LA RIVOLUZIONE
DEI GELSOMINI È CONTAGIOSA Anna Vanzan
Giornale di Brescia 29/1/2011
Il fuoco della rivolta si è esteso dal Maghreb alla penisola araba, finendo, al momento, nello Yemen. Le conseguenze di tali rivolte popolari, porteranno, molto probabilmente, a differenti risultati. Alla luce della situazione attuale, la Tunisia è destinata a raccogliere il successo maggiore per i dimostranti: comparando la sua situazione a quella dell’Egitto, ad esempio, è già evidente come Mubarak non pensi ad una rapida ritirata quale quella attuata dal collega tunisino Ben Ali. Fra i vari motivi, non ultimo è il fatto che Ben Ali ha presto capito di non poter contare sull’esercito, mentre Mubarak è, per ora, saldamente in controllo delle forze armate e di polizia che stanno reagendo pesantemente contro gli insorti. Inoltre, durante i giorni della rivolta, Ben Ali si è esposto con proclami che hanno rivelato la sua debolezza, mentre il furbo Mubarak si defila dal confronto diretto con i dimostranti, delegando all’uopo membri del suo Governo che, di fatto, risultano i mandanti della repressione in corso: compresa quella informatica, che sta oscurando quanto veramente succede al Cairo e dintorni.
Rispetto al presidente tunisino, inoltre, Mubarak può certo vantare un più saldo appoggio da parte delle forze internazionali: da un lato, stanno Europa, Stati Uniti e Israele. Possono questi tre grandi attori permettersi che esca di scena il garante di un solido muro contro la minaccia dei Fratelli Musulmani? La retorica che prospetta solo due soluzioni per gli egiziani (o con Mubarak o in preda al fondamentalismo dei Fratelli Musulmani) sta circolando insistentemente e persuasivamente. In un’area già travagliata, tra l’altro, dal conflitto israelo-palestinese e della probabile disgregazione del Sudan, le forze internazionali occidentali preferiscono lo status quo, seppure a discapito degli egiziani e della loro sete di democrazia. Dall’altro lato, stanno i regimi della penisola araba, spaventati per quanto sta accadendo. Ieri i giornali del Bahrein riportavano la notizia di una telefonata intercorsa tra il loro sovrano e Mubarak, con cui il reindiceva un’urgente riunione dei capi arabi onde fronteggiare la situazione, che sta precipitando pure in Yemen. Certamente galvanizzati dalla Rivoluzione del Gelsomini in Tunisia, e dalla scadenza elettorale per il rinnovo del loro Parlamento, prevista a fine aprile (dopo essere stata procrastinata per due anni!), gli yemeniti stanno scendendo in piazza, chiedendo la fine del regime del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978. Saleh è accusato dai suoi di corruzione, nepotismo (sta preparando il figlio Ahmed a succedergli tra un paio d’anni) e di aver appoggiato una politica economica disastrosa per il Paese: insomma, di avere il profilo di pragmatica per un «despota orientale». Su Saleh, anche Washington è assai dubbiosa: dopo l’11 settembre, il regime yemenita è stato abbondantemente finanziato dagli Stati Uniti per affiancarsi alla lotta contro il terrorismo. Ma Saleh, dopo qualche buon risultato iniziale, ha finito per stornare i fondi foraggiando gruppi estremisti stanziati nel Sud del Paese per combattere la sua guerra contro i ribelli del Nord. In tal modo, lo Yemen è divenuto una comoda postazione per l’Aqap, la cellula di al-Qaeda nella Penisola Arabica. La realpolitik sta decidendo se Mubarak e Saleh sono preferibili a soluzioni ignote, anche se la Rivoluzione dei Gelsomini tunisina sta dimostrando che il cambiamento è possibile, senza per questo mettere una regione a ferro e a fuoco. Ma, forse, i gelsomini possono fiorire solo in Tunisia. |
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