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Ancora elezioni in Kuwait, paese “democratico”

Febbraio: si vota in Medio Oriente. L’Egitto va verso il secondo turno parlamentare, in attesa di eleggere il presidente in marzo; il presidente dello Yemen dovrebbe essere eletto il 21 e pure la Siria dovrebbe andare alle urne per il Parlamento entro fine mese. Condizionale d’obbligo, vista la situazione dei Paesi.
Già avvenute, il 2, invece, le elezioni in Kuwait, Paese cui tutto il mondo guarda con interesse: la piccola monarchia, infatti, possiede il 10% di riserve del greggio e, dopo le sanzioni contro l’Iran, l’oro nero kuwaitino acquista valore. L’Italia è particolarmente coinvolta, basti pensare che la Kuwait Petroleum è partner al 50% di Agip nella raffineria di Milazzo, e che sul nostro territorio operano oltre 2.600 stazioni Q8.
Gli elettori del Kuwait hanno votato tre volte in tre anni, e quest’ultimo appello è dovuto all’ennesima crisi tra Governo e Parlamento che dura da 2 anni. La crisi, quindi, precede le primavere arabe e senz’altro è differente (come ogni altra); ma il vento di primavera è arrivato al Golfo, con proteste nel 2011 anche nelle pacifiche strade di Kuwait City.
Nonostante il Kuwait si vanti come Paese più democratico del Golfo, il Governo non ha ci pensato due volte ad arrestare un ingente numero di attivisti che protestavano per la corruzione di una dozzina di parlamentari, rei di aver preso mazzette dal Governo in cambio del loro supporto. Cifre da capogiro: si parla di 90 milioni di dollari pagati dalla Banca nazionale ad almeno due parlamentari.
Scopo degli attivisti, inoltre, è puntare l’attenzione sulla necessità di democratizzare il sistema: formare partiti, ora proibiti; elezioni anche per il premier, ora carica garantita a un membro della famiglia reale Sabah; eliminare la prerogativa dei membri del Governo di partecipare alle riunioni parlamentari con diritto di voto: 15 ministri hanno infatti diritto a partecipare con voto alle riunioni dei 50 parlamentari eletti, una percentuale inquietante.
Il frequente ricorso alle urne, quindi, non solo non è prova di democrazia in Kuwait, ma ne rivela le falle. In mancanza di partiti, l’opposizione s’organizza in movimenti, specie giovanili, da quelli di stampo «liberal-occidentale» fino a quelli affiliati ai Fratelli Musulmani. La gioventù condivide molte delle caratteristiche viste nei Paesi protagonisti delle rivolte del 2011: bersaglio principale è la corruzione, scopo è raggiungere maggiori diritti costituzionali e democratici. Rispetto ai colleghi a Tunisi o al Cairo, i kuwaitini debbono affrontare anche altri problemi: le tensioni urbane e tribali, alimentate dal fatto che la componente tribale, dipendente da sussidi e impieghi statali, è in perenne frizione con l’élite mercantile. È anche aumentata la tensione tra sunniti e sciiti che, fortunatamente non al livello del vicino Bahrain, è comunque fattore di rischio.

questo articolo è apparso nel Giornale di Brescia del 5/2/2012.