Leggi il mio articolo in Giornale di Brescia del 20 dicembre:
Questi giorni sono cruciali per quella minoritaria, ma consistente parte del mondo islamico che si riconosce nello sciismo: siamo, infatti, in pieno Moharram, il mese più sacro agli sciiti, e in particolare nella decade che celebra il martirio di uno dei personaggi più cari all’immaginario sciita, quello dell’imam Hossein, ucciso nel VII secolo. Da allora, queste ricorrenze sono altresì occasioni in cui si scatena il dissenso politico: ad esempio, l’anno scorso il periodo venne marcato nelle piazze iraniane dalla protesta anti governativa dell’Onda Verde, i cui sostenitori, quest’anno, sono rimasti alquanto defilati. Ma a versare il sangue di vittime innocenti è comunque arrivato un attentato, compiuto dal gruppo sunnita Jundullah in una cittadina nel sud est del paese, dove i sunniti prevalgono, e che ha preso di mira una processione di sciiti uccidendone 33 e ferendone un’ottantina. Jundullah ha già firmato in precedenza attacchi sanguinari, fra cui quello clamoroso compiuto dell’autunno 2009 che eliminò un gruppo di alte cariche militari iraniane. La Repubblica Islamica accusa gli Stati Uniti di appoggiare il gruppo sanguinario che riceve supporto finanziario e logistico dal vicino Pakistan, cosicché l’attentato va ad allargare il già profondo divario diplomatico tra i dirigenti americani e quelli iraniani. Per questi ultimi, la forza di Jundullah è una consistente spina nel fianco, vista l’immagine di forza e compattezza nazionale che essi vogliono offrire tanto in patria quanto all’estero: e così, non sono solo i dissidenti urbano-chic a turbare i loro sonni, ma pure vari gruppi etnici sia a ovest (curdi) quanto a est (arabi) che hanno acquistato baldanza nei confronti del potere centrale. Il dissenso etnico, comunque, riflette quello politico che si sta consumando all’interno del regime: il licenziamento di Mottaki dall’incarico di Ministro degli Esteri e la sua sostituzione con Ali Akbar Salehi, già Vice Presidente della Repubblica, ne è l’ultima, consistente prova. L’operazione è stata condotta autonomamente dal Presidente della Repubblica Ahmadinejad, in contrasto con la Guida Suprema Khamenei: secondo il quotidiano Kayhan, diretto da un fedelissimo della Guida Suprema, l’operazione di sostituzione del Ministro degli Esteri è un “insulto” proprio a Khamenei. Quest’ultimo ha finora sempre appoggiato Ahmadinejad anche nelle sue scelte, sempre più frequenti in questi mesi, di escludere il Parlamento da decisioni per le quali vige l’obbligo costituzionale di sentire il parere dei parlamentari. L’ennesimo arbitrio del Presidente offre quindi una chiara lettura: egli si sente di poter imporre i propri voleri anche a Khamenei, che in passato era invece riuscito a bloccare i suoi tentativi di sostituire Mottaki. A Tehran continua quindi la battaglia fra due gruppi di conservatori, quelli legati al Presidente e quelli più vicini alla Guida Suprema.
Nel frattempo, il Paese deve affrontare altri malanni, quali le nuove sanzioni minacciate da Washington dopo che i colloqui di Ginevra sul nucleare sono risultati inconcludenti. Ma nel prossimo vicino incontro siederà al tavolo dei negoziati il nuovo ministro Ali Akbar Salehi, altamente qualificato per il compito, visto il suo profilo di fisico nucleare nonché direttore dell’agenzia iraniana per l’energia atomica. Salehi potrebbe rappresentare una speranza di distensione fra l’Iran e il resto del mondo: egli è in grado di dialogare tanto con l’occidente (i suoi ex compagni del MIT di Boston lo descrivono come un uomo acuto e sensibile), quanto con gli stati arabi confinanti, nei quali pure ha studiato e vissuto. Tutto il mondo, quindi, lo aspetta a fine gennaio, a Istanbul, dove si svolgeranno i nuovi colloqui sul nucleare.
Anna Vanzan