Le “primavere arabe” hanno scatenato una serie di conseguenze cruciali per il destino non solo dei Paesi coinvolti, ma, più in generale, di tutti quelli che comunemente vengono definiti “islamici”: una di queste è il dibattito sulla natura dei partiti islamici/islamisti e la loro (in)adeguatezza nel reggere le sorti politiche di un Paese.
Al di là, infatti, dell’interrogativo sulle garanzie democratiche (tutela delle minoranze, delle donne, delle libertà personali ecc) che i partiti islamici possono offrire, il vero banco di prova della loro capacità di governo è costituto dalla economia. In altre parole, fra gli elettori che hanno votato l’ En Nahda tunisino e i Fratelli Musulmani egiziani ve ne sono moltissimi che, pur magari preferendo un partito laico, hanno dato il voto a compagini che sembravano offrire maggiori garanzie di stabilità e, soprattutto, di capacità di traghettare i Paesi fuori dalla crisi economica. A due anni di distanza, il fallimento delle politiche economiche della dirigenza tanto tunisina quanto egiziana è sotto gli occhi di tutti: oltre al fatto di non essere stati capaci di implementare nessuna misura per combattere crisi e disoccupazione, nei partiti al potere permangono i vizi dei vecchi regimi, quali corruzione e nepotismo (ultima la notizia, qualche settimana fa, dell’ennesimo tentativo del Presidente Morsi di divenire il nuovo faraone, questa volta favorendo la nomina del figlio appena laureato a una posizione pubblica apicale).
Se i “laici” che hanno riluttantemente votato per i partiti islamici sono comprensibilmente arrabbiati, altrettanto delusi si dimostrano gli elettori un tempo convinti che En Nahda e i Fratelli Musulmani fossero almeno capaci di eliminare immoralità e disonestà. Tutto ciò sta incrementando la frustrazione delle popolazioni che hanno concorso al cambiamento epocale avvenuto in Tunisia e in Egitto, che ora scendono in piazza ormai con regolarità per inscenare la loro profonda insoddisfazione, mentre le élite dirigenziali mascherano la loro incapacità a colpi di “islamizzazione” della vita pubblica pensando, da una parte, di assicurarsi la benevolenza delle frange più estreme (tanto in patria quanto all’estero, fra i paesi sponsor dell’islamizzazione quali il Qatar e l’Arabia Saudita); dall’altra, di affermare la propria legittimità di partiti “sacri” e intoccabili.
Ma fra l’oltre 70% dei giovani egiziani che non hanno lavoro il mito dei Fratelli Musulmani è in declino: votati soprattutto perché per decadi hanno sostituito lo stato nell’assistenza sociale e sanitaria nei confronti della popolazione bisognosa, i Fratelli Musulmani si sono rivelati però incapaci di creare posti di lavoro e opportunità. Siamo lungi dal sostenere che ciò provocherà una disaffezione generale per i partiti islamici nell’area, ma, di certo, il mito della soluzione offerta dall’islam politico ai problemi delle società arabe e non rischia di infrangersi proprio a seguito delle “primavere arabe” liquidate da qualche osservatore come “primavere islamiste”.
L’islamismo politico, che come struttura organizzata ha conseguito successi cospicui, posto alla prova della gestione di un paese si sta rivelando fallimentare: le ideologie, infatti, non bastano a confermare il consenso, soprattutto in realtà dove lo scontento sociale ormai sconfina pericolosamente in una frustrazione dagli effetti potenzialmente esplosivi e destabilizzanti.