Esce di scena Gheddafi, riappare Musa al Sadr

I rapporti tra Libia e Iran non sono stati buoni in questi trent’anni, complice, tra l’altro, la misteriosa sparizione del teologo sciita Musa al Sadr, avvenuta nel 1978, mentre era in visita proprio in Libia. L’iraniano Musa al Sadr (1928) non era solo un dotto: negli anni 1960 s’era trasferito in Libano con il proposito di animare la comunità sciita del Paese. A tal proposito, aveva fondato un movimento paramilitare, Amal, attirandosi le simpatie dei giovani sciiti, ma al contempo accarezzando l’idea di una stretta collaborazione con tutti i gruppi religiosi esistenti nel Paese, con i quali aveva intessuto un dialogo. La sua non giustificata scomparsa in Libia (Gheddafi ha sempre asserito che Sadr se ne sarebbe andato via sano e salvo dalla Libia verso …. l’Italia!) aveva creato tensioni tra la neonata Repubblica Islamica d’Iran e Tripoli, tensioni mai appianata. Ma ora, mercoledì 23 u.s., la figlia di Musa, Houra Sadr, è apparsa in conferenza stampa in quel di Tehran, proclamando che il padre sarebbe vivo e “ospite” delle carceri di Gheddafi; e la testata iraniana Sharq, nella stessa data, annuncia un comitato di accoglienza in patria per il leader ritrovato.

http://www.youtube.com/watch?v=cYBQNtUQGho

Se la notizia fosse vera, Musa al Sadr potrebbe tornare in patria con tutti gli onori, anche se ormai troppo vecchio, forse, per far valere la sua pacata visione del mondo.

IRANIUM, un film bellico

In queste settimane si è verificato un ennesimo caso diplomatico tra Iran e la comunità internazionale, in questo caso rappresentata da Stati Uniti, Canada e Israele, e incentrata sulla presentazione di un filmato chiamato “Iranium”, un apocalittico documentario che intende spaventare l’opinione pubblica sui disastrosi effetti che avrebbe l’arricchimento d’uranio da parte della Repubblica Islamica. Il regista è Alex Traiman, residente nella West Bank ed ideologo di spicco del progetto di occupazione dei territori palestinesi. Il suo film viene largamente sponsorizzato dai neoconservatori locali sia negli Stati Uniti sia in Canada, tanto che l’ambasciatore iraniano a Ottawa è intervenuto protestando per una ventilata programmazione nelle pubbliche biblioteche. Ma “Iranium” ha indignato anche migliaia di sostenitori dell’Onda Verde, che denunciano come il film sia un ennesimo caso di manipolazione della lotta condotta dall’ opposizione per dichiarare guerra all’Iran. La “macchina propagandistica israelo-americana uguaglia quella del regime di Tehran”, secondo quanto dichiarato dai Verdi nel loro sito Facebook.

E’ chiaro, peraltro, che “Iranium” rappresenta soprattutto un monito alle autorità americane: durante il documentario, si fa cenno alla posizione troppo morbida del presidente Carter, accusato di non aver dato un chiaro e deciso appoggio allo shah quando questi perse il trono ad opera dei rivoluzionari, con le note conseguenze. Ed ecco il monito a Obama: nel 1979 gli Stati Uniti consegnarono l’Iran agli islamici, adesso si ripresenta lo stesso problema in Egitto, Yemen, Bahrein ecc.. Ergo, bisogna agire in un certo modo, per evitare che la già debole influenza americana in Medio Oriente scompaia del tutto. Peccato che, al contrario, da quando la presa di Washington sul Medio Oriente  si è alleggerita, i popoli locali decidano di scendere nelle piazze a chiedere democrazia, possibilmente non importata né imposta.

Egitto, diplomazie occidentali in affanno

Leggi il mio commento sul Giornale di Brescia 1/2/2011:

Lo tsunami in corso nei Paesi arabi costringe la politica e la diplomazia occidentali a confrontarsi con i propri fantasmi. La notizia che sulle piazze egiziane sono ricomparsi i Fratelli Musulmani e che in Tunisia è rientrato il leader islamista Rachid Gannouchi costretto dal regime di Ben Ali ad un pluriennale, forzato esilio in Gran Bretagna, evoca ai più lo spettro della rivoluzione islamica iraniana del 1979. La paura che serpeggia negli Stati Uniti e in Europa (e non solo) di un affermarsi di regimi islamisti nel Nord Africa e in Medio Oriente rischia così di paralizzare le diplomazie, mettendo a serio rischio il futuro dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Certamente, non ci si poteva aspettare che una compagine quale quella dei Fratelli Musulmani, da sempre vicina ai bisogni più elementari del popolo, non si facesse viva organizzando centri di soccorso per i feriti dalla brutale repressione poliziesca, o che i teologi dell’università cairota di al-Azhar, che da circa un millennio costituisce il faro del sapere islamico, non scendessero in piazza accanto ai loro compatrioti con i quali condividono l’esasperazione cui li ha trascinati il regime di Mubarak.
È altresì vero che, nelle fasi di estrema incertezza, nei Paesi arabi, così come in altri a prevalente credo musulmano, spesso i partiti di ispirazione islamista si rivelano più organizzati e in grado di convogliare lo scontento popolare rispetto alle compagini laiche. E ciò, per vari motivi, non ultimo il fatto che le formazioni «religiose» sanno essere vicine alla gente nelle loro necessità primarie, mentre l’associazionismo laico e/o partitico è perlopiù inesistente, anche perché in gran parte falcidiato proprio dai despoti «laici», col beneplacito degli sponsor occidentali. L’Egitto, comunque, non è l’Iran di fine anni ’70, e i suoi teorici islamisti guardano semmai alla Turchia e al modello di Erdogan piuttosto che alla teocrazia iraniana. Molti obietteranno che neppure Ankara in questa fase sembra incarnare l’ideale polo con cui la diplomazia occidentale vuole confrontarsi, ma qui si ripresenta l’eterno dilemma in cui ci stiamo dibattendo in queste decadi di cosiddetto post-colonialismo. Gli interlocutori che piacciono a Washington e a Bruxelles non sono necessariamente quelli graditi alle piazze di Cairo, Tunisi, Ankara, Damasco e via dicendo, anzi, solitamente accade il contrario. Tergiversare per lo spauracchio di un nuovo regime islamista o, peggio, appoggiare un nuovo dittatore «laico» (ad esempio il generale Suleiman, già nominato da Mubarak), nella vana speranza che questo regni nell’interesse anche dell’Occidente, è un vizio che bisognerebbe perdere. Non dimentichiamoci che in Egitto è rientrato pure Muhamed ElBaradei che sta cercando di porsi come leader dell’opposizione. ElBaradei è un burocrate insignito del premio Nobel, e non è né un islamista, né un radicale, però ha il difetto di essersi messo più volte in rotta di collisione con Washington quando presiedeva la commissione incaricata di negoziare con Teheran sull’arricchimento dell’uranio iraniano. Se abbiamo paura della presa di potere da parte di forze islamiste, o comunque, ostili all’Occidente, forse sarebbe il caso di non perdere questa occasione, che potrebbe essere l’ultima.