Dittatori e finanziamenti universitari

Pecunia non olet: neppure se il denaro proviene da mani di regimi lorde del sangue dei sottoposti. Questo debbono aver pensato molte università, fra cui la prestigiosa London School of Economics (LSE) che nel 2009 ha accettato 1milione e mezzo di sterline donate da una fondazione capeggiata da Saif al Islam Gheddafi, il figlio del colonnello dottoratosi due anni prima proprio alla LSE con una tesi sul ruolo della società civile nel processo di democratizzazione (ridete popolo!). Invero ci fu, all’epoca, qualche protesta fra il corpo accademico, fra cui quella dell’autorevole politologo ed esperto di Medio Oriente,  Fred Halliday; ed ora, alla luce degli eventi, pare che studenti della LSE abbiano ottenuto, a suon di occupazioni, che la suddetta donazione venga restituita. Ripercorrendo questa vicenda nelle pagine del Il Sole 24 ore del 27 febbraio u.s., Federico Varese si chiede se sia legittimo accettare denaro da un regime dittatoriale. Poi, però, il giornalista ricorda che l’accademia londinese, così come quella italiana, sono vittime di “tagli draconiani”; e infine, sembra assolvere gli accademici in questione, dal momento che “dietro una cattedra siedono uomini e donne normali, con aspirazioni legittime e debolezze tutte umane”, e che “non hanno il monopolio della virtù”.  Su quest’ultima osservazione siamo totalmente d’accordo: non siamo però d’accordo nell’assolvere le accademie, di qualsiasi paese esse siano, animate sì da “esseri umani”,  quando questi dimenticano le basilari regole dell’etica, spesso in nome di prestigio e ambizioni personali.  Non neghiamo, altresì, che molti accademici si imbarchino in incauti accordi internazionali per ottenere attrezzature, facilitazioni e opportunità erroneamente negate dalle proprie istituzioni. Ottenere una borsa di studio dal Bokassa di turno significa “parcheggiare” un proprio bravo studente in attesa di meglio, ad esempio spedendolo ad insegnare la lingua italiana o a far ricerca presso un’istituzione estera; ma a volte questi accordi si concretizzano in assenza totale della necessarie garanzie per l’interessato, che si trova in un paese straniero dove invece la copertura istituzionale è fondamentale per la sua tutela.

Resta da sottolineare l’ipocrisia di fondo in cui navigano molti, appartenenti agli ambienti più disparati, dall’accademia alla politica, dal mondo bancario a quello imprenditoriale: tutti sempre pronti ad denunciare repressione e negazione dei diritti umani nei paesi “altri”, tranne quando queste operazioni avvengano nel paese con cui si stanno intrecciando proficui affari.