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ARGO, il film: il pare di un’iranologa

da Spazio critico, rivista di cinema del Comune di Venezia

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233

Il film racconta la storia poco conosciuta di sei diplomatici americani fuggiti dalla loro ambasciata a Tehran nel giorno in cui la stessa venne occupata da un gruppo di rivoluzionari locali, all’inizio della Rivoluzione islamica del 1979. Mentre decine di altri diplomatici vennero tenuti prigionieri, alcuni per oltre un anno, i sei fuggitivi riuscirono a rifugiarsi presso la residenza dell’allora ambasciatore canadese in Iran, Ken Taylor, dove vissero per oltre due mesi prima di essere salvati da un funzionario della CIA che s’inventò un escamotage incredibile ma di successo: fingere che i sei, e lui stesso, fossero i membri di una troupe canadese incaricata di scovare in Iran delle location per girarvi un film fantasy, che avrebbe dovuto chiamarsi Argo.

Il film si apre con un riassunto della storia iraniana, in cui ci sono alcune inesattezze, ma che vuol spiegare i perché dell’odio iraniano nei confronti degli Stati Uniti: per questo si riesuma il fantasma del primo ministro Mohammad Mossadeq, che negli anni ’50 aveva nazionalizzato il petrolio, a dispetto delle potenze soprattutto americana e britannica, le quali avevano complottato per riportare sul trono lo shah Pahlavi, garante dei privilegi occidentali, compresi quelli petroliferi.

Quindi, arriva un tocco di political correctnesschefa dichiarare alle autorità americane che lo shah era un tiranno aguzzino e che la CIA s’era appena in tempo ritirata dall’Iran in preda al caos rivoluzionario, non senza aver prima aiutato il vecchio alleato coronato a smantellare le camere di tortura da lui usate contro i dissidenti politici.

Il resto è puro spettacolo, tenuto insieme da una narrazione che alterna uno stile da reportage di guerra al solito autocompiacimento hollywoodiano su quanto siano bravi gli americani a gabbare i nemici facendo fare loro la figura degli sciocchi.

Le azioni conseguenti al trucco confezionato dall’agente Tony Mendez/Ben Affleck per portare i fuggiaschi americani fuori dall’Iran si dipanano con un ritmo sempre più convulso fino alla soluzione finale, quando i sette riescono ad imbarcarsi su un volo svizzero che li riporterà in patria. Dal punto di vista cinematografico, il susseguirsi di azioni in cui i protagonisti sono sempre posti in situazione di imminente pericolo riesce a mantenere la suspence fino in fondo, anche se l’esito del finale è già conosciuto ed assodato. Ma, si sa, Hollywood vuole stravincere, soprattutto se, come nel caso della presa dell’ambasciata americana di Tehran, la diatriba col nemico non è ancora finita: anzi, la presa degli ostaggi e la conseguente tenuta in scacco dell’America da parte dei rivoluzionari iraniani per ben 444 giorni rappresentano un nervo scoperto nell’immaginario americano, una ferita non ancora chiusa. Ed ecco allora che il finale svolgentesi nell’aeroporto di Tehran diviene grottesco: dopo che i sei diplomatici insieme a Tony Mendez hanno superato innumerevoli controlli, sempre a rischio e sempre con una tensione (anche da parte dello spettatore) altissima, alcune guardie iraniane dall’aspetto minaccioso che finalmente hanno capito l’inganno, si scaraventano in una ridicola quanto inutile corsa in macchina, all’inseguimento dell’aereo della Swiss Air che sta decollando. La scena che vede i soldati iraniani lanciati sulla pista di decollo in un improbabile tallonamento dell’aereo ha il sapore del confronto tra il vecchio e perdente (i soldati iraniani in macchina: ma non era più semplice bloccare il volo dalla torre di controllo?!) e il nuovo e vincente (l’aereo svizzero) e dura qualche sequenza di troppo.

Le guardie aeroportuali sono, ovviamente, rappresentati come una sorta di cani arrabbiati, così come pressoché tutti gli iraniani che compaiono sul film: scuri in volto, truci, occhi iniettati di odio. Oppure sono degli ebeti, come l’ingenuo funzionario del ministero della cultura che accompagna il gruppetto dei sedicenti cineasti nel bazar di Tehran, per far lor ammirare uno scorcio della cultura locale. Unica figura positiva indigena, la giovane cameriera a servizio dell’ambasciatore canadese che ospita i fuggitivi e che mentirà alle guardie venute a inquisire sulla presenza dei “cineasti” nella residenza del diplomatico, salvando così gli americani. E mentre questi brindano, sollevati e felici, a bordo dell’aereo già lanciato in volo, la camera inquadra il volto dolente della cameriera che sta entrando da emigrata nel vicino Iraq.

 Anna Vanzan

 

 

Bahrain, Formula 1, e la pulizia nei confronti degli sciiti

Il Bahrain è un paese “tranquillo e pacifico”: così s’era espresso Bernie Ecclestone, proprietario dei diritti commerciali della Formula Uno, solo la settimana scorsa, annunciando la propria decisione di mandare avanti il carrozzone della miliardaria gara automobilistica nel tormentato Paese del Golfo, nonostante molti osservatori avessero consigliato il contrario.

Ecclestone è stato clamorosamente smentito, e non poteva essere altrimenti: il Bahrain è in fiamme da oltre un anno, anche se la copertura mediatica internazionale latita, confermando che non tutte le rivoluzioni sono gradite e quindi pubblicizzate allo stesso modo. L’altr’anno, per dire il vero, la gara era stata sospesa proprio per motivi di palese insicurezza dovuti alle continue manifestazioni di protesta dei cittadini bahrainiti (35 dei quali uccisi proprio alla vigilia della kermesse automobilistica) e della cruente repressione messa in atto dalla dinastia regnante al Khalifa nei loro confronti. Sono state appunto le autorità di Manama a caldeggiare la ripresa della Formula Uno sul loro territorio, per dimostrare che la situazione era rientrata e loro nuovamente in controllo: ma non è così. Solo la scorsa settimana, un manifestante di 15 anni è morto a seguito dei colpi sparati dalla polizia, ennesima vittima di una guerra che si protrae da troppo tempo fra la società civile e le forze del governo, queste ultime supportate dall’esercito saudita. L’Arabia Saudita, infatti, sta perseguendo una”pulizia etnica” nei confronti degli sciiti presenti sia sul proprio territorio sia in altri paesi del Golfo, e abbina la propria repressione armata con la persuasione, nei confronti delle popolazioni sunnite, di voler perseguire il loro bene ed estirpare la presenza sciita in quanto “quinta colonna” dell’Iran che vorrebbe allungare le mani sul petrolio sunnita. L’unico risultato, per ora, è che la tensione settaria nel Golfo è drammaticamente cresciuta, e che anche gruppi sunniti, contrari alla monarchia dei Sa’ud, incoraggiati dalla proteste sciite si stanno organizzando e manifestando contro il proprio governo. In questo modo, la potenza saudita sta ottenendo proprio l’effetto contrario, quello di far crescere un movimento d’opposizione trasversale (sunniti e sciiti) a possibile beneficio proprio del nemico iraniano.

Anche la forzata manifestazione automobilistica in Bahrain sta producendo l’indesiderato effetto di avere gli occhi dell’opinione pubblica internazionale finalmente rivolti ad abusi e repressione: i Khalifa hanno le prigioni piene di cittadini rei solo di aver manifestato pacificamente contro la loro dittatura; di medici e infermieri, colpevoli di aver medicato i feriti dalle forze governative; e di giornalisti e blogger che hanno documentato quanto accaduto.

Ora, qualcuno tenta di confondere le carte in tavola asserendo che si tratta di manifestazioni anti occidente, ma i bahrainiti non hanno nulla contro l’occidente, avevano solo chiesto di non iniziare una manifestazione sportiva che avrebbe avallato e legittimato un regime del quale essi chiedono la rimozione. Certo, nella sua ultima edizione (2010), la Formula Uno aveva portato cento mila persone a Manama, con un giro d’entrate per la monarchia aggirantisi attorno al mezzo miliardo di dollari: ora, invece, ma solo dopo un ennesimo spargimento di sangue, alcuni parlamentari britannici hanno chiesto la sospensione della gara in quanto legittima le politiche repressive del governo bahrainita.

Questa lodevole iniziativa deve ora continuare, censurando la monarchia di Al Khalifa e richiamandola al rispetto dei propri cittadini.

 

Pubblicato in Giornale di Brescia 24/4/2012.

Erdogan e la sfida ad Assad

Domenica scorsa, Istanbul ha ospitato il secondo incontro degli “Amici della Siria”, 80 paesi occidentali e arabi, riunitisi per decidere quali misure adottare per costringere Assad a mollare l’assedio sui suoi concittadini e, possibilmente, pure il potere. Il summit s’è concluso in modo piuttosto inconcludente, così come era accaduto al primo di quest’incontri, tenutosi in Tunisia il mese scorso. E ciò nonostante la conferenza si sia svolta in Turchia con l’apertura del suo Primo Ministro Erdoğan, che ha degli ottimi motivi per spingere i partner ad esser più incisivi contro Assad: circa 17mila siriani rifugiati nel suo Paese che costituiscono una minaccia alla stabilità, anche economica, raggiunta da Ankara.

Erdoğan è addirittura volato in Iran qualche giorno fa, cercando di convincere il più fedele alleato di Assad dell’area a cambiare posizione, ma Tehran è stata inflessibile, nonostante la Turchia appoggi la Repubblica Islamica nel suo pervicace perseguimento dell’energia nucleare e si dichiari ostentatamente contraria ad ogni ipotesi di attacco contro l’Iran. Tehran, tra l’altro, teme che la caduta di Assad si converta in un accrescimento di potere della Turchia in Medio Oriente, a discapito dell’opera svolta in questi anni dall’Iran per divenire l’attore protagonista.

L’alleanza tra Ankara e Tehran, pur tra alti e bassi, continua, perché l’una ha bisogno dell’altra e perché il volume di scambio tra i due Paesi ha raggiunto, nell’ultimo anno, la cospicua somma di 16 miliardi di dollari.

Incassato il parere negativo di Tehran, stante il veto di Cina e Russia ad un intervento contro Damasco e l’indecisione degli “80 amici”, Erdoğan si rivela sempre più impaziente, soprattutto dopo che le Nazioni Unite hanno dichiarato di voler prendere in considerazione un accordo tra Assad e il suoi oppositori. Il Primo Ministro turco, infatti, teme che il possibile successo di una tale operazione (caldeggiata, tra gli altri, dall’ex segretario generale ONU, Kofi Annan), possa mantenere in qualche modo al potere Assad, mentre ormai egli ha dichiarato guerra al leader siriano. In queste settimane, infatti, dopo aver inviato i suoi generali in un blitz teso a controllare la possibilità di creare una “zona cuscinetto” tra Turchia e Siria (dove presumibilmente collocare i rifugiati sotto controllo dell’esercito turco), Ankara ha pure chiuso la sua ambasciata a Damasco. Queste nervose operazioni hanno suscitato qualche preoccupazione sia fra molte autorità turche, che ritengono che il loro Premier stia prendendo iniziative che lo isolano dagli alleati, sia fra questi ultimi, sospettosi del ruolo di gendarme dell’area che Erdoğan sembra volere assumere.

Il nervosismo di Erdoğan appare evidente pure dalla sua nuova campagna anti Alevi, accusati di essere dei basisti dell’elite governativa siriana, composta da Alawiti. Ma Alevi (una corrente mistica presente solo in Turchia, minoritaria e perseguitata) e Alawiti (una corrente sciita cui aderiscono gli Assad e il loro entourage) hanno assai poco da spartire, se non l’assonanza del nome, e certo Erdoğan ne è ben al corrente. Ma il fatto che il Kemal Kılıçdaroğlu, leader del maggiore partito d’opposizione turco (Socialdemocratico) sia Alevi ha certamente ispirato Erdoğan a questa piccola battaglia mediatica contro i suoi principali oppositori interni. Due piccioni con una fava per il furbo leader turco, che con ogni mezzo si sta preparando un futuro per il post premierato anche al di là dei confini nazionali.

pubblicato da Giornale di Brescia, 6/4/2012.

 

Iran, attentati e tensioni interne

L’attentato al fisico nucleare iraniano Mostafa Ahmadi-Roshan si configura come l’ennesimo atto della guerra, non solo verbale, che si sta consumando da parecchio tempo tra l’Iran e il resto del mondo. L’assassinio, infatti, va ad aggiungersi ad una serie di sabotaggi cibernetici ai danni del programma nucleare iraniano, a due misteriose esplosioni all’interno di basi militari che hanno ucciso diversi ufficiali, e all’eliminazione fisica, sempre tramite attentati dinamitardi, di scienziati in forza al programma d’arricchimento dell’uranio in corso in Iran. La Repubblica Islamica punta il dito accusatore verso Israele e Stati Uniti, paesi che ufficialmente hanno negato ogni responsabilità in questa catena di luttuosi eventi; Washington, addirittura, ha ufficialmente condannato l’uccisione di Ahmadi-Roshan.

Il mondo guarda col fiato sospeso a questi accadimenti che sembrano farci precipitare verso la guerra, mentre nei giorni passati qualche debole spiraglio s’era aperto, sia grazie al salvataggio dei marinai iraniani ad opera della marina statunitense (gesto elogiato dalla autorità iraniane), sia, soprattutto, grazie all’apertura del Segretario alla Difesa americana Leon Panetta, il quale, dichiarando inaspettatamente che l’Iran sarebbe ben lontano dall’acquisire la forza nucleare, ha rinnovato l’invito ad una soluzione diplomatica del caso.

Intanto, la stretta delle sanzioni sta facendo il suo corso; anche la Cina ha ridotto notevolmente le proprie importazioni di petrolio iraniano, facendo entrare Tehran in fibrillazione. Il rial, la moneta ufficiale iraniana, ha toccato il suo minimo storico nei confronti del dollaro e il costo della vita continua a crescere: negli ultimi tre mesi il prezzo del latte è aumentato del 20%.

C’è comunque il rischio che le sanzioni non scoraggino Tehran dal perseguire il suo obiettivo nucleare: abbandonarlo ora significherebbe una perdita di prestigio interno incommensurabile. Ma pure il principale contendente iraniano, ovvero gli Stati Uniti, rischia la faccia: Obama non può dimostrarsi timido di fonte alle minacce iraniane, pena la sua non rielezione.

Intanto, in Iran vi è palpabile scontento fra la popolazione e apprensione fra le autorità a circa due mesi dall’appuntamento elettorale. Memore di quanto accaduto nel giugno 2009, la censura si è già organizzata setacciando ogni internet café, rafforzando la sorveglianza sui documenti esibiti dagli utenti e controllando i siti consultati. Oltre alla figlia di Rasfanjani, in questi giorni sono stati fermati dalla polizia altri dissidenti, giornalisti, politici, mentre i leader dell’Onda Verde Mousavi e Karroubi sono agli arresti domiciliari ormai da parecchi mesi. Questa politica intimidatoria è opposta a quella solitamente praticata dal regime, che, alla vigilia di appuntamenti elettorali, è solito liberare dei prigionieri politici e allargare le maglie della censura.

A differenza del 2009, infatti, c’è un ulteriore pericolo per il regime, ovvero l’esempio delle rivolte arabe che, pur ancora in corso, sono comunque riuscite a rovesciare i despoti in carica: un modello esportabile e pertanto assai temuto, anche se, al momento, non vi è traccia di primavera sull’altopiano.

Apparso su Il giornale di Brescia 13/1/2012.

 

 

Complotto iraniano contro l’Arabia Saudita?

Da molti giorni il presunto complotto da parte del governo iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, Abdel al-Jubair, tiene banco sia sulle testate americane sia fra gli organi di informazione dei maggiori think thank statunitensi esperti in geopolitica. Nonostante il governo americano abbia non solo considerata plausibile la denuncia dei sauditi e addirittura arrestato due cittadini irano-americani accusati di essere implicati nell’abortito attentato, infatti, gli interrogativi sulla fallita congiura rimangono sul tavolo.

Certo, l’inimicizia tra Ryad e Tehran si è aggravata in questi ultimi anni, e non è un mistero che i due paesi ormai si combattano in una sorta di Guerra Fredda mediorientale, scontrandosi anche in modo bellico, non diretto, ma attraverso il rispettivo intervento in altri paesi, quali il Bahrein.

Sebbene nessuno scommetta sull’innocenza tout court del regime di Tehran, certo non scagionabile solo perché ha protestato veementemente contro l’accusa, negando sdegnosamente ogni implicazione nel presunto attentato, molti si chiedono, però, cosa avrebbe da guadagnare il regime degli ayatollah da un simile atto terroristico, e perché avrebbe agito in modo così ingenuo. Secondo le accuse, infatti, i servizi segreti iraniani si sarebbero serviti di affiliati al cartello della droga messicano, che avrebbero dovuto far saltare in aria Abdel al-Jubair mentre questi si trovava in un ristorante di Washington: cosa altamente improbabile, visto che è internazionalmente risaputo che le organizzazioni criminali messicane sono infiltrate da agenti FBI e DEA, con i quali certamente gli iraniani non vogliono incrociarsi.

Ma il quesito più importante riguarda la mancanza di strategia in una simile impresa. In questo momento, i rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti sono ad un livello assai basso, complice, soprattutto, il vento della primavera rivoluzionaria araba che Ryad osteggia apertamente sia ospitando i tiranni cacciati dai rispettivi paesi, sia offrendo supporto militare e logistico per reprimere le rivolte popolari negli stessi. E ciò, agendo in rotta di collisione con Washington che invece continua a esprimere il proprio supporto al cambiamento democratico in atto.

L’Iran non ha quindi nessun interesse a compiere atti che “riavvicinino” sauditi e americani, e neppure ad accrescere la tensione con l’Arabia Saudita o con gli Stati Uniti.

Mentre rimane comunque da scoprire l’identità di chi abbia ordito il complotto, quel che è certo è che quest’ennesimo episodio aggrava la tensione sia nell’area mediorientale sia a livello globale, fra Occidente e Medio Oriente. I sauditi continuano a chiedere “che l’Iran paghi”, ma Washington dovrà porre attenzione a non cadere nella trappola. Dopo il fallimento della “diplomazia coercitiva” praticata da Bush nei confronti della Repubblica Islamica d’Iran, neppure la politica intrapresa da Obama sembra efficace nel confronto con l’Iran, che ha acquisito una notevole importanza strategica in un Medio Oriente allargato fino all’Afghanistan, paese per il controllo del quale l’aiuto di Tehran è più che mai indispensabile. Inoltre, con l’uscita americana dall’Iraq l’influenza dell’Iran è destinata a crescere, aumentando il suo peso nello scacchiere internazionale. E’ più che mai necessario che si torni alla politica, senza cedere alle perniciose lusinghe delle armi.

Fiere del libro e politiche culturali

Contemporaneamente alla Fiera del Libro di Torino si sta svolgendo l’analoga manifestazione a Tehran, una della maggiori d’Asia per importanza e partecipazione.  L’afflusso di pubblico e’ impressionanante, tanto da attirare pure, da qualche anno, una sempre piu’ nutrita partecipazione internazionale. Vi sono molti editori stranieri, soprattutto dal mondo anglosassone, che partecipno a titolo privato, ma vi sono anche espositori ufficiali da realta’ vicine (Afghanistan, Armenia, Turchia) nonche’ da aree piu’ remote. Se la presenza di paesi  quali la Cina, la Sierra Leone, il Brasile e la Bosnia testimoniano le piu’ o meno recenti amicizie tra queste nazioni e l’Iran,  i padiglioni di Francia, Svizzera e quello della Buchmesse di Francoforte fanno risaltare ancor piu’ la malinconica assenza di uno italiano. Certamente non possiamo competere con l’interesse suscitato fra i giovani iraniani dalle pubblicazio tecnico/scientifiche di Elsevier o dalle edizioni Springer; ma la nostra letteratura e’ assai amata sull’altopiano, prova ne sono le numerose traduzioni in persiano di Calvino, Buzzati, Silone  e di altri grandi letterati nostrani. La nostra assenza da questa importante manifestazione non fa che sottolineare una certa nostra provincialita’ nonche’ l’eterna mancanza di lungimiranza, non solo culturale.

I Mujahedin e Khalq non sono più terroristi…

…ovvero, Europa e Stati Uniti commettono ancora errori di valutazione (e non solo).

Riassumiamo in breve la vicenda che da qualche mese è venuta alla ribalta. I Mujahedin e Khalq sono un’organizzazione “Marxista-islamista” sorta in Iran che ha disseminato panico e morti  prima combattendo contro lo shah e poi contro i capi della Rivoluzione Islamica. Ai tempi della guerra Iraq-Iran si sono rifugiati nel paese di Saddam Hussein, combattendo contro l’Iran (cosa che non li ha resi simpatici agli occhi dei connazionali). Riconosciuti internazionalmente come “terroristi”, son riusciti a farsi sdoganare dalle liste del terrorismo europeo nel 2009, mentre sono rimasti più a lungo nella lista dell’ufficio anti terrorismo del Dipartimento di Stato americano, probabilmente perché i Mujahedin hanno colpito più volte soprattutto obiettivi (umani) statunitensi. Ma ora anche gli US stanno per  depennarli dalla lista delle organizzazioni pericolose, vuoi perché i Mujahedin avrebbero fornito importanti informazioni sul programma nucleare in atto nella Repubblica Islamica, vuoi perché i Mujahedin stanno cavalcando l’onda dell’opposizione in atto in Iran, proponendosi come agenti attivi della stessa e , quindi, come forza democratica. In realtà, le loro credenziali democratiche sono inesistenti, e a casa loro non hanno supporto. Tanto che Ahmadinejad &co. cercano di discreditare i sostenitori dell’Onda Verde sostenendo che sarebbero in combutta proprio con i Mujahedin.

Insomma, gli US stanno per ricadere nel tranello “i nemici dei miei nemici….”. Evidentemente l’esperienza in Afghanistan (dove si sono fidati dei Taleban), in Iraq (ricordiamoci della pericolosa amicizia con Ahmed Chalabi che aveva spinto l’invasione sicuro che Saddam possedesse armi letali), tanto per citare due casi notori, non è bastata.

Così, mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sul Mediterraneo in fiamme, altrove si consumano altri drammi.

IRANIUM, un film bellico

In queste settimane si è verificato un ennesimo caso diplomatico tra Iran e la comunità internazionale, in questo caso rappresentata da Stati Uniti, Canada e Israele, e incentrata sulla presentazione di un filmato chiamato “Iranium”, un apocalittico documentario che intende spaventare l’opinione pubblica sui disastrosi effetti che avrebbe l’arricchimento d’uranio da parte della Repubblica Islamica. Il regista è Alex Traiman, residente nella West Bank ed ideologo di spicco del progetto di occupazione dei territori palestinesi. Il suo film viene largamente sponsorizzato dai neoconservatori locali sia negli Stati Uniti sia in Canada, tanto che l’ambasciatore iraniano a Ottawa è intervenuto protestando per una ventilata programmazione nelle pubbliche biblioteche. Ma “Iranium” ha indignato anche migliaia di sostenitori dell’Onda Verde, che denunciano come il film sia un ennesimo caso di manipolazione della lotta condotta dall’ opposizione per dichiarare guerra all’Iran. La “macchina propagandistica israelo-americana uguaglia quella del regime di Tehran”, secondo quanto dichiarato dai Verdi nel loro sito Facebook.

E’ chiaro, peraltro, che “Iranium” rappresenta soprattutto un monito alle autorità americane: durante il documentario, si fa cenno alla posizione troppo morbida del presidente Carter, accusato di non aver dato un chiaro e deciso appoggio allo shah quando questi perse il trono ad opera dei rivoluzionari, con le note conseguenze. Ed ecco il monito a Obama: nel 1979 gli Stati Uniti consegnarono l’Iran agli islamici, adesso si ripresenta lo stesso problema in Egitto, Yemen, Bahrein ecc.. Ergo, bisogna agire in un certo modo, per evitare che la già debole influenza americana in Medio Oriente scompaia del tutto. Peccato che, al contrario, da quando la presa di Washington sul Medio Oriente  si è alleggerita, i popoli locali decidano di scendere nelle piazze a chiedere democrazia, possibilmente non importata né imposta.