L’attenzione internazionale ha spostato da tempo i riflettori dall’Iraq, ma il Paese rappresenta più che mai un utile laboratorio di lezioni da imparare ed applicare al Medio Oriente allargato. Se la caduta di Saddam ha rappresentato l’emergere della componente sciita maggioritaria per anni vessata da quella sunnita, il dopo Saddam si sta contraddistinguendo per un banale rovesciamento delle posizioni, con i sunniti che protestano lamentando disparità e sperequazioni compiuti ai loro danni dal governo sciita.
Certo i sunniti hanno le loro ragioni se a loro favore s’è recentemente espresso addirittura un leader sciita del calibro di Muqtada al Sadr, ma i partiti sunniti, che stanno puntando ad un’ulteriore smembramento del Paese con lo scopo di ottenere uno stato indipendente sul modello di quello curdo, non si peritano di servirsi, per i loro scopi secessionisti, di militanti affiliati ad al Qaeda. Molti di questi ultimi si sono infiltrati in Siria, con l’intendo di abbattere il regime alawita e di instaurare regimi oltranzisti tanto in patria quanto nella Siria dell’inevitabile post Assad.
E se l’Iraq non può essere paragonato alla Siria per numero di vittime civili, certamente non offre l’immagine di un paese pacificato, con un numero di morti che supera, per il solo 2012, le 4mila unità, morti causati perlopiù dallo scoppio di oltre 900 bombe che hanno causato altresì migliaia di feriti. Per consolarsi del fallimento iracheno alcune osservatori statunitensi hanno affermato sulla stampa nazionale che l’Iraq è assai pacifico di alcune province americane, quelle quella di Chicago, dove le vittime di delitti vari superano, in percentuale, quelle provocate dalla lotta tra fazioni irachene.
Ma l’Iraq è l’esempio lampante di errori commessi in passato e che adesso si stanno perpetuando contro altri regimi: ad esempio, le sanzioni adottate 1991 al 2003 contro l’Iraq non hanno per niente indebolito Saddam, anzi, l’hanno rafforzato, mentre hanno fiaccato la popolazione civile. E la conseguente svalutazione ha ucciso la classe media, costretta alla povertà o alla migrazione. Il prezzo del rovesciamento del regime di Saddam e la conseguente occupazione militare è stato pagato dalla popolazione irachena anche in termini di salute: secondo l’OMS nel Paese si registrano tassi di mortalità infantile preoccupanti, dovuti a inquinamento da piombo e mercurio contenuti nelle munizioni usate dalle truppe NATO. In Iraq esistono 750 mila vedove, molte delle quali disposte a diventare seconde mogli di qualcuno pur di evitare la fame o la strada della prostituzione che ora costituisce un business in aumento esponenziale. E in quell’Iraq che nel 1982 aveva ottenuto un riconoscimento dall’UNESCO per essere riuscito a debellare l’ analfabetizzazione, ora si trovano sempre più persone incapaci di leggere e scrivere, in percentuale che fra le donne supera il 30%.
L’instabilità politica irachena provoca una spirale di violenza che trova terreno fertile fra una popolazione oltremodo provata e, a tratti, “imbarbarita”, anche se le condizioni per favorire un ritorno dell’economia ci sarebbero: basti pensare che, con il crollo dell’esportazioni petrolifere iraniane, l’Iraq è ora secondo solo all’Arabia Saudita per la produzione dell’oro nero. Ma il petrolio rischia di divenire un ennesimo motivo di scontri: i curdi iracheni, infatti, hanno già siglato lucrosi contratti con compagnie internazionali (quali la Exxon e la Total) che tagliano fuori il governo di Baghdad. Quest’ultimo ha protestato ribadendo che solo il governo centrale ha il potere per firmare accordi che coinvolgano lo sfruttamento di energie nazionali.
da 15/1/2013.