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Oman e multicultura

Il recente censimento condotto in Oman delinea un paese abitato da 3 milioni di individui, uno dei quali di provenienza estera. In alcune zone, quali la provincia di Muscat, gli stranieri costituiscono metà della popolazione: indiani, pakistani, coreani, filippini sono visti come una risorsa, non come una minaccia da destinare solamente a umili lavori. Lungo i viali fioriti della capitale e nei villaggi, Omaniti in dishdasha (lunga tunica maschile che arriva ai piedi) e omanite dal volto totalmente coperto si affiancano a indiane in sari e europee in bermuda.

In questi giorni di festa per il mondo cristiano, suntuosi alberi di natale addobbano le hall degli alberghi internazionali, affollati altresì di turisti omaniti che, pur aderendo alla versione dell’islam ibadita, alquanto scevra da fronzoli e superfetazioni, non reagiscono istericamente come qualche nostro compatriota in presenza di manifestazioni legate a tradizioni altrui. Gli omaniti mangiano cibo arabo e samosa indiani, aprono le loro moschee agli “infedeli” e, soprattutto, si fermano spontaneamente lungo un wadi polveroso e impervio ad aiutare chi ha la gomma a terra, mentre gli occidentali sfrecciano via incuranti.

Naturalmente non sosteniamo che l’Oman sia un paese perfetto, ma certo è un esempio di come la convivenza multietnica e multi religiosa non sia una chimera.

Moharram agitato in Iran

Leggi il mio articolo in Giornale di Brescia del 20 dicembre:

Questi giorni sono cruciali per quella minoritaria, ma consistente parte del mondo islamico che si riconosce nello sciismo: siamo, infatti, in pieno Moharram, il mese più sacro agli sciiti, e in particolare nella decade che celebra il martirio di uno dei personaggi più cari all’immaginario sciita, quello dell’imam Hossein, ucciso nel VII secolo. Da allora, queste ricorrenze sono altresì occasioni in cui si scatena il dissenso politico: ad esempio, l’anno scorso il periodo venne marcato nelle piazze iraniane dalla protesta anti governativa dell’Onda Verde, i cui sostenitori, quest’anno, sono rimasti alquanto defilati. Ma a versare il sangue di vittime innocenti è comunque arrivato un attentato, compiuto dal gruppo sunnita Jundullah in una cittadina nel sud est del paese, dove i sunniti prevalgono, e che ha preso di mira una processione di sciiti uccidendone 33 e ferendone un’ottantina. Jundullah ha già firmato in precedenza attacchi sanguinari, fra cui quello clamoroso compiuto dell’autunno 2009 che eliminò un gruppo di alte cariche militari iraniane. La Repubblica Islamica accusa gli Stati Uniti di appoggiare il gruppo sanguinario che riceve supporto finanziario e logistico dal vicino Pakistan, cosicché l’attentato va ad allargare il già profondo divario diplomatico tra i dirigenti americani e quelli iraniani. Per questi ultimi, la forza di Jundullah è una consistente spina nel fianco, vista l’immagine di forza e compattezza nazionale che essi vogliono offrire tanto in patria quanto all’estero: e così, non sono solo i dissidenti urbano-chic a turbare i loro sonni, ma pure vari gruppi etnici sia a ovest (curdi) quanto a est (arabi) che hanno acquistato baldanza nei confronti del potere centrale. Il dissenso etnico, comunque, riflette quello politico che si sta consumando all’interno del regime: il licenziamento di Mottaki dall’incarico di Ministro degli Esteri e la sua sostituzione con Ali Akbar Salehi, già Vice Presidente della Repubblica, ne è l’ultima, consistente prova. L’operazione è stata condotta autonomamente dal Presidente della Repubblica Ahmadinejad, in contrasto con la Guida Suprema Khamenei: secondo il quotidiano Kayhan, diretto da un fedelissimo della Guida Suprema, l’operazione di sostituzione del Ministro degli Esteri è un “insulto” proprio a Khamenei. Quest’ultimo ha finora sempre appoggiato Ahmadinejad anche nelle sue scelte, sempre più frequenti in questi mesi, di escludere il Parlamento da decisioni per le quali vige l’obbligo costituzionale di sentire il parere dei parlamentari. L’ennesimo arbitrio del Presidente offre quindi una chiara lettura: egli si sente di poter imporre i propri voleri anche a Khamenei, che in passato era invece riuscito a bloccare i suoi tentativi di sostituire Mottaki. A Tehran continua quindi la battaglia fra due gruppi di conservatori, quelli legati al Presidente e quelli più vicini alla Guida Suprema.

Nel frattempo, il Paese deve affrontare altri malanni, quali le nuove sanzioni minacciate da Washington dopo che i colloqui di Ginevra sul nucleare sono risultati inconcludenti. Ma nel prossimo vicino incontro siederà al tavolo dei negoziati il nuovo ministro Ali Akbar Salehi, altamente qualificato per il compito, visto il suo profilo di fisico nucleare nonché direttore dell’agenzia iraniana per l’energia atomica. Salehi potrebbe rappresentare una speranza di distensione fra l’Iran e il resto del mondo: egli è in grado di dialogare tanto con l’occidente (i suoi ex compagni del MIT di Boston lo descrivono come un uomo acuto e sensibile), quanto con gli stati arabi confinanti, nei quali pure ha studiato e vissuto. Tutto il mondo, quindi, lo aspetta a fine gennaio, a Istanbul, dove si svolgeranno i nuovi colloqui sul nucleare.

Anna Vanzan

Donne e cambiamento in Iran

Sima non vuole etichette: non è una femmminista, dice, ma “un essere umano che ha la ventura di essere una donna”. Eppure la sua attività a favore soprattutto delle donne d’Iran la qualifica come un’attivista per il miglioramento della condizione femminile nel suo Paese. Sima ha lavorato in parecchie ONG, quali quelle tese ad innalzare il livello d’istruzione delle donne nella cittadina di Bam, sconvolta a un pauroso terremoto anni orsono, o  altre dedite al recupero di ragazzi disabili. Sima svolge perlopiù mansioni di assistenza finanziaria e consulting, materie che ha studiato sia in UK che in Iran. Anche se Sima è critica nei confronti delle ONG, in quanto “non sono indipendenti, anche quelle straniere debbono operare in collaborazione col govero, così come le nostre senza contributi governativi non potrebbero esistere ed operare”.

Sta di fatto che l’Iran vede una fitta presenza di ONG locali, animate soprattutto da donne,quindi chiedo a Sima una rilessione su questo fenomeno: “Le nostre ragazze hanno imparato a lavorare nel Sistema. Sono loro che stanno operando il cambiamento nel mio Paese: basta camminare per strada, andare nei parchi, vedere come si atteggiano, qual è il loro linguaggio del corpo, per capire il grado di sicurezza che hanno acquisito. Certo il fenomeno è più evidente nei grandi centri urbani, ma questa descrizione che si legge nei media occidentale, rispetto alla quale ci sarebbe un grande divario fra la vita urbana e quella rurale/provinciale, è da sfatare. Io opero anche fuori Tehran, e ti assicuro che il cambiamento è generale.”

Chiedo a Sima di approfondire: “Ora, ad esempio, le donne non hanno più paura di essere responsabili dell’economia della famiglia. La scuola, l’università, le ha prese dal nido e le ha preparate alla vita. Certo le giovani di oggi devono molto alla mia generazione di cinquantenni, molte di noi hanno pagato il prezzo della modernità agendo da pioniere, rompendo le regole, ma ora le nostre figlie beneficiano di questa situazione. Pensa che, 80 anni fa, mia nonna lasciò il marito, il quale, ovviamente, si tenne pure il figlio. Nonna si mise a fare la cucitrice per campare, con i soldi che guadagnava si manteneva la scuola, prese il diploma di maestra e si mise a insegnare.  All’epoca queste storie rappresentavano un’eccezione, ora l’indipendenza femminile da noi è la regola. ”

Anche Sima se ne è andata di casa quando aveva 17 anni, per studiare in UK, tornando proprio all’insorgere della Rivoluzione: “Ho fatto il contrario di quanto hanno fatto i più, che erano qui nel momento del cambiamento, ma ora se ne sono andati. Io ho provato a ritornare all’estero, sono stata in Canada, ma tutto è così superficiale laggiù, anche l’indipendenza delle donne: lì gli immigrati sono per lo più sottoimpiegati e le donne non condividono il potere politico. Certo qui c’è una marea di cose da fare, ma sono felice di pagare il prezzo che comporta la prospettiva di cambiare le cose. E non sto parlando solo di cambiamenti di leggi, certo quelli sono necessari, ma altrettanto necessari sono i cambiamenti culturali da parte di tutta la società civile.”

Chiedo a Sima un parere sulla presenza delle iraniane nella politica del Paese.”E’ vero che le donne che riescono ad agguantare posizioni politiche influenti sono membri di famiglie importanti e legate al potere, ma io penso che ciò rappresenti comunque un progresso, e che col tempo, le cose andranno meglio. Ormai si parla comunemente di concetti quali ‘cittadinanza’, ‘partecipazione’…certo non possiamo aspettarci rivolgimenti epocali subito, ci vuole tempo, il governo è abile nelle manovre di controllo, nelle tattiche di diversione, ma sono ottimista!”

Ringrazio Sima, che si sta preparando per raggiungere il mar Caspio, dove si trova un istituto per ragazzi disabili per il quale raccoglie fondi: “Sono una donna, ma non sono concentrata solo sui diritti delle donne, ma sui diritti di tutti. Credo che questa consapevolezza sia la chiave per cambiare le cose. Una parte del movimento femminista di qui è troppo concentrato sull’aspetto di genere e perde di vista il contesto generale. Il potere storico dell’uomo è basato sull’ingiustizia sociale, bisogna ristabilire il senso di giustizia, per tutti.”

Un afgano a Trento

Gridami (2010) è il film che il regista afgano Reza Mohebi ha girato fra le vallate trentine, scegliendo le più scarne e cupe. Niente spettacolari vette asiatiche con la bellezza abbagliante delle loro nevi, quindi, ma brulli montarozzi che degli attributi montani mantengono solo la sensazione di gelo e solitudine. Fra valli desolate, container arrugginiti e capannoni industriali in disarmo,  Mohebi rappresenta il dramma della ricerca del lavoro, della casa, della stabilità affettiva da parte di un emigrato afgano, Soluch, che diviene paradigma del dramma di tutti gli emigrati, e, per translato, dell’umanità.

All’inizio, Soluch ha una casa e una donna: ma l’interno della abitazione è una natura morta e la moglie lo sta per lasciare per un altro. Siamo in autunno, la stagione, dice la moglie di Soluch, che la fa soffrire: perché lei stessa, in realtà, è la terra, il divenire delle stagioni.  Si innesca una corsa verso un precipizio di disperazione che Mohebi trasforma in una fiaba surreale, nella quale la Donna recita dietro ad una maschera teatrale, tentando invano di reinventarsi la vita, colorandola con l’illusione di un nuovo amore. Soluch rimane più concreto, ma nel suo mondo popolato da immagini simboliche che ricordano il paese dal quale è stato esiliato (gli onnipresenti frutti del melograno, l’aquilone con cui gioca il figlio, i versi dei poeti persiani),  le uniche parole concrete pronunciate sono contratto, lavoro, guerra, licenziamento, servizi sociali. Soluch tenta invano di aggrapparsi alla vita reale, che gli sfugge crudelmente. A Soluch non resta che sublimare le sue angosce in una improvvisata danza sufi, secolare veicolo di distacco dalle angose terrene per ritrovare la Verità.

Sono 70′ di pura angoscia, ma anche di struggente poesia, pieni di oggetti, parole, gesti simbolici ancorati soprattutto alla cultura afgana, e che Mohebi compone in un’originale miscela. Non è tanto il burqa, che pure compare nelle scene finali del film, quasi a voler confortare lo spettatore con un segno a lui riconoscibile di “afganità”, a fare da filo conduttore, ma gli onnipresenti chicchi di melograno: all’inizio sgranati dalla Donna, come giorni o come figli; poi maciullati e grondanti succo/sangue; infine sparsi per terra, in caduta libera, come i sogni che non si avverano mai.

Un triangolo amoroso, una storia di emarginazione, un’allegoria della vita: il film di Reza Mohebi si legge come i versi di una poesia mistica persiana, in cui ognuno trova ciò che cerca.