Egitto, diplomazie occidentali in affanno

Leggi il mio commento sul Giornale di Brescia 1/2/2011:

Lo tsunami in corso nei Paesi arabi costringe la politica e la diplomazia occidentali a confrontarsi con i propri fantasmi. La notizia che sulle piazze egiziane sono ricomparsi i Fratelli Musulmani e che in Tunisia è rientrato il leader islamista Rachid Gannouchi costretto dal regime di Ben Ali ad un pluriennale, forzato esilio in Gran Bretagna, evoca ai più lo spettro della rivoluzione islamica iraniana del 1979. La paura che serpeggia negli Stati Uniti e in Europa (e non solo) di un affermarsi di regimi islamisti nel Nord Africa e in Medio Oriente rischia così di paralizzare le diplomazie, mettendo a serio rischio il futuro dei rapporti tra Oriente e Occidente.
Certamente, non ci si poteva aspettare che una compagine quale quella dei Fratelli Musulmani, da sempre vicina ai bisogni più elementari del popolo, non si facesse viva organizzando centri di soccorso per i feriti dalla brutale repressione poliziesca, o che i teologi dell’università cairota di al-Azhar, che da circa un millennio costituisce il faro del sapere islamico, non scendessero in piazza accanto ai loro compatrioti con i quali condividono l’esasperazione cui li ha trascinati il regime di Mubarak.
È altresì vero che, nelle fasi di estrema incertezza, nei Paesi arabi, così come in altri a prevalente credo musulmano, spesso i partiti di ispirazione islamista si rivelano più organizzati e in grado di convogliare lo scontento popolare rispetto alle compagini laiche. E ciò, per vari motivi, non ultimo il fatto che le formazioni «religiose» sanno essere vicine alla gente nelle loro necessità primarie, mentre l’associazionismo laico e/o partitico è perlopiù inesistente, anche perché in gran parte falcidiato proprio dai despoti «laici», col beneplacito degli sponsor occidentali. L’Egitto, comunque, non è l’Iran di fine anni ’70, e i suoi teorici islamisti guardano semmai alla Turchia e al modello di Erdogan piuttosto che alla teocrazia iraniana. Molti obietteranno che neppure Ankara in questa fase sembra incarnare l’ideale polo con cui la diplomazia occidentale vuole confrontarsi, ma qui si ripresenta l’eterno dilemma in cui ci stiamo dibattendo in queste decadi di cosiddetto post-colonialismo. Gli interlocutori che piacciono a Washington e a Bruxelles non sono necessariamente quelli graditi alle piazze di Cairo, Tunisi, Ankara, Damasco e via dicendo, anzi, solitamente accade il contrario. Tergiversare per lo spauracchio di un nuovo regime islamista o, peggio, appoggiare un nuovo dittatore «laico» (ad esempio il generale Suleiman, già nominato da Mubarak), nella vana speranza che questo regni nell’interesse anche dell’Occidente, è un vizio che bisognerebbe perdere. Non dimentichiamoci che in Egitto è rientrato pure Muhamed ElBaradei che sta cercando di porsi come leader dell’opposizione. ElBaradei è un burocrate insignito del premio Nobel, e non è né un islamista, né un radicale, però ha il difetto di essersi messo più volte in rotta di collisione con Washington quando presiedeva la commissione incaricata di negoziare con Teheran sull’arricchimento dell’uranio iraniano. Se abbiamo paura della presa di potere da parte di forze islamiste, o comunque, ostili all’Occidente, forse sarebbe il caso di non perdere questa occasione, che potrebbe essere l’ultima.