisti, di militanti affiliati ad al Qaeda. Molti di questi ultimi si sono infiltrati in Siria, con l’intendo di abbattere il regime alawita e di instaurare regimi oltranzisti tanto in patria quanto nella Siria dell’inevitabile post Assad.

E se l’Iraq non può essere paragonato alla Siria per numero di vittime civili, certamente non offre l’immagine di un paese pacificato, con un numero di morti che supera, per il solo 2012, le 4mila unità, morti causati perlopiù dallo scoppio di oltre 900 bombe che hanno causato altresì migliaia di feriti. Per consolarsi del fallimento iracheno alcune osservatori statunitensi hanno affermato sulla stampa nazionale che l’Iraq è assai pacifico di alcune province americane, quelle quella di Chicago, dove le vittime di delitti vari superano, in percentuale, quelle provocate dalla lotta tra fazioni irachene.

Ma l’Iraq è l’esempio lampante di errori commessi in passato e che adesso si stanno perpetuando contro altri regimi: ad esempio, le sanzioni adottate 1991 al 2003 contro l’Iraq non hanno per niente indebolito Saddam, anzi, l’hanno rafforzato, mentre hanno fiaccato la popolazione civile. E la conseguente svalutazione ha ucciso la classe media, costretta alla povertà o alla migrazione. Il prezzo del rovesciamento del regime di Saddam e la conseguente occupazione militare è stato pagato dalla popolazione irachena anche in termini di salute: secondo l’OMS nel Paese si registrano tassi di mortalità infantile preoccupanti, dovuti a inquinamento da piombo e mercurio contenuti nelle munizioni usate dalle truppe NATO. In Iraq esistono 750 mila vedove, molte delle quali disposte a diventare seconde mogli di qualcuno pur di evitare la fame o la strada della prostituzione che ora costituisce un business in aumento esponenziale. E in quell’Iraq che nel 1982 aveva ottenuto un riconoscimento dall’UNESCO per essere riuscito a debellare l’ analfabetizzazione, ora si trovano sempre più persone incapaci di leggere e scrivere, in percentuale che fra le donne supera il 30%.

L’instabilità politica irachena provoca una spirale di violenza che trova terreno fertile fra una popolazione oltremodo provata e, a tratti, “imbarbarita”, anche se le condizioni per favorire un ritorno dell’economia ci sarebbero: basti pensare che, con il crollo dell’esportazioni petrolifere iraniane, l’Iraq è ora secondo solo all’Arabia Saudita per la produzione dell’oro nero. Ma il petrolio rischia di divenire un ennesimo motivo di scontri: i curdi iracheni, infatti, hanno già siglato lucrosi contratti con compagnie internazionali (quali la Exxon e la Total) che tagliano fuori il governo di Baghdad. Quest’ultimo ha protestato ribadendo che solo il governo centrale ha il potere per firmare accordi che coinvolgano lo sfruttamento di energie nazionali.

da 15/1/2013.

L’Iraq dopo l’uscita degli US: numeri e prospettive

L’Iraq è nuovamente squassato da atti di terrorismo. L’uscita delle forze statunitensi ha indubbiamente contribuito ad acuire il clima di incertezza politica nella quale il Paese arabo è precipitato nei primi anni del 2000, e dal quale non si è più risollevato, se non per brevi periodi. Partite le ultime truppe americane, i contendenti al potere iracheni hanno sollevato anche la sottile maschera di reciproca collaborazione che avevano sfoggiato in precedenza, quella finta promessa di rinunciare ai propri interessi per il bene comune. Negli ultimi giorni alcuni episodi hanno aggravato la crisi, in particolare l’attacco del premier Nouri al-Maliki (shiita) nei confronti del suo vice Tariq al-Hashimi (sunnita), accusato di essere un terrorista. Così, mentre Hashimi stava per imbarcasi in un volo che l’avrebbe portato ad incontrare il leader curdo-iracheno Massoud Barzani, Maliki ne ha impedito la partenza, ha fatto arrestar alcuni membri della sua scorta e ha chiesto la parlamento di sfiduciare Hashimi (ovviamente, senza l’immunità parlamentare, l’arresto di Hashemi sarebbe immediato).

Ovviamente, l’appartenenza religiosa dei due contendenti ha poca importanza, in quanto le rispettive affiliazione religiose (sciita e sunnita) sono solo la copertura di precisi e contrastanti interessi politici.

Ed è per interesse politico-energetico che gli US continuano a monitorare da vicino quanto accade in Iraq, mentre le polemiche sul bilancio finale della missione americana continuano ad occupare media e discussioni accademiche americani. Dal 2003 al 2011 sono stati oltre 4 mila gli statunitensi morti in Iraq, e oltre 33mila i feriti. Certo, questo enorme sacrificio, confrontato con le cifre relative all’Iraq fornite dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle nazioni Unite (UNHCR) sembra proprio vano: la guerra ha provocato oltre 400mila vittime irachene, e ora oltre 7 milioni di iracheni (su un totale complessivo di 30) vivono sotto la soglia di povertà, vi sono 4,5 milioni di orfani (molti dei quali vivono in strada); 2 milioni di vedove; 1 milione e mezzo rifugiati in Siria e oltre un milione dispersi all’interno del Paese; inoltre, l’Iraq è balzato al 175 posto su 182 paesi considerati per quanto riguarda il livello di corruzione.

Un bilancio catastrofico.

Come uscirne? Qualcuno, visto il fallimento della centralizzazione, sta invocando la soluzione federale, onde consentire ai diversi gruppi (sunniti, sciiti, curdi) di vivere e autogovernarsi a piacere. Il Curdistan iracheno è già una realtà, peraltro osteggiata per decadi dai sunniti, i quali, ultimamente, stanno riconsiderando l’opzione federalista, tanto che tre province a maggioranza sunnita stanno chiedendo con insistenza l’autonomia. Non va dimenticato che l’Iraq, in quanto stato nazione, fu un’ennesima operazione condotta a tavolino dai britannici che disegnarono i confini del Paese seguendo i propri interessi, fomentando, con la loro politica del “divide et impera” conflitti insanabili tra i diversi gruppi etnico-religiosi.

Nel frattempo, ignorando gli appelli americani, Nouri al-Maliki ha dichiarato d’essere pronto a sganciarsi dal suo partner di governo principale, la colazione a larga componente sunnita Iraqiya, e a governare il Paese solo con la maggioranza sciita.

La risposta non si è fatta attendere, e in un solo giorno a Baghdad si sono contati 12 attentati e 70 morti.

(pubblicato da Giornale di Brescia, 29/12/2011.)