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Morsi e i F.M. hanno fallito però…..

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Come due anni fa la piazza egiziana ha voluto e ottenuto la testa del Presidente della Repubblica. L’oramai ex Presidente Morsi ha deluso ogni aspettativa, perché invece che dirigere i propri sforzi per portare qualche cambiamento positivo alla languente economia egiziana si è adoperato solo per incrementare il proprio potere, distribuendo favori alla sua accolita, né più né meno di quanto aveva fatto Mubarak. Morsi ha creduto di poter fare tutto da solo, esclusivamente con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e senza tener conto di tre forze determinanti nel Paese: il partito oltranzista Nur, che costituisce il blocco più cospicuo in Parlamento dopo i Fratelli Musulmani e che ha lavorato per minare la loro credibilità; la piazza, che s’era già dimostrata capace di rovesciare un regime collaudato come quello di Mubarak; e, soprattutto, i militari che s’erano solo temporaneamente fatti da parte. In realtà, è proprio grazie a un patto stretto tra l’esercito e i Fratelli Musulmani che questi ultimi sono rimasti al potere, un accordo secondo il quale l’esercito ha continuato a gestire il proprio immenso patrimonio economico costituendo di fatto uno stato dentro lo stato. Ora i militari tornano protagonisti, astutamente ergendosi a difensori delle democratiche richieste dei milioni di cittadini inneggianti le dimissioni di Morsi e affermando di non volere esercitare alcun comando. Ma solo gli ingenui possono pensare che l’esercito non trasformi la situazione presente a proprio vantaggio, perché di certo i militari non rinunceranno al ruolo di guardiani dell’Egitto e si preoccuperanno che chiunque succeda a Morsi continui a tenere gli occhi chiusi sui loro immensi privilegi economici e politici.

Di sicuro i milioni di egiziani scesi in piazza contro Morsi chiedendo proprio l’intervento dell’esercito (nonostante le palesi violazioni dei diritti umani da questo perpetuate) sono ben consapevoli della minaccia rappresentata dai loro “liberatori”, ma probabilmente l’hanno considerata un male minore. Di fatto, però, la democrazia è stata violata da un atto commesso contro un Presidente e un partito che, bene o male, erano stati eletti dalla maggioranza degli elettori. Inoltre, non è chiara la via che il Paese prenderà. L’opposizione s’è attivata per far destituire il Presidente, ma raggiunto questo obiettivo non ha un programma, anche perché non si tratta di una forza organizzata, ma solo di una moltitudine di individui dalle convinzioni più disparate: laici, musulmani che non si riconoscono nei Fratelli fra i quali la massima autorità dell’università islamica di Al Azhar, simpatizzanti dell’ancient regime, copti e musulmani sciiti contro la cui persecuzione le autorità nulla hanno fatto, membri del partito Nur, liberali, socialisti, cittadini preoccupati dalla deriva autoritaria assunta da Morsi e dai Fratelli e stretti nella morsa di un’economia disastrata. A questo proposito, è bene ricordare come siano in pericolo gli investimenti e i finanziamenti assicurati dal Qatar all’Egitto direttamente attraverso la persona dell’ex Presidente Morsi, il quale nel mese di giugno s’era recato per l’ennesima volta a Doha per batter cassa. Il Qatar aveva assicurato il proprio aiuto in virtù del fatto che l’Egitto era in mano ai Fratelli Musulmani, c’è quindi il rischio che ora ritiri il proprio appoggio economico inferendo un colpo mortale alle finanze egiziane. Che l’atmosfera tra i due paesi sia rapidamente cambiata è confermato dal fatto che, non appena Morsi è stato destituito, le forze di sicurezza egiziane hanno oscurato alcuni canali televisivi, tra cui quello dell’emittente qatarina Al Jazira, che proprio due anni fa aveva costituito uno dei principali strumenti d’informazione sulla rivoluzione egiziana. Un fatto grave che getta un’ombra su questa nuova fase della rivoluzione, anche se, al momento, molti egiziani che all’epoca avevano inneggiato ad Al Jazira sono in festa.

da Il Giornale di Brescia 5/7/2013.

La nostra eredità in Afghanistan

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E’ stato un bambino di 11 anni a lanciare la bomba che ha ucciso il capitano Giuseppe La Rosa, sostengono i Talebani. Probabilmente non è così, ma i Talebani intendono sottolineare come anche a Farah, zona controllata dalle nostre truppe insieme alla forza internazionale (ISAF), stiano riconquistando le posizioni perdute, evidenza purtroppo difficile da smentire. Dopo oltre dieci anni di conflitto la situazione in Afghanistan, che all’inizio pareva essere controllabile, sta precipitando, e, più si avvicina la data del disimpegno dell’ISAF, più è evidente il fallimento della missione costata uno sproposito tanto in termini economici quanto, soprattutto, di vite umane. I Talebani sono talmente tracotanti da permettersi azioni terroristiche nel cuore di Kabul; l’ultima, quella avvenuta un paio di settimane fa che per poco non ha ucciso un’altra nostra compatriota in servizio per l’ONU. E Kabul è definita da tutti “oasi felice” per il grado di sicurezza garantito tanto da ISAF quanto dalle forze di polizia afghane: figuriamoci il resto del Paese.

Sembrerebbe non ci sia altro che sperare nel veloce avvicinarsi del 2014 e del conseguente ritiro delle truppe, comprese quelle italiane, ma qui ci profila un altro problema: cosa lasciamo a quegli afghani che hanno sopportato oltre dieci anni di guerra e di occupazione straniera solo nella speranza di un destino migliore per loro e per i loro figli?

Nella cosiddetta società civile è scattato da tempo l’allarme per la partenza dell’ISAF; gli afghani che lavorano per organizzazioni non governative di vario tipo, presso piccole cliniche e ambulatori, nelle scuole, nelle istituzioni che garantiscono l’informazione, al pari di tanti altri che non hanno mansioni particolari ma, semplicemente, speravano di essere usciti dagli anni del terrore, si vedono in pericolo. Appena l’ultimo soldato ISAF se ne sarà andato ricominceranno le vessazioni dei Taleban nei confronti della popolazione; che ne sarà di tutti coloro che hanno collaborato con gli stranieri? Come minimo verranno tacciati di collaborazionismo, di aver complottato col nemico, pagandone le inevitabili conseguenze.

In realtà, il piano è di far evacuare il contingente militare, ma di mantenere in Afghanistan strutture d’appoggio dirette da civili, che, a quel punto, dovrebbero essere protette solo dai circa 190mila soldati dell’esercito regolare afghano, già in servizio. Ma ciò sarà sufficiente a garantire la sicurezza dei civili stranieri e degli stessi afghani, se neppure oggi, a fronte di quasi 100mila militari ISAF, che dovrebbero se non altro scoraggiare atti terroristici, i Taleban continuano a mietere vittime con cadenza quotidiana?

Sono tutti interrogativi che immaginiamo le forze ISAF si pongano; di certo, gli afghani lo fanno. Le organizzazioni che lottano per i diritti delle donne, ad esempio, stanno già mettendo in guardia sul reale pericolo che, nel nuovo scenario post 2014, le afghane si ritrovino in una condizione addirittura peggiore di quella pre intervento internazionale nel 2001. Se nelle città si nota un debole miglioramento del segmento femminile, nelle zone rurali la situazione è ben diversa, avendo le donne scarse possibilità di accedere ai servizi scolastici e sanitari, per non parlare del preoccupante incremento dei “delitti d’onore” di cui sono bersaglio. Ci vuole uno sforzo ulteriore per raggiungerle e dotarle, per quanto possibile, di strumenti con cui difendersi dopo il ritiro dell’ISAF, quali istruzione e possibilità di lavoro. Altrimenti, la missione sarà ricordata solo come un colossale fallimento che ha comportato un numero di vittime troppo alto, da ambe le parti.

da Giornale di Brescia 10/6/2013

Disordini a Istanbul

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I nodi tra il premier turco Erdoğan e quei cittadini scontenti del suo operato stanno venendo rapidamente al pettine in questi ultimi giorni. Il mese di maggio s’era aperto all’insegna della contestazione, dopo che il governo aveva varato una legge che restringe l’uso degli alcolici in pubblico; in realtà, nella sostanza poco cambia: se ne vieta la vendita a supermercati e negozi dalle 22 alle 6, si vieta alle compagnie che li vendono di sponsorizzare eventi pubblici, nonché di pubblicizzarsi nei programmi radio e tv nazionali. Per il resto, nulla cambia, ma questa serie di divieti posti su un prodotto altamente simbolico come l’alcol ha avuto un effetto esplosivo su tutti coloro che pensano che Erdoğan e i suo partito (AKP) stiano trascinando la Turchia nel baratro dell’islamizzazione forzata. I precedenti a questo proposito non mancano, basti pensare alla polemica sull’uso del velo, che l’AKP da molti anni sta cercando di sdoganare negli impieghi pubblici (dov’è bandito da quasi un secolo); o alle frasi pronunciate dal premier proprio un anno fa a proposito dell’aborto (legale in Turchia) che egli definì “un assassinio”, scatenando le ire di moltissime turche; nonché a molti piccoli segni che marcano una maggiore invadenza della religione in un Paese che per decadi aveva fatto della laicità una bandiera.

Le violenze di Istanbul, però, sono di altro segno, anche se, probabilmente, frutto anche di uno scontento maturato per la tentata “islamizzazione” del Paese da parte dell’AKP, e mostrano, da un lato, una matrice ecologica, dall’altro, una prettamente politica, legata soprattutto alla figura di Erdoğan. E’ vero, infatti, che gli istambulini sono scesi in piazza per difendere l’annunciato abbattimento del parco Gezi, uno dei pochi spazi verdi nella zona centrale di Taksim, ma la rabbia è stata aumentata dal fatto che gli alberi devono cedere il posto a un centro commerciale, per un giro d’affari milionario di cui uno dei beneficiati sarebbe proprio il premier in carica e altri personaggi di spicco dell’AKP. E contro di questi si è scatenata la protesta, sedata con una prepotenza e una violenza poco consone a un governo, e al suo leader, che in questi anni si sono adoperati, in patria all’estero, per apparire moderni e moderati, quasi una sorta di calmiere agli estremismi militari del passato e a quelli religiosi dei tempi recenti.

La brutale reazione del governo contro i manifestanti, ha mostrato invece il lato deleterio della modernizzazione, ovvero, ancora una volta, l’uso della tecnologia per colpire i dissenzienti, le cui comunicazioni via cellulare sono state intercettate per isolarli e colpirli, mentre internet sta subendo rallentamenti. Al contempo, i maggiori giornali turchi stanno cercando di minimizzare quanto accaduto, riproponendo il problema della censura (e auto censura) della stampa in Turchia.

Il premier s’è reso conto di aver commesso un passo falso, e si è già espresso pubblicamente condannando l’eccessivo uso della forza da parte della polizia, che ha lasciato sulla strada decine di feriti e dichiarando di aver già richiesto al Ministro degli Interni di fare luce su quanto accaduto. Ma la polizia è ancora schierata in forze a Taksim e nessun annuncio è stato fatto in merito a un ripensamento rispetto abbattimento del bosco.

da Il Giornale di Brescia 2 giugno 2013

Il nuovo (?) Pakistan

 

imagesNawaz Sharif è di nuovo primo ministro del Pakistan: questa, a voler esser cinici, l’unica certezza per il travagliato Paese del sub continente, insieme alla confortante notizia che i pakistani, nonostante le intimidazioni e i sanguinosi attentati provocati dai Taleban contro le votazioni da loro ritenute “non islamiche” (forse perché i sedicenti studiosi di Corano non sanno che nelle società islamiche si vota fin dalla morte del loro profeta Muhammad, nel 632) si sono recati in massa alle urne, tanto che molti sono stati intrappolati in lunghe file e si sono lagnati di non poter esercitare il diritto di voto in quanto i seggi si sarebbero chiusi prima che essi vi potessero accedere. Questa difficoltà viene ora sfruttata dai due principali contendenti della Lega Musulmana di Nawaz Sharif, ovvero il Partito Tehrik-e Insaf guidato dall’ex giocatore di cricket Imran Khan, e il Partito Popolare Pakistano, grande sconfitto di questa tornata elettorale, per reclamare presunti brogli e irregolarità ai loro danni. Ma il divario tra loro e la Lega Musulmana è troppo ampio, il verdetto delle urne troppo chiaro, e sarà Nawaz Sharif a formare un nuovo governo, dal compito immane: si tratta di portare pace, sicurezza e stabilità in un Paese che in questi anni è sprofondato in un pericoloso clima di violenze inter etniche e inter religiose (soprattutto tra sunniti e sciiti) e in una paurosa crisi economica e energetica. Ognuna di queste sfide è piena di insidie e difficoltà, a cominciare da quella energetica. Vi sono regioni pakistane dove la corrente elettrica è presente solo per qualche ora al giorno e molti voli della compagnia di bandiera vengono di continuo cancellati per mancanza di carburante. Per cercare di ovviare tale situazione, il Pakistan ha da tempo siglato un accordo con la Repubblica Islamica d’Iran per costruire un gasdotto atto a importare la preziosa miscela acquistata da Tehran. Gli iraniani hanno completato la loro parte di costruzione, mentre il Pakistan è indietro, sia per ritardi dovuti alla corruzione (altro grave problema del Paese) sia perché il gasdotto è osteggiato da uno dei suoi principali alleati, gli Stati Uniti, che considerano l’accordo una violazione delle sanzioni emanate per isolare l’Iran. L’accordo energetico era stato siglato dal Partito Popolare Pakistano all’epoca al governo, ma pure Nawaz Sharif ne ha bisogno se vuole rimanere in carica; ma, al contempo, può permettersi di chiudere le porte al cruciale alleato americano e ai suoi cospicui aiuti monetari? Sempre in tema di alleanze, ricordiamo come Nawaz Sharif sia stato a lungo ospite dell’Arabia Saudita, allorché esautorato come premier e cacciato da Islamabad negli anni ’90, e come durante questo dorato esilio abbia allacciato stretta amicizia non solo con i padroni di casa sauditi, ma pure con molti paesi del Golfo, i quali hanno tutti contribuito alla campagna elettorale della Lega Musulmana e al ritorno del Leone del Panjab sulla scena. Che cosa reclameranno, ora, questi generosi alleati? Di certo la rottura di ogni legame con l’Iran, loro acerrimo nemico, e poco male se intendono supplire loro l’energia di cui Islamabad ha bisogno; ma, purtroppo, le sunnite monarchie del Golfo hanno altresì ingaggiato una lotta senza quartiere contro gli sciiti. Reclameranno ora da Nawaz Sharif la stessa durezza da loro impiegata nei confronti dei sudditi sciiti, chiedendo a Islamabad di reprimere con forza questa fazione minoritaria? Se così fosse, il Pakistan si troverebbe in piena guerra civile, dilaniato dalla lotta tra sunniti e sciiti oltre che dalle crescenti tensioni ai confini con l’Afghanistan, dove comandano i Taleban verso i quali Sharif dimostra da sempre un atteggiamento ambiguo, così come si rivela tenero nei confronti di estremisti e gruppi militanti interni. Al momento, Nawaz Sharif si gode la vittoria, e, da politico consumato, parla solo di rinnovati accordi commerciali con il nemico di sempre, l’India, al quale aveva già ammiccato durante il suo mandato, prima di essere cacciato dai militari nel 1999. Del resto Nawaz Sharif è pure un abile e ricco commerciante e se non saprà fare il bene del suo Paese sarà senz’altro capace di aumentare le sue già considerevoli ricchezze.

pubblicato ne Il Giornale di Brescia 14/5/2013

Transgender candidati alla presidenza in Pakistan, imam che celebrano matrimoni: che succede nelle società islamiche?

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Due peculiari notizie riguardanti il mondo dell’islam stanno facendo il giro del mondo: a Washington, l’imam Daayiee Abdullah, pubblicamente dichiaratosi omosessuale già alla fine degli anni ’70, ha confermato di celebrare unioni matrimoniali tra gay della sua comunità; mentre, dall’altra arte del mondo, in Pakistan, fra i numerosi candidati al ruolo di Presidente della Repubblica vi sono pure due transgender, Sanam Faqeer e Bindiya Rama, che stanno conducendo la loro campagna politica fra i connazionali, in un Paese non certo all’avanguardia per quanto riguarda i diritti umani e di genere.

Per la gran parte dell’opinione pubblica internazionale, che tende a considerare l’islam omofobico, queste due notizie sono sbalorditive, al limite della attendibilità. I più sottolineano come gli omosessuali siano vittime di discriminazioni pesantissime all’interno dei paesi islamici, alcuni dei quali, come l’Arabia Saudita o l’Iran, prevedono addirittura la pena capitale per persone dello stesso sesso colte a consumare un rapporto carnale. Molti ricordano ancora l’affermazione del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad nel 2007, allorché dichiarò alla Columbia University “Noi in Iran non abbiamo omosessuali come ci sono qui», provocando l’ilarità dei presenti.

A credere che nei paesi musulmani l’omosessualità sia poco presente o frutto della corruzione occidentale non è, però, solo il presidente iraniano. Si tratta di una convinzione diffusa e radicata, e secondo gli attivisti che si battono per i diritti LGBT (lesbo-gay-bisex- trasgender) nel mondo musulmano è uno dei primi nodi da sciogliere.

Ma sull’omosessualità, come su moltissimi altri nodi cruciali riguardanti le società che cambiano, non vi è un approccio unico e negativo fra i musulmani, ma una vasta gamma di atteggiamenti e, soprattutto, di nuove interpretazioni religiose di cui tenta d’impadronirsi chi voglia conciliare fede e “diversità”. Vi sono oramai varie legittimazioni culturali che consentono di parlare apertamente di omosessualità in ambito islamico e addirittura di prendere in considerazione l’idea che non esitano solo due generi (maschile e femminile), ma che ne esistano altri, compresi in un grande disegno voluto dal Creatore. Lo scorso inverno, la grande moschea di Parigi si è aperta agli omosessuali, destinando loro uno spazio, che non è luogo di segregazione, ma di riconoscimento.

A Madrid, si è aperto un centro per omosessuali musulmani. Qualche mese fa, Salameh Ashour, esponente della Comunità islamica in Italia, ha dichiarato in una pubblica assemblea “siamo tutti figli di Dio e ognuno nel suo privato faccia quello che vuole”.

Sono tutti segni del cambiamento.

Fino a non molto tempo fa gli omosessuali dovevano scegliere se essere gay, magari considerati “ammalati” e quindi fuori dell’islam, o nascondere la propria natura. Oggi, questo schema vacilla. Molti omosessualisi considerano buoni musulmani, dunque non vogliono rinunciare alla loro identità religiosa, anzi non si pongono proprio il problema. Credono che per loro ci sia uno spazio dentro l’islam, e si stanno impegnando in questa direzione.

Ovviamente, la strada non è semplice. In alcuni stati conservatori, si è pensato di risolvere il nodo consentendo il cambio di sesso: ad esempio, in Iran, paradossalmente, non è possibile dichiararsi omosessuale, ma è possibile cambiare sesso, anche a spese dello Stato.

In tutti i paesi musulmani il discorso sull’omosessualità sta divenendo un nodo cruciale che consente di mettere in discussione i rapporti tra pubblico e privato; la concezione di religione intesa come devozione personale e la sua manipolazione come rigido controllo sociale; nonché il diritto a godere di piena cittadinanza e la negazione di questo diritto da parte del potere.

L’Italia e i rifugiati politici

razi mohebi

I Rifugiati politici , Cittadini del Nulla

I nodi ciechi e le porte chiuse.

Cosa significa essere rifugiato politico in Italia.

Quando non puoi cambiare la situazione lancia un sasso in mare e osserva la moltiplicazione dei cerchi sull’acqua, forse quel movimento porterà il tuo sussurro fino agli oceani.

Lo vedevo spesso nei vicoli del centro storico di Trento e in via Roma, nella biblioteca centrale della città. La mattina andava lì, lavava la sua faccia nel bagno, cercava un po’ di calore nel profumo del caffè e delle brioche del bar.

Gli chiedevo: “Come stai?”. Diceva: “Dalla mattina fino alla sera cerco lavoro senza trovare nulla, passo le notti in strada vicino alla stazione sopra i tombini dell’areazione per non congelarmi. Pranzo alla Caritas se arrivo in tempo”.

Poi si è perso. Chiedevamo a chiunque, ma nessuno sapeva nulla di lui. Un giorno abbiamo saputo che aveva richiesto asilo politico alla Svezia. Ancora mesi di silenzio, fino a quando ci dissero che volevano rimandarlo a Trento e che lui, per rimanere là, aveva tentato per tre volte il suicidio nel campo rifugiati. Alla fine l’ufficio competente svedese aveva accettato di prendere in considerazione il suo caso”.

Scriviamo questa lettera affinché il grido di sofferenza di un uomo sia di invito per i nostri concittadini a pensare alla situazione di decine di migliaia di altri esseri umani e più in generale alla condizione del rapporto fra gli uomini del nostro tempo. Come rifugiati politici che vivono in Italia da oltre cinque anni, siamo giunti alla conclusione di dover impugnare la penna e raccontare di quell’uomo indefinito: “Chi è il rifugiato politico? Cos’è l’asilo politico? Cosa significa chiedere quest’asilo all’Italia? Che significa per l’Italia dare questo asilo?”. Il rifugiato politico è l’emblema di tutte delle contraddizioni del mondo globale. Prigioniero di due stati, quello da cui è fuggito e quello che lo ha accolto, e di nessuna cittadinanza.

Un uomo costretto a vivere senza volto. Un fantasma che nel migliore dei casi trova di fronte a sé tre grandi porte chiuse. Infatti, ammesso che il suo corpo riesca a non diventare mangime per i pesci, o a non venir schiacciato dai camion cui si aggrappa per superare la frontiera, o che riesca ad affrontare tutti i confini visibili e invisibili fino ad arrivare in questa terra, una volta ottenuto l’asilo politico trova comunque di fronte a sé tre grandi porte chiuse.

La prima porta. Questa porta riguarda l’impossibilità in Italia di poter dare continuità a quell’attività politica e sociale per la quale il rifugiato ha rischiato la propria vita e per la quale è stato costretto ad abbandonare la terra d’origine, gli affetti e le sue proprietà. Chi entra a far parte della categoria di rifugiato politico non ha infatti la possibilità di continuare un’attività che mantenga le reti create precedentemente o che gli permetta di attivarne di nuove nel paese ospitante. Questo è il caso di giornalisti, attivisti, avvocati, registi e studenti che non hanno abbandonato il proprio paese alla ricerca di un miglioramento economico, ma con l’obiettivo di perseverare nelle loro attività politiche, sociali e culturali. Non potendo fare ciò, il loro sacrificio, e quello degli ex colleghi, dei familiari e degli amici rimasti nel paese d’origine, perde qualsiasi senso.

In un paese come l’Italia, privo di una legge organica in materia, nei migliori dei casi il rifugiato si vede costretto a vivere di piccoli sussidi che ne permettono la sopravvivenza ma non ne favoriscono la realizzazione personale. Si permette al corpo di sopravvivere mentre l’anima avvizzisce. Stiamo parlando di uomini e donne che hanno elevati titoli di studio, specializzazioni, spirito imprenditoriale, desiderio di restituire il favore dell’accoglienza arricchendo la società che li ospita. Persone dotate del carisma necessario per contrapporsi a regimi dittatoriali e sanguinari e che spesso hanno una tale forza d’animo da poter dare certamente un prezioso contributo a qualsiasi società. Eppure ogni loro intenzione, ogni loro energia propositiva e vitale è spenta dalla totale insensatezza del meccanismo burocratico che “gestisce” la loro nuova vita di non-cittadini. Un meccanismo che preferisce elargire sussidi, trovare lavori poco decorasi ma “controllati”, rinchiudere in alloggi “protetti” o superaffollati al permettere un’attiva realizzazione delle proprie aspirazioni.

La seconda porta. Questa porta è sbarrata dalla “Convenzione di Dublino” cui aderiscono 24 paesi europei e in cui si obbliga il primo paese ricevente a registrare le impronte digitali del richiedente e limitarne entro i propri confini la residenza, la circolazione e il lavoro: questo rende la condizione di asilo politico un esilio di fatto. Un regolamento criticato fortemente sia dal Consiglio Europeo per i rifugiati e gli esuli che dall’UNHCR in quanto incapace di tutelare i diritti fondamentali dei rifugiati. Ed è paradossale che in una società globale in cui tutto sembra potersi muovere liberamente (merci, notizie, stili di vita, contenuti culturali e mediali) le persone non abbiamo gli stessi “diritti di movimento”. Si sente spesso dire che in questo tempo le persone sono trattate come merci. Ma nel caso dei rifugiati politici lo status di “persona” sembra addirittura inferiore a quello di qualsiasi prodotto commerciale.

La terza porta. Questa porta è chiusa dall’impossibilità del ritorno in patria. I rifugiati si trovano costretti, così, ad ondeggiare in un limbo. Un limbo che più che una questione sociale o di dignità personale sta sempre più diventando un metro di civiltà. Secondo recenti dati Istat negli ultimi due anni, sul solco della crisi economica che ha colpito l’Italia, già 800.000 immigrati hanno deciso di lasciare il Paese per rientrare nei loro stati d’origine. E’ bene ricordare, anche se può sembrare tautologico, che il rifugiato politico a differenza degli immigrati non ha la possibilità di tornare nel proprio paese di origine nemmeno quando il paese “ospitante”, come nel caso di un’Italia in profonda crisi, versa in situazioni economiche e sociali che non ne permettono una vita dignitosa. Ed è soprattutto utile ribadire che sul limbo in cui fluttuano i rifugianti politici pende una duplice condanna sancita dalle mancanze dei governi dell’Unione Europea (Premio Nobel per la Pace 2012). Perché duplice condanna? In primis perché fuggono da conflitti o regimi dittatoriali direttamente o indirettamente sostenuti dagli stessi governi europei che, in secondo luogo, non hanno attuato politiche condivise ed efficaci per la loro accoglienza, inserimento e valorizzazione e per il rispetto della loro dignità. Fatto drammaticamente rilevante per l’Italia che, ad oggi, non ha ancora espresso una benché minima legge in materia. Attualmente l’Italia sta ospitando solo 58.000 rifugiati politici a fronte dei 570.000 ospitati dalla Germania. Eppure sembra solo quello italiano ad essere un caso emergenziale, sebbene i numeri ne smentiscano l’intensità.

Queste tre porte, serrate con l’efficacia del ferro e del cemento, sono tuttavia invisibili e non servono né pugni né baionette per aprirle. Solo poche parole d’ordine ne possono permettere magicamente l’apertura. Parole che però possono sciogliere questo incantesimo inumano solo se pronunciate a gran voce da tutta la società.

Queste parole d’ordine, che vorremmo sentire urlate a gran voce dalla società civile e dai mezzi di informazione, altro non sono che tre semplici provvedimenti: una legge organica per i rifugiati politici, l’abolizione della Convenzione di Dublino e l’accelerazione dei tempi burocratici per il diritto di cittadinanza. Senza queste tre parole d’ordine il rifugiato politico non potrà mai trovare un posto all’interno della società, non potrà mai conoscere i propri diritti doveri, non potrà mai essere un attore sociale attivo, non potrà contribuire ad arricchire la società che lo ha accolto e di cui fa parte. Ma rimarrà un cittadino del nulla. Senza cittadinanza altro non è che un “fantasma burocratico” in balia del semplice e puro assistenzialismo. Come un bambino intelligente e dotato costretto a rimanere tutta la vita in una culla. Sempre accudito, mai adulto.

Non potendo varcare le tre porte il rifugiato politico cade nel vuoto dei “tombini” lasciati aperti nelle strade. Viene risucchiato dai loro gorghi e scompare fra i rifiuti senza nemmeno passare per la raccolta differenziata.

La caduta passa attraverso quattro diversi gironi danteschi in cui il rifugiato si trova ad essere risucchiato in un movimento lento, graduale e inesorabile.

Il primo girone è rappresentato dagli enti locali – nel caso del Trentino dal Cinformi. Senza una legge organica il rifugiato politico percepisce subito gli enti locali come strutture imbalsamate e inermi di cui non è chiaro il ruolo né le direttive. Passata la fase emergenziale dell’accoglienza immediata (fase che può durare anche alcuni anni), il rifugiato politico viene poi spinto dagli enti locali nella bocca del secondo girone: quello delle agenzie per il lavoro.

In questo girone – quello in cui i condannati sono costretti a cercare un lavoro che non avranno mai – l’assenza della cittadinanza e l’impossibilità di potersi muovere liberamente nei diversi stati alla ricerca di un lavoro che corrisponda alle proprie inclinazioni crea il più grande dei circoli viziosi: la mancanza di offerte di lavoro dovuta alla crisi economica, infatti, obbliga all’assistenzialismo continuo, ultima via verso il margine della società.

Il terzo girone passa per le infinite vie degli assistenti sociali e dei loro tentativi di trovare alloggi protetti, case famiglia e lavori scartati dagli italiani.

L’ultimo girone, esaurite tutte le possibilità di inserimento, passa per il semplice meccanismo di soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza presso enti legati alla Chiesa, come ad esempio Caritas.

Il rifugiato entra così in una serie di circoli viziosi in cui ogni emergenza ne produce un’altra peggiore. Intendiamoci, nessuno dei livelli ha delle colpe o semplicemente delle mancanze specifiche. E’ l’intera impalcatura che non regge e che fa si che tutti navighino a vista e nessuno sappia realmente cosa fare. Sembra infatti sempre più evidente che nessuno dei livelli istituzionali (i gironi) sia realmente preparato ad intervenire nella gestione di questo fenomeno con strumenti adeguati e specificatamente studiati per i rifugiati politici. L’intervento generico e approssimativo in realtà ne facilita la caduta o crea nei migliori dei casi un sistema assistenzialistico a ciclo continuo che attraverso fondi europei, o quelli stanziati ad hoc per i casi emergenziali, arricchisce i gironi ma non redime le anime dannate.

Alla fine e nel fondo dei quattro gironi c’è la pace dei sensi (per le istituzioni) e l’inferno (per i rifugiati), ovvero: l’assenza di qualsiasi responsabilità.

Al di là della precarietà economica, la vera caduta nel vuoto è la fragilità mentale che consegue a tale trattamento e che, se non conduce necessariamente alla morte fisica, ne comporta di certo una psicologica: il rifugiato diventa un’anima morta in un corpo mobile e la società subisce il progressivo ingrandimento di un cimitero di corpi senza nome che camminano nella città, mangiano in chiesa e dormono per strada. Morti viventi cui è tolta la possibilità di creare rete e lavoro e che diventano così un pericolo per la società, oltre che per sé stessi. Il tombino va dunque chiuso dipingendo aperture sulle pareti. Solo attraverso una legge organica, e quindi istituzioni adeguate, si possono rompere questi circoli viziosi e creare uno spazio in cui l’asilo politico sia ponte tra i beni culturali e sociali di due paesi differenti.

Per quanto riguarda il nostro caso specifico di rifugiati politici, dopo più di cinque anni vissuti in Trentino abbiamo iniziato ad amare questa terra e a tessere con essa dei legami profondi. Una terra in cui abbiamo cresciuto nostro figlio che parla e si sente in tutto e per tutto italiano. Per lui il Trentino è il suo pianeta, la sua famiglia allargata e la sua infanzia. E’ una parte inseparabile del suo Sé sulla quale sta costruendo l’uomo che sarà un domani.

Una terra che inoltre abbiamo provato a vivere intensamente a livello sociale e culturale attraverso molteplici progetti: innanzitutto il “Progetto Afghanistan 2014” realizzato con la collaborazione del Forum per la Pace del Trentino, di Filmwork Trento e delle Fondazioni Fontana e Mehregan. Un progetto dai molti risvolti politici, sociali ed economici che coinvolge importanti attori esteri e locali e che si propone di fare del Trentino il centro internazionale di un profondo dialogo interculturale sul futuro dell’Afghanistan ma soprattutto su un futuro comune basato sulla cultura della pace. Altri progetti hanno invece riguardato più strettamente la nostra attività di registi. In questi anni abbiamo infatti prodotto e realizzato in Trentino diversi film e portato con orgoglio il nome della Provincia Autonoma di Trento alle oltre cinquanta proiezioni presentate all’estero e in altre regioni d’Italia anche in occasione di importanti kermesse e festival internazionali. Infine, da tre anni a questa parte abbiamo dato vita all’Associazione Sociocinema, nata in collaborazione con alcuni studenti della facoltà di sociologia dell’Università di Trento. Un’associazione che attraverso un workshop di cinematografia digitale, da noi tenuto, promuove l’uso di strumenti digitali per raccontare la realtà sociale.

Nonostante tutto ciò, nonostante i nostri sforzi per integrarci ed essere parte attiva del tessuto sociale che ci ha accolti, ci troviamo però nella situazione di dover continuamente scontrarci con gli innumerevoli ostacoli e le difficoltà che, come sopra descritto, ogni rifugiato si trova a dover affrontare in questo paese. Difficoltà che limitano la nostra capacità di agire in modo indipendente e di fronte alle quali tutte le istituzioni sembrano essere impotenti. Ed è proprio vista la mancanza di responsabilità manifestata a qualsiasi livello dalle istituzioni e data la situazione paradossale in cui ci troviamo, ad esempio quella di disporre di finanziamenti in Paesi esteri cui non possiamo accedere per il semplice motivo di non possedere una cittadinanza (finanziamenti che se sbloccati ci permetterebbero di generare progetti e ricchezza anche per la terra che ci sta ospitando) chiediamo la cittadinanza immediata. Una richiesta che non deve essere intesa nell’ottica dello scontro, ma come forma di resistenza non violenta e come strumento per poter diventare autonomi e indipendenti rinunciando a qualsiasi forma di assistenza. Chiediamo la cittadinanza immediata come atto d’amore totale verso il territorio e le persone che ci hanno accolto e in cui abbiamo investito molto, affettivamente e professionalmente. Vogliamo continuare a farlo, con ancora maggior trasporto e sentimento, ma da cittadini italiani.

Razi Mohebi

Soheila Mohebi

11 Aprile 2013

Fichi rossi afghani…

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L’Afghanistan ospita storie letterarie che si esprimono in lingue differenti, le cui principali sono la dari, una variante del persiano, e il pashto, anch’essa appartenente al ramo orientale delle lingue iraniche. Rispetto al consorella, la dari vanta una più cospicua tradizione letteraria che da secoli si interseca (per motivi storici e culturali) con quella dell’Iran propriamente detto. Se nei secoli scorsi il flusso dei letterati tra occidente iraniano e oriente indo-afghano era virtualmente reciproco, dipendendo spesso dal mecenatismo di cui facevano sfoggio i rappresentanti delle diverse dinastie insediati ora sull’altopiano iranico ora tra le montuose valli del centr’Asia, nelle ultime decadi è indubbio che sia l’Iran a rivelarsi ricettivo per gli scrittori nati in terra d’Afghanistan. L’invasione sovietica prima e il regime dei Taleban poi hanno spinto milioni di profughi nei paesi confinanti, ma è proprio in Iran che che alcuni intellettuali afghani hanno trovato la via per frequentare corsi di scrittura creativa e poi, seppur con fatica, quella per pubblicare le proprie opere.

Nei secoli passati la letteratura afghana, come molte altre dell’area, compresa quella persiana, era soprattutto costituita da poesia, ma negli ultimi anni la prosa, specialmente nella forma del racconto breve sembra aver preso il sopravvento fra gli scrittori afghani, almeno tra gli uomini, mentre le donne sembrerebbero ancora legate alla lirica.1

Tuttavia, le circostanze storiche e sociali sembrano aver travasato nella nuova letteratura prosastica una sua componente essenziale, e, in alcuni periodi preponderante, ovvero il fakhr: letteralmente “onore, orgoglio, vanto”, in passato era una vera e propria forma retorica esprimente in una parte dell’ode (o in tutta) una serie di minacce e di violenze contro il nemico. Certo nella nuova letteratura il fakhr non si esprime in forma attiva, non c’è alcun compiacimento da parte dello scrittore in soldatesche smargiassate auto celebrative, ma, piuttosto, c’è il passivo subire una infinita tragedia bellica di proporzioni epiche dalla quale non ci si riesce a liberare.

Indubbiamente, le buone penne come quella di Mohammad Hossen Mohammadi (Mazar-e Sharif, 1975) riescono a rispecchiare verità intrise di atrocità trasfigurandole nel lirismo, in dimensioni oniriche, in quel realismo magico in cui scrittori di tutto il mondo spesso si rifugiano per evitare censure, o, semplicemente, attenuare i propri dolori. Attenzione, però, la raccolta presente non è l’ennesimo libro fabbricato per l’Occidente, dove improbabili cacciatori di aquiloni mescolano una sapiente miscela di temi politically correct per non scontentare nessuno, o, peggio, per giustificare ingiustificabili guerre. Apparentemente, Mohammad Hossen Mohammadi non accusa nessuno, neppure i carnefici, a loro volte vittime, si limita a guardare con occhio dolente una umanità resa disumana dalle circostanze, senza esprimere giudizi. In questo senso, la sua letteratura sembra distaccarsi da quella di un suo collega contemporaneo col quale purtuttavia condivide molto, ovvero Mohammad Asaf Soltanzade, il quale nella sua raccolta Perduti nella fuga (2000) si esprimeva con vena più politica e polemica, seppur stemperando i giudizi in una rarefatta area di magia, e puntava il dito contro tradizioni barbare, superstizioni, interpretazioni pseudo-religiose assurde.2

Nei racconti di Mohammad Hossen Mohammadi, invece, apparentemente non c’è nulla di tutto questo, l’Autore scandaglia, pone dinnanzi all’occhio del lettore un panorama angosciante di bambini orfani, ragazzi mutilati, donne stuprate e/o costrette alla prostituzione per sbarcare il lunario, soldati crudeli e impauriti, gente comune la cui natura umana è stata perduta per sempre. Tuttavia, anche nella sua assenza il giudizio dello scrittore è presente: così, se la scusa generale per i mali dell’Afghanistan è quella dell’incombente presenza della “religione”, l’Autore ne cancella ogni traccia. Anche il nome di Dio non è che un ritornello usato da un mendicante per farsi fare la carità che diventa addirittura il suo nome (Allah…Allah); oppure ricorre come invocazione a un dio minore, un surrogato di talismano pagano che la traduttrice, opportunamente, rende con la minuscola.

I racconti di Mohammad Hossen Mohammadi sono scomodi, inquietanti, disturbanti, ciononostante, oltre a costituire un esempio di prosa artistica ci ricordano l’ingombrante ma insopprimibile presenza di milioni di persone il cui destino resta sospeso fra montagne gelide e deserti infuocati.

Anna Vanzan

1Su questo v. il mio “Il doppio esilio. La poesia delle afghane rifugiate in Iran”, in El Ghibli, 5, 22, 2008: http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_05_22-section_6-index_pos_1.html

2Mohammad Asaf Soltanzade, Perduti nella fuga, AIEP, S. Marino, 2002.

Fratelli Musulmani in difficoltà nelle elezioni universitarie. Ma dietro c’è altro…

AD20130306916626-A_protester_thr_340x227Le “primavere arabe” hanno scatenato una serie di conseguenze cruciali per il destino non solo dei Paesi coinvolti, ma, più in generale, di tutti quelli che comunemente vengono definiti “islamici”: una di queste è il dibattito sulla natura dei partiti islamici/islamisti e la loro (in)adeguatezza nel reggere le sorti politiche di un Paese.

Al di là, infatti, dell’interrogativo sulle garanzie democratiche (tutela delle minoranze, delle donne, delle libertà personali ecc) che i partiti islamici possono offrire, il vero banco di prova della loro capacità di governo è costituto dalla economia. In altre parole, fra gli elettori che hanno votato l’ En Nahda tunisino e i Fratelli Musulmani egiziani ve ne sono moltissimi che, pur magari preferendo un partito laico, hanno dato il voto a compagini che sembravano offrire maggiori garanzie di stabilità e, soprattutto, di capacità di traghettare i Paesi fuori dalla crisi economica. A due anni di distanza, il fallimento delle politiche economiche della dirigenza tanto tunisina quanto egiziana è sotto gli occhi di tutti: oltre al fatto di non essere stati capaci di implementare nessuna misura per combattere crisi e disoccupazione, nei partiti al potere permangono i vizi dei vecchi regimi, quali corruzione e nepotismo (ultima la notizia, qualche settimana fa, dell’ennesimo tentativo del Presidente Morsi di divenire il nuovo faraone, questa volta favorendo la nomina del figlio appena laureato a una posizione pubblica apicale).

Se i “laici” che hanno riluttantemente votato per i partiti islamici sono comprensibilmente arrabbiati, altrettanto delusi si dimostrano gli elettori un tempo convinti che En Nahda e i Fratelli Musulmani fossero almeno capaci di eliminare immoralità e disonestà. Tutto ciò sta incrementando la frustrazione delle popolazioni che hanno concorso al cambiamento epocale avvenuto in Tunisia e in Egitto, che ora scendono in piazza ormai con regolarità per inscenare la loro profonda insoddisfazione, mentre le élite dirigenziali mascherano la loro incapacità a colpi di “islamizzazione” della vita pubblica pensando, da una parte, di assicurarsi la benevolenza delle frange più estreme (tanto in patria quanto all’estero, fra i paesi sponsor dell’islamizzazione quali il Qatar e l’Arabia Saudita); dall’altra, di affermare la propria legittimità di partiti “sacri” e intoccabili.

Ma fra l’oltre 70% dei giovani egiziani che non hanno lavoro il mito dei Fratelli Musulmani è in declino: votati soprattutto perché per decadi hanno sostituito lo stato nell’assistenza sociale e sanitaria nei confronti della popolazione bisognosa, i Fratelli Musulmani si sono rivelati però incapaci di creare posti di lavoro e opportunità. Siamo lungi dal sostenere che ciò provocherà una disaffezione generale per i partiti islamici nell’area, ma, di certo, il mito della soluzione offerta dall’islam politico ai problemi delle società arabe e non rischia di infrangersi proprio a seguito delle “primavere arabe” liquidate da qualche osservatore come “primavere islamiste”.

L’islamismo politico, che come struttura organizzata ha conseguito successi cospicui, posto alla prova della gestione di un paese si sta rivelando fallimentare: le ideologie, infatti, non bastano a confermare il consenso, soprattutto in realtà dove lo scontento sociale ormai sconfina pericolosamente in una frustrazione dagli effetti potenzialmente esplosivi e destabilizzanti.