I Mujahedin e Khalq non sono più terroristi…

…ovvero, Europa e Stati Uniti commettono ancora errori di valutazione (e non solo).

Riassumiamo in breve la vicenda che da qualche mese è venuta alla ribalta. I Mujahedin e Khalq sono un’organizzazione “Marxista-islamista” sorta in Iran che ha disseminato panico e morti  prima combattendo contro lo shah e poi contro i capi della Rivoluzione Islamica. Ai tempi della guerra Iraq-Iran si sono rifugiati nel paese di Saddam Hussein, combattendo contro l’Iran (cosa che non li ha resi simpatici agli occhi dei connazionali). Riconosciuti internazionalmente come “terroristi”, son riusciti a farsi sdoganare dalle liste del terrorismo europeo nel 2009, mentre sono rimasti più a lungo nella lista dell’ufficio anti terrorismo del Dipartimento di Stato americano, probabilmente perché i Mujahedin hanno colpito più volte soprattutto obiettivi (umani) statunitensi. Ma ora anche gli US stanno per  depennarli dalla lista delle organizzazioni pericolose, vuoi perché i Mujahedin avrebbero fornito importanti informazioni sul programma nucleare in atto nella Repubblica Islamica, vuoi perché i Mujahedin stanno cavalcando l’onda dell’opposizione in atto in Iran, proponendosi come agenti attivi della stessa e , quindi, come forza democratica. In realtà, le loro credenziali democratiche sono inesistenti, e a casa loro non hanno supporto. Tanto che Ahmadinejad &co. cercano di discreditare i sostenitori dell’Onda Verde sostenendo che sarebbero in combutta proprio con i Mujahedin.

Insomma, gli US stanno per ricadere nel tranello “i nemici dei miei nemici….”. Evidentemente l’esperienza in Afghanistan (dove si sono fidati dei Taleban), in Iraq (ricordiamoci della pericolosa amicizia con Ahmed Chalabi che aveva spinto l’invasione sicuro che Saddam possedesse armi letali), tanto per citare due casi notori, non è bastata.

Così, mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sul Mediterraneo in fiamme, altrove si consumano altri drammi.

Sha’ria: legge immutabile o interpretabile da chi ha il potere?

Leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 29/3/201.

In questi giorni è tornata alla ribalta la vicenda di Asia Bibi, la pachistana incarcerata con l’accusa di blasfemia dopo la denuncia di vicine che l’avrebbero sentita inveire contro il profeta Maometto, e per essersi poi rifiutata di convertirsi. L’arresto di Bibi ha provocato tensioni in Pakistan, dove vige la pena capitale per blasfemia e apostasia, sfociate in disordini durante i quali sia il governatore del Punjab sia il ministro delle Minoranze religiose, a favore dell’abolizione di tale legge, sono stati assassinati.
La vicenda riporta alla ribalta il problema delle minoranze cristiane (o di altre fedi) in una società in cui la religione islamica è preponderante e delle gravi intolleranze di cui spesso sono vittime. Poco importa che né il Corano (che proibisce la conversione forzata, Sura 2:26) né eventi storici legati a Maometto corroborino l’idea che chi non è musulmano vada ucciso; e neppure che giuristi islamici si siano chiaramente espressi contro la barbara interpretazione. Agli amministratori dei Paesi dove la tensione tra musulmani e minoranze è più grave (Pakistan, Nigeria, Egitto, India) importa sviare l’opinione pubblica dalle loro malefatte, favorendo l’opera di capi religiosi fanatici che aizzano le folle contro i cristiani «nemici» distogliendo l’attenzione da malgoverno e corruzione.
L’ossessione di molti legislatori islamici sulla libertà di religione svela altri risvolti: in alcuni Paesi, pure le conversioni all’islam da parte di aderenti ad altre religioni sono ostacolate, soprattutto se le aspiranti musulmane sono donne. Negli Stati in cui divorziare è difficile, vi sono donne convertitesi provvisoriamente all’islam (in cui lo scioglimento del matrimonio è più semplice) per liberarsi dal vincolo, e poi tornate alla religione originaria. Questo uso della conversione ha spinto molti pensatori islamici ad invocare pene severe per le apostate. Ma si è pure verificato il caso in Kuwait di donne che, sfidando pene severe, hanno tentato di liberarsi di sgradevoli connubi fingendo di convertirsi ad altra religione: così non c’è neppure bisogno di rivolgersi ad una corte, poiché il legame tra un musulmano e una donna che non lo è viene automaticamente sciolto. Per chiudere la «pericolosa porta di libertà», le autorità kuwaitiane hanno deciso che l’apostasia femminile non conduce all’immediato scioglimento del matrimonio. Così hanno confermato che le leggi religiose cui molti s’appellano per giustificare il controllo sulla società possono essere modificate: conta solo il potere di chi le gestisce.

Di nuovo in guerra per “motivi umanitari”

Leggi il mio articolo nel Giornale di Brescia 22/3/2011

Il 2011, iniziato con la speranza disseminata dai movimenti non violenti sviluppatisi in Nord Africa e richiedenti democrazia e giustizia, rischia di tramutarsi in un anno di rivoluzioni tanto incompiute quanto sanguinarie. L’attenzione del mondo è, ovviamente, catalizzata dalla situazione in Libia, dove le forze dell’Alleanza occidentale stanno intervenendo contro il regime di Gheddafi.
Un intervento discutibile, per molti motivi: ammesso che si tratti di un «intervento umanitario», verrebbe allora da chiedersi perché non ci si mobiliti pure per le popolazioni civili in Yemen e Bahrein, entrambe esposte alla brutale repressione dei loro regimi. Certo, l’intervento occidentale in Libia pare avere la benedizione della Lega Araba, che non si è espressa invece in merito ai conflitti civili in Yemen e Bahrein, per ovvi motivi: se molti regimi arabi e gli US ritengono il rais yemenita Saleh «baluardo contro al Qaeda», gli stessi sospettano che dietro alle sommosse contro Al Khalifa del Bahrein ci sia il sostegno dell’Iran. Per cui, piuttosto che una possibile paventata espansione di al-Qaeda e degli ayatollah iraniani, meglio tenere in sella crudeli tiranni che ammazzano i propri sudditi.
Nessuno si muove in aiuto ai cittadini di quei due Stati, forse cinicamente sperando solo che le cose si acquietino in qualche modo e si possa continuare a correrci il Grand Prix.
Sul parere interventista della Lega Araba pesano, inoltre, vari sospetti; di certo i Paesi aderenti sperano che, d’ora in poi, si instauri un principio importante: nessun intervento delle truppe occidentali sarà più possibile senza il loro placet. Ma con che autorità si esprime una Lega i cui associati sono perlopiù Paesi, come lo Yemen o l’Arabia Saudita, governati da leader delegittimati o violentemente contestati dagli stessi loro cittadini? Sorge il dubbio che i Paesi della Lega Araba vogliano solo stornare l’attenzione pubblica da quanto sta succedendo al loro interno e che non siano sicuri delle proprie azioni. Infatti non solo non hanno dato supporto logistico alle operazioni Onu-Us in Libia, ma stanno già facendo marcia indietro: vedi la dichiarazione del segretario della Lega, Amir Moussa, che si è lagnato sulle modalità dell’intervento bellico franco-inglese anti Gheddafi.
Forse, questi regimi arabi si stanno rendendo conto che ora rischiano di essere detronizzati tanto dalla rivolta interna quanto da un possibile intervento straniero. L’intervento militare in Libia, insomma, si fonda su una serie di ipocrisie e di valutazioni sbagliate, sia da parte occidentale sia da parte della Lega Araba e, soprattutto, su un principio di legittimazione che non esiste: l’operazione è stata avallata dall’insolito supporto di regimi ormai delegittimati. Speriamo di non dover pagare, in futuro, un prezzo troppo alto per tale azzardata valutazione

Il Comitato per l’islam italiano, maschilista nei toni e nei fatti

Il Comitato per l’islam italiano, insediato presso il Ministero degli Interni lo scorso anno, e’ noto per le sue difficoltà, dal momento che contempla nel suo seno un’esigua minoranza di musulmani e di esperti in materia, mentre invece abbondano noti polemisti anti islam. Questa sbilanciata composizione continua a favorire prese di posizioni paradossali e discriminatorie proprio nei confronti dei musulmani.

L’ultimo documento stilato lo scorso 11 marzo (e disponibile sul sito del Viminale) in merito alle vicende che coinvolgono gli stati delle sponde meridionale e orientale del Mediterraneo, oltre ad essere intriso di banalità (le rivolte sono frutto di “una mobilitazione con una forte componente generazionale“); di mancanza d’informazione (il Comitato non prende in considerazione la situazione in Libia per “oggettiva complessità della situazione e dell’attuale scarsa decifrabilità“: ma allora, che ci sta a fare?); e del solito spauracchio della miscela “migrazione e islam (“al momento vi è solo una situazione di confusione e di incertezza, che determina una forte spinta all’emigrazione; ed è fuori di dubbio che quando c’è immigrazione senza controllo c’è spazio per le infiltrazioni da parte di criminali e di terroristi”), il comunicato sfiora il ridicolo sostenendo che la rivolta in Tunisia sarebbe stata animata da “giovani maschi [che] hanno lottato per ottenere il riconoscimento di fondamentali diritti umani”!

Oltre alla palese menzogna di simile affermazione, contraddetta se non altro dai numerosi servizi fotografici e televisivi che dimostrano l’intensa partecipazione femminile alle proteste per l’affermazione della democrazia, il linguaggio del Comitato è maschilista e discriminatorio. Come, del resto, la sua stessa composizione, che prevede solo una donna nel suo seno. Dal momento che il dibattito italiano è inflazionato da chi vuol sottolineare la presunta inferiorità delle donne nell’islam, non sarebbe ora che le istituzioni dessero un segno opposto, favorendo una maggiore partecipazione delle donne musulmane almeno negli organismi che le riguardano da vicino?

Nell’anno in cui si celebra l’anniversario dell’unità d’Italia e la sua sciagurata campagna di colonizzazione dei libici, dovremmo cogliere l’opportunità di ridare dignità tanto agli uni quanto agli altri.

leggi il mio articolo sul Giornale di Brescia del 5 marzo

Fra le rivoluzioni sulle sponde del Mediterraneo, è la libica a colpire maggiormente l’Italia. Sono in ballo, soprattutto, rifornimenti energetici privilegiati, scambi commerciali di primaria importanza e il paventato crollo della frontiera ideale che la Libia costituiva rispetto alla migrazione africana in Italia.
Ma vi è anche un aspetto: nell’anno del centesimo anniversario dell’invasione italiana in Libia (1911), l’Italia rischia di perdere quel Paese una seconda volta, ovvero, di uscire dal ruolo di Paese europeo amico della Libia, funzione che finirà inevitabilmente per essere assunta da qualche altro collega dell’Ue. Il solito vizio italiano ci porta a litigare per decidere quale parte politica abbia maggiormente strizzato l’occhiolino al dittatore di Tripoli, e/o a fantasticare sul pericolo di un’invasione epocale di migranti africani, anziché preoccuparci di contribuire subito alla ricostruzione, anche culturale, della Libia. Basti pensare, ad esempio, al ruolo che potrebbe svolgere la lingua italiana. Ricordiamo che nel regime di Gheddafi, che per anni ha bandito lo studio delle lingue straniere occidentali, inglese incluso, quale ritorsione a seguito delle sanzioni dopo il disastro di Lockerbie nel 1988, l’insegnamento della nostra lingua (pur per lungo tempo non certo amata, vista la presenza coloniale) ha ripreso forza in questi ultimi anni in cui è stata insegnata negli atenei di Tripoli e Bengasi.
Finora quest’operazione ha funzionato in assenza di accordi ufficiali, con strette di mano e tanta buona volontà da parte degli insegnanti di casa nostra, alcuni dei quali in questi giorni drammatici si sono pure trovati in difficoltà. Insomma, un pasticcio all’italiana, che rivela però come al mondo ci sia chi tiene in considerazione la nostra cultura.
E che dire dell’immenso patrimonio archeologico e archivistico nei siti e nelle istituzioni libiche, parte della nostra storia, che andrebbe meglio conosciuto e valorizzato? Ma anche chi crede che la cultura non paghi, comunque, dovrebbe auspicare un approccio alla nuova Libia che consenta all’Italia di continuare a rivestire un ruolo di spessore. Ciò non significa rispolverare miti neo-colonialisti, ma approfittare della scarsa fiducia che i Paesi Ue sembrano avere negli investimenti sulla sponda sud del Mediterraneo per dare slancio alle nostre industrie, favorendo insieme il tasso di occupazione nostro e dei nord africani. Misura che disincentiverebbe l’arrembaggio ai nostri porti di migliaia di disperati.

Dittatori e finanziamenti universitari

Pecunia non olet: neppure se il denaro proviene da mani di regimi lorde del sangue dei sottoposti. Questo debbono aver pensato molte università, fra cui la prestigiosa London School of Economics (LSE) che nel 2009 ha accettato 1milione e mezzo di sterline donate da una fondazione capeggiata da Saif al Islam Gheddafi, il figlio del colonnello dottoratosi due anni prima proprio alla LSE con una tesi sul ruolo della società civile nel processo di democratizzazione (ridete popolo!). Invero ci fu, all’epoca, qualche protesta fra il corpo accademico, fra cui quella dell’autorevole politologo ed esperto di Medio Oriente,  Fred Halliday; ed ora, alla luce degli eventi, pare che studenti della LSE abbiano ottenuto, a suon di occupazioni, che la suddetta donazione venga restituita. Ripercorrendo questa vicenda nelle pagine del Il Sole 24 ore del 27 febbraio u.s., Federico Varese si chiede se sia legittimo accettare denaro da un regime dittatoriale. Poi, però, il giornalista ricorda che l’accademia londinese, così come quella italiana, sono vittime di “tagli draconiani”; e infine, sembra assolvere gli accademici in questione, dal momento che “dietro una cattedra siedono uomini e donne normali, con aspirazioni legittime e debolezze tutte umane”, e che “non hanno il monopolio della virtù”.  Su quest’ultima osservazione siamo totalmente d’accordo: non siamo però d’accordo nell’assolvere le accademie, di qualsiasi paese esse siano, animate sì da “esseri umani”,  quando questi dimenticano le basilari regole dell’etica, spesso in nome di prestigio e ambizioni personali.  Non neghiamo, altresì, che molti accademici si imbarchino in incauti accordi internazionali per ottenere attrezzature, facilitazioni e opportunità erroneamente negate dalle proprie istituzioni. Ottenere una borsa di studio dal Bokassa di turno significa “parcheggiare” un proprio bravo studente in attesa di meglio, ad esempio spedendolo ad insegnare la lingua italiana o a far ricerca presso un’istituzione estera; ma a volte questi accordi si concretizzano in assenza totale della necessarie garanzie per l’interessato, che si trova in un paese straniero dove invece la copertura istituzionale è fondamentale per la sua tutela.

Resta da sottolineare l’ipocrisia di fondo in cui navigano molti, appartenenti agli ambienti più disparati, dall’accademia alla politica, dal mondo bancario a quello imprenditoriale: tutti sempre pronti ad denunciare repressione e negazione dei diritti umani nei paesi “altri”, tranne quando queste operazioni avvengano nel paese con cui si stanno intrecciando proficui affari.