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E’ la fine di Erdogan?

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Dopo circa dodici anni di potere, “Re Erdoḡan” o “il dittatore” com’è comunemente chiamato dai turchi che sempre più malvolentieri  sopportano il loro Primo Ministro,  sembra proprio aver concluso la sua straordinaria carriera politica. Certo continua a poter contare su uno zuccolo duro di sostenitori, tant’è che pensa di presentarsi all’appuntamento elettorale di agosto  come candidato alla Presidenza  della Turchia, ma è altrettanto indubbio che non solo il rampante Primo Ministro ha imboccato l’inesorabile strada del declino politico, ma, soprattutto, che l’offuscamento della sua immagine corrisponde ad una parallela opacizzazione dell’immagine della stessa Turchia. In questi ultimi anni,  Erdoḡan s’era imposto come arbiter di molte situazione  critiche in Medio Oriente: ha fatto da mediatore tra l’Europa e l’Iran e tra questo e i Paesi Arabi del Golfo; s’è eretto a unico difensore dei siriani contro Bashar Assad, ospitando in Turchia milioni di profughi e ha più volte contestato Israele, rompendo un’alleanza  pluri decennale tra  Ankara e Telaviv. Proponendo, poi, suo Paese come unico possibile modello di  conciliazione tra anima religiosa e necessità delle modernizzazione, Erdoḡan era divenuto il leader ideale del mondo tanto musulmano quanto occidentale.

                  Adesso  Erdoḡan sembra avere rovinato tutto: la sua repressione  del movimento di protesta  per l’abbattimento del parco Gezi a Istanbul l’ha reso estremamente impopolare sia in patria sia all’estero. In Turchia, il suo coinvolgimento in casi di corruzione riguardanti l’edilizia gli ha alienato la simpatia di moltissimi cittadini, delusi dal fatto che il Primo Ministro, dopo aver trasferito le forze di polizia che avevano scoperto la corruzione dei figli di tre ministri , si sta comportando allo stesso modo con gli investigatori che hanno rivelato le recenti intercettazioni  ove Erdoḡan impartisce al figlio istruzioni per occultare ingenti somme. Ovviamente, non si tratta solo del fattore etico; se la cementizzazione della Turchia ha scosso  l’anima ecologista del Paese, la crisi economica  e la bolla edilizia hanno portato alla ribalta il ruolo di master  mind della speculazione giocato dal Primo Ministro. E’ vero che l’ascesa politica di Erdoḡan ha coinciso con l’esplosione economica del Paese, i cui consumi sono quadruplicati grazie anche al bassissimo tasso d’interesse praticato dalle banche, fortemente voluto dal Primo Ministro quale applicazione delle norma shariatica che equipara i tassi d’interesse elevati all’usura. Tuttavia, la spinta all’espansione edilizia ha creato in Turchia una bolla paragonabile a quella creatasi in occidente negli anni scorsi, con le medesime nefaste conseguenze. L’inflazione è cresciuta così come il debito estero (soprattutto nei confronti degli Stati Uniti che fino ad oggi hanno pompato l’economia turca con milioni e milioni di dollari )  mentre  la confidenza dei cittadini nelle possibilità economiche del loro Paese  è nettamente diminuita.

                  In questo clima di crisi politica, economica e sociale le elezioni amministrative del 30 marzo  assumono un peso fondamentale. Le urne daranno chiare indicazioni sull’umore dei  turchi e poco varrà al Primo Ministro il suo cercare di nascondere la verità oscurando  il web. Queste misure liberticide, infatti, non fanno, da un lato, che accrescere l’insofferenza nei confronti de  “il dittatore”; dall’altro, ne mettono in luce la sua attuale preoccupazione.

da Giornale di Brescia 24/3/2014

Quote rosa e tradimenti

28560790_italicum-il-voto-slitta-dopo-il-funerale-delle-quote-rosa-che-renzi-manterr-0...quando le nazioni riescono finalmente a liberarsi, alle donne si chiede di fare un passo indietro in nome dell’unità nazionale. I diritti delle donne sono un genere di lusso che possono attendere fintanto che sia completato  il processo di nation building; di conseguenza, le donne che hanno contribuito alla caduta del colonialismo rimangono escluse non solo dalla condivisione del potere politico, ma pure da un giusto riconoscimento dei loro diritti fondamentali

Ho scritto queste considerazioni in un articolo a proposito dei movimenti femministi nei paesi colonizzati in Nord Africa e Medio Oriente negli anni ’50. Ma purtroppo queste parole si adattano alla situazione italiana dei nostri giorni.

 

Rouhani’s “American Boys”

Rohani-first-cabinet-session-1Strano paese l’Iran, dopo che i suoi capi hanno trascorso oltre 30 anni a gridare “morte all’America” si ritrova un governo i cui ministri hanno un dottorato conseguito negli Stati Uniti, o in Europa. Javad Zarif, ad esempio, Ministro degli Esteri, ha conseguito il suo dottorato a Denver; Akbar Salehi, negoziatore per il nucleare, ha ottenuto il suo PhD in ingegneria nuclear al MIT; Mohammad Vaezi, Ministro delle Comunicazioni, ha un dottorato conseguito all’Università di Varsavia, ma ha studiato prima in vari atenei americani; Ali Akhoundi, Ministro dei Trasporti, ha ottenuto il suo PhD a Londra.

Lo stesso Rouhani ha un dottorato ottenuto all’Università di Glasgow, dove ha studiato e si è dottorata (in diritto internazionale) pure Elham Amimzadeh, una dei vice Presidenti iraniani. Lo staff del Presidente è diretto da Mohammad Nahvandian, PhD in economia presso la Geroge Washington University, negli Stati Uniti…

Chissà se anche i consiglieri di Obama hanno una formazione internazionale. Ah no, non ne hanno bisogno, infatti si vede dai risultati della politica estera americana in queste decadi….

Iran, 35 anni di Rivoluzione

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La Repubblica Islamica d’Iran festeggia in questi giorni il suo 35° anniversario di vita. Quello che era diventato un rituale che si ripeteva stancamente e non senza contestazioni nel mese di febbraio di ogni anno, quest’anno sta assumendo un aspetto diverso, in quanto l’Iran si è scrollato di dosso il ruolo di paria del mondo ricoperto per decadi, e gli iraniani ricominciano a sperare. Il Presidente Rouhani è apparso in questi giorni in televisione, elencando soddisfatto una serie di successi riportati nel breve periodo del suo mandato (circa sei mesi), quali l’accordo sul nucleare di Ginevra, la serie di visite da parte di alte cariche di stati stranieri (inclusa l’Italia) e la lunga teoria di aziende e enti internazionali pronti a riprendere gli scambi commerciali e imprenditoriali con Tehran, dopo un blocco durato anni causa delle sanzioni lanciate contro l’Iran proprio a causa del suo contestatissimo programma nucleare. Ciò che è stato apprezzato nel discorso del Presidente non sono solo i suoi successi e il suo atteggiamento di dialogo con i cittadini, ma anche il fatto che egli non ha negato l’elenco dei problemi gravissimi che il Paese deve affrontare, quali la disoccupazione, l’inflazione, il tasso d’inquinamento assai critico soprattutto nella capitale, nonché la cronica carenza di benzina e di combustibile, un paradosso in una nazione che dispone di ingenti risorse del sottosuolo. L’economia iraniana rimane estremamente vulnerabile, a causa della sua dipendenza dal petrolio, fattore che rappresenta forse il maggiore fallimento di questi 35 anni di politica, non avendo saputo adeguare le infrastrutture petrolifere.

Rouhani ha chiesto agli iraniani di avere pazienza. E che i problemi non saranno di soluzione immediata è stato sottolineato dal fatto che la trasmissione televisiva è stata ritardata rispetto a quanto programmato (ovvero, boicottata), particolare che il Presidente ha menzionato varie volte nel suo discorso, senza esplicitarne i motivi, ma facendo così capire che i nemici del suo operato sono, in primis, domestici. Il responsabile ultimo della televisione di stato è la Guida Suprema, Khamenei, il quale, vuoi perché il Presidente gli sta rubando la scena, vuoi perché egli è comunque espressione e rappresentante dei falchi locali, potrebbe aver fatto in questo modo intendere il proprio dissenso nei confronti dell’opera di Rouhani. Quest’ultimo, invece, legato alle principali figure moderate del Paese, tanto laiche quanto religiose, sembra ignorare la sfida postagli dai conservatori, contando piuttosto sul supporto della popolazione. Paradossalmente, la Repubblica Islamica ha creato una società “laica” in cui la religione è soprattutto una questione personale, una società giovane che contesta gli ideali rivoluzionari di un tempo, altamente istruita, urbanizzata e tecnologizzata, in cui le donne rappresentano un segmento cruciale, assai diversa da quella di 35 anni fa. Questa società mal sopporta tanto le costrizioni liberticide interne, quanto di essere il bersaglio della “iranofobia” che continua ad essere alimentata soprattutto dai falchi statunitensi; e intravede in Rouhani il leader in grado di traghettare il Paese fuori dall’impasse.

da Giornale di Brescia 10/2/2014

Finanziamenti dal Golfo, cultura, diritti umani, islam e “noi”

qatar-3La notizia che l’emiro del Qatar sarebbe pronto a finanziare l’apertura di un museo di arte islamica a Venezia ha provocato sconcerto, soprattutto in seno a partiti non favorevoli al mondo musulmano in generale, i cui esponenti ravvedono, alla base dell’impresa, non tanto un progetto culturale, quanto un disegno per allargare l’influenza dell’islam in Italia, mascherando questa espansione in abiti artistici. Insomma, il museo costituirebbe, secondo tale visione, una sorta di novello cavallo di Troia che porterebbe l’islam ufficialmente nel cuore del nostro Paese. Altre voci, non solo di politici, accolgono favorevolmente il piano, sottolineando come altre nazioni europee (quali la Francia) abbiano già intrapreso progetti di joint venture artistiche con i paesi del Golfo e come Venezia, con il suo passato di ponte verso il mondo ottomano, ben si presti a divenire la sede per tale opera.

            Al di là delle considerazioni puramente culturali, è ovvio che si tratti di un’operazione politico-economica, i cui protagonisti hanno intenti ben precisi: noi, di avere finanziamenti e rapporti privilegiati con il ricco paese arabo; il Qatar – o, meglio, la sua dirigenza – di avere a disposizione un’ennesima vetrina dove accreditarsi internazionalmente, facendo dimenticare (per chi volesse farlo) i numerosi abusi di diritti umani perpetuati all’interno dei patri confini.

            Certo in questa machiavellica operazione in cui da un lato ci facciamo promotori dei diritti umani internazionali, dall’altro ignoriamo i soprusi compiuti da governi amici (ovvero quelli con cui intratteniamo rapporti economici) non siamo i soli; sotto l’insegna di pecunia non olet, la FIFA ha chiuso gli occhi sugli incredibili prevaricazioni compiute nei riguardi dei lavoratori già da parecchi mesi impiegati (o, meglio, schiavizzati) nelle faraoniche costruzioni destinate a ospitare i mondiali di calcio che si svolgeranno in Qatar nel 2022. Solo recentemente, dopo che, tra gli altri, l’autorevole The Guardian si è lanciato in una campagna di denuncia delle terribili condizioni in cui sono tenuti gli operai provenienti perlopiù dal sud est asiatico che stanno lavorando alle strutture calcistiche qatariane, la FIFA ha richiesto a Doha di dare tangibili prove del miglioramento delle condizioni dei lavoratori migrati. Che la situazione sia particolarmente grave è testimoniato dal fatto che la stessa dirigenza di Doha ha ammesso la morte di 185 operai avvenuta nel 2013 solo nella comunità nepalese; di questo passo, si potrebbe arrivare alle porte dell’evento 2022 collezionando parecchie miglia di vittime del lavoro. Le morti sono causate soprattutto dalle pessime condizioni igienico sanitarie degli alloggiamenti dei lavoratori, veri alveari dal sistema fognario e sanitario pessimi. Gli operai sono costretti a lavorare con turni massacranti, in ambienti spesso caldissimi; ironia della sorte, questi uomini costruiscono stadi avveniristici dove le torride temperature dell’estate 2022 dovrebbero essere mitigate da climatizzatori, lavorando privi di qualsiasi sistema di ventilazione con temperature impossibili.

            Qatar, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo stanno progressivamente comperando istituzioni e imprese nei paesi europei, ospitando, nel contempo, istituzioni e imprese europee nei loro territori, seguendo il basilare principio secondo il quale gli arabi pagano e gli europei si fanno comperare. In questo gioco di mercato, l’islam non c’entra, c’entrano solo la “loro” voglia di egemonia e la “nostra” cupidigia.

 da Giornale di Brescia 7/2/2013

Ho letto l’art di Sofri dulle donne di Tehran….

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Solitamente non innesco polemiche, ma l’articolo apparso sulla Repubblica di oggi a firma di Adriano Sofri mi ha fatto veramente arrabbiare. Nella tradizione del peggior giornalismo, dopo mezz’ora che è in Iran Sofri ha già capito tutto: in realtà, le informazioni fornite non sono poi delle novità. Ci illumina sul fatto che i persiani non sono arabi (grazie); ci ammanisce le solite statistiche sulle donne iraniane colte, istruite, che guidano ecc; e preannuncia che le ragazze avranno una parte nelle ribellioni contro l’establishment. Peccato poi che, nonostante la sua presunta crociata a favore delle iraniane, scivoli nel solito commento orientalista: una delle giornaliste locali che sono con lui alla conferenza stampa Bonino-Zarif, sentendo che la nostra Ministra degli Esteri loda la professionalità delle giornaliste iraniane, si apre in un “sorriso infantilmente felice, come per un regalo“. Ho già letto questo commento in un resoconto di viaggio francese del XVIII secolo: basta così, et de hoc satis.

 

Perchè non piace la pace con l’Iran

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Come prevedibile, l’accordo, per quanto provvisorio, sul programma nucleare iraniano siglato tra la Repubblica Islamica d’Iran e le potenze occidentali, è in pericolo. Con esso è in periglio il progetto di pacificazione in Medio Oriente, che appoggia sul riposizionamento dell’Iran come fulcro e motore d’ogni tensione nell’area. In questi anni, infatti, l’Iran è stato investito di responsabilità più o meno reali, relative a ogni crisi scoppiata attorno ai suoi confini: dagli attentati in Iraq (della cui perenne destabilizzazione s’incolpa Tehran e i suoi aiuti alla leadership sciita); alla guerra civile siriana (in cui l’Iran è accusato d’appoggiare incondizionatamente Bashar al Asad); alle continue crisi libanesi (uno dei cui protagonisti, il partito Hezbollah, è una “costola” della Repubblica Islamica); per finire in Afghanistan, dove è impantanata la forza internazionale, impossibilitata però a stringere una necessaria alleanza con Tehran che sarebbe certamente foriera di positivi cambiamenti.

E’ soprattutto negli Stati Uniti che trova favore il partito “anti-Iran”, per il quale il Paese dell’altopiano è un nemico ormai storico e che imputa a Tehran ogni avvenimento negativo; i sostenitori di questa teoria sostengono che la Repubblica Islamica rappresenta una minaccia per Israele, che la tregua dell’accordo consente all’Iran di congelare il proprio programma ma di non eliminarlo, e, soprattutto, che l’accordo ha riportato l’Iran al centro della diplomazia internazionale, sdoganandolo da “stato canaglia” e rifacendogli nutrire ambizioni di protagonista in Medio Oriente.

In effetti, la costruzione dell’Iran quale “nemico” internazionale ha avuto una leggera scossa lo scorso 24 novembre, e anche se l’intervento sulle sanzioni è così minimale da non poter avere profondi benefici effetti sull’economia iraniana, il suo valore simbolico è altissimo, tanto per la politica internazionale quanto per quella domestica iraniana. Ad esempio, il successo dell’accordo di Ginevra ha consentito al Presidente Rouhani, suo principale sponsor, di intervenire pesantemente sull’amministrazione locale, sostituendo quasi tutti i governatori delle province, appartenenti all’ultraconservatore Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, per sostituirli con civili di comprovate abilità. Conoscendo inoltre il poco gradimento riscosso nei paesi arabi circostanti, il governo di Tehran ha rimesso in piedi i negoziati per restituire quanto prima agli Emirati le tre isole situate nel golfo di Hormuz, importante check point petrolifero, oggetto di contesa fin dai tempi del deposto shah. Il fronte arabo anti-Iran, prima compatto, ha ricevuto una scossa pure grazie al rifiuto del sultano dell’Oman di far parte di un’eventuale coalizione araba in funzione anti Repubblica Islamica: “siamo in una fase storica in cui il mondo ha bisogno di pace e stabilità” ha dichiarato qualche giorno fa Yousif al Ibrahim, ministro degli esteri omanita.

Certo l’accordo sul nucleare comporta alcuni rischi, ma gli scettici dovrebbero porsi il quesito se i rischi della negoziazione siano maggiori del continuare a tenere un paese come l’Iran sotto scacco minacciando di bombardarlo. I negoziati meritano una chance e così la pace nel mondo.

da Giornale di Brescia 15/12/2013

Iran e accordo nucleare: un commento “da parte iraniana”….

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A Tehran si festeggia. Finalmente, l’accordo raggiunto a Ginevra tra la Repubblica Islamica d’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio delle Nazioni Unite concede all’Iran di alleggerire il peso delle sanzioni internazionali in cambio di una limitazione del proprio programma d’arricchimento dell’uranio. Per quanto fragile, quest’accordo permette all’Iran di allontanare la minaccia di una guerra internazionale nei propri confronti, ma, soprattutto, di rientrare nel giro internazionale. Il nuovo ruolo dell’Iran sarà di beneficio a tutti, e se Tehran potrà ricominciare a vendere il proprio petrolio, facendo ridecollare la languente economia, il nuovo canale di diplomazia e dialogo aperto con gli Stati Uniti potrebbe portare a una collaborazione volta a comporre i conflitti tutt’ora aperti in zone calde quali l’Iraq, la Siria e l’Afghanistan. I due recentissimi attacchi suicidi compiuti ai danni dell’ambasciata iraniana a Beirut hanno dimostrato come nessuno nell’area medio orientale allargata si salvi dal complesso di forze reazionarie e terroristiche (Al Qaeda, salafiti ecc.) che operano contro chiunque, occidentale o no, si frapponga ai loro obiettivi. Paradossalmente, Stati Uniti e Iran condividono ora un interesse comune contro le centrali di terrore che sono proliferate soprattutto dopo la guerra in Iraq.

Tehran festeggia perché l’accordo è stato raggiunto senza umiliazione, cosa che più paventava. Non per nulla, solo pochi giorni fa la Guida suprema Khamenei, mentre i suoi diplomatici erano già seduti al tavolo delle trattative di Ginevra, aveva sferrato un ennesimo attacco nei confronti degli Stati Uniti dichiarando che mai e poi mai il suo Paese si sarebbe piegato cedendo il proprio diritto ad acquisire il nucleare per scopi civili. I recenti eventi, invece, dimostrano coma la sparata di Khamenei fosse una sorta di rito esorcistico, visto che si è precipitato a congratularsi col Presidente Rouhani per l’accordo raggiunto, considerandolo “la base per ulteriori saggi sviluppi”. Rouhani, a sua volta, ha ringraziato Khamenei per il ruolo di guida e supporto svolto durante il lungo ed estenuante negoziato. Quest’accordo rappresenta un importante rafforzamento della posizione interna di Rouhani, il quale in soli 100 giorni di mandato è riuscito a ricomporre un conflitto che durava da oltre dieci anni. E’ stato proprio il Presidente Rouhani, coadiuvato dal suo Ministro degli Esteri, Zarif, infatti, a tessere le trame per un nuovo rapporto con le potenze occidentali, dopo la disastrosa esperienza del suo successore Ahmadinejad. Il nuovo razionalismo di Rouhani gli ha consentito dapprima di recarsi alle Nazioni Unite come ambasciatore di un “new deal” iraniano, quindi di stabilire un contatto telefonico con il suo corrispettivo americano, Obama, e finalmente di portare a casa l’accordo sul nucleare.

Che a Tehran si respiri aria nuova sul fronte diplomatico è dimostrato pure dal fatto che, sollecitato ad esprimere un proprio giudizio sull’ostilità israeliana (Netanyahu ha definito l’accordo sul nucleare “un errore storico”) e saudita nei confronti della raggiunta intesa, il Ministro degli Esteri iraniano Zarif ha prudentemente commentato che quanto stabilito a Ginevra è positivo e foriero di benefici per il Medio Oriente e per tutto il mondo indistintamente, quindi non vi è nessuna giustificazione per affermare il contrario. Per la diplomazia iraniana il tempo degli slogan contro tutti sembra finito, almeno momentaneamente.

Iran e US: troppi falchi

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Per Stati Uniti e Iran è tempo di raggiungere un accordo sul nucleare. Se il Presidente iraniano Rouhani ne ha impellente necessità per far uscire il suo Paese dall’impasse economica determinata dalle sanzioni, Obama ne ha urgenza per chiudere definitivamente la possibilità di un confronto militare di cui sarebbero ritenuti responsabili gli Stati Uniti, e che avrebbe conseguenze catastrofiche per il mondo intero.

Pure, ci sono i falchi dei rispettivi Paesi che remano contro a un sempre più vicino accordo: se a Washington un gruppo di senatori minaccia l’Iran di nuove sanzioni, a Tehran nei giorni scorsi s’è celebrato il 34° anniversario della presa dell’ambasciata americana da parte dei rivoluzionari khomeinisti, che hanno riempito l’aria della inquinata capitale con slogan di “morte all’America”. Che a Washington la lobby delle armi e della guerra sia sempre all’opera è risaputo; meno conosciuta è la situazione all’interno dell’Iran, dove negli ultimi mesi sembrava che l’antico odio verso il “grande Satana” (ovvero, gli Stati Uniti) si fosse dissolto, e che merita quindi una riflessione.

Rouhani, si sa, ha avviato un nuovo rapporto con Washington fatto di diplomazia e avvicinamento; questo new deal è incoraggiato dal leader supremo, Khamenei, acerrimo nemico degli USA da sempre, ma che, ultimamente, con il pragmatismo tipico della leadership politica iraniana, ha dato il suo beneplacito alle trattative sul nucleare, senza intervenire in prima persona, ma lasciando che sia il neo Presidente a esporsi. Tuttavia, quest’ultimo, è bene ricordarlo, senza l’appoggio di Khamenei non andrebbe molto lontano.

La nuova Presidenza ha comportato, tra le altre cose, la rimozione degli ultimi murales anti USA, ormai sbiaditi, su alcuni edifici nella capitale iraniana. Ma alcuni gruppi di irriducibili, quali il Corpo della Guardie Rivoluzionarie e i Basij (sorta di milizia para militare formatasi nei primi giorni della Rivoluzione) hanno rilanciato la sfida a Rouhani e compagni, istituendo un premio per la miglior opera visiva che celebri l’anti americanismo internazionale (Grande Premio“Morte all’America”), nonché organizzando la manifestazione di protesta contro gli Stati Uniti tenutasi il 4 u.s.

Tutto ciò conferma, ancora una volta, come il regime iraniano sia frammentato, fin dal suo incipit, causa le diverse ideologie sottostanti ai vari movimenti unitisi per attuare la Rivoluzione Islamica del 1978-79. Il potere è retto da un sistema in cui diverse elite si combattono quotidianamente, unite solo da un unico desiderio di controllare la società, e che, paradossalmente, sono tenute in vita proprio da questa dialettica. In questo momento i gruppi che contrastano Rouhani e la sua politica riformista cercano di sbilanciare la tensione e l’attenzione sulla politica estera, per far fallire il negoziato con gli Stati Uniti e ridurre le pretese del riformisti. Questi ultimi, infatti, stanno lavorando non solo sul fronte esterno, ma soprattutto, su quello interno, creando vasto consenso tra la popolazione. Il giorno della manifestazione anti USA, il ministro della Cultura, Ali Jannati, ha annunciato il suo piano per legalizzare definitivamente i social network (il cui accesso, al momento, è inficiato dalla censura e da continue interruzioni di servizio); mentre altri collaboratori scelti da Rouhani stanno coinvolgendo organi governativi e ONG per attuare riforme nei confronti della censura non solo nei confronti di manifestazioni culturali (stampa, letteratura, arti varie) ma anche per sollevare la stretta sulla vita quotidiana dei cittadini.

Tutto ciò è avversato dai falchi, che temono la riduzione del loro potere mantenuto tramite una politica del terrore.

Nella negoziazione sul nucleare, quindi, non contano solo il numero delle centrifughe concesse a Tehran o delle pur necessarie visite degli ispettori AIEA agli impianti iraniani; è in gioco un futuro migliore per decine di milioni di iraniani e per il mondo intero.

da  10/11/2013.