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le donne ingranano la quarta in Arabia Saudita…
Arabia Saudita: non tutti sono felici per il new deal iraniano….
Quello che si è aperto a Ginevra è il più carico di aspettative fra tanti negoziati avvenuti in questi ultimi anni tra l’Iran e il blocco di potenze occidentali che contestano a Tehran il suo programma nucleare. Il parziale riavvicinamento fra stati Uniti e Iran avvenuto il mese scorso nella sede newyorkese dell’ONU unito alle aperture tanto verbali quanto tangibili effettuate da parte della nuova Presidenza iraniana non solo in politica estera, ma, soprattutto, nella sfera domestica, hanno creato un clima di fiducia e speranza. Tale speranza è stata in parte confermata dai primi approcci tra il gruppo di potenze internazionali P5+1 e Iran; anche se ancora non è chiaro se la “road map” presentata da Tehran per arrivare a una risoluzione del conflitto sul nucleare sarà accettata, a Ginevra si respira un’altra aria, che intanto ha consentito di programmare un ravvicinato incontro nel mese prossimo di novembre. Chiaramente, non ci si poteva aspettare una capitolazione totale da parte dell’Iran, interessato soprattutto ad allentare la morsa delle sanzioni, ma anche a ritornare nel giro internazionale “occidentale”: un chiaro segnale in questo senso è stato dato dal fatto che i negoziati sono stati condotti dalla rappresentanza iraniana in lingua inglese, contrariamente a quanto avvenuto in passato. Altra novità è stata l’intervista concessa dal Ministro degli Affari Esteri, Abbas Araqchi, all’inviato di un quotidiano israeliano, il Times di Israele, al quale ha dichiarato che la risoluzione del problema nucleare porterebbe l’Iran a vivere in pace con tutti i Paesi. Il fatto che un alto funzionario della Repubblica Islamica conceda un’intervista a un esponente dei media israeliani è già di per se eccezionale, ma che poi, seppur senza nominarlo, includa implicitamente l’acerrimo nemico nei Paesi con cui convivere è di straordinaria importanza, calcolando che l’Iran a tutt’oggi non riconosce lo stato di Israele. Al contempo, la stampa iraniana ha annunciato l’ avvenuta cancellazione della seconda edizione del festival cinematografico “Nuovi orizzonti”, inaugurato l’anno scorso dall’ex Presidente Mahmud Ahmadinejad, un contenitore culturale di proiezioni e conferenze in chiave palesemente anti-israeliana. Ciò costituisce certamente un segno da parte del nuovo Presidente Rouhani di distacco dalla politica del predecessore, per dimostrare il nuovo corso delle diplomazia del suo Paese.
Certamente tutto ciò conferma l’urgenza dell’Iran di uscire dall’impasse in cui è stato condotto dalla stretta delle sanzioni, ma pure di smarcarsi da quell’elenco di Paesi “asse del male” dov’era stato incorniciato dall’ex Presidente degli Stati Uniti George Bush. Anche la dirigenza americana sta adottando un nuovo approccio nei confronti dell’Iran, creando così ansia nel suo più stretto alleato nell’area mediorientale, l’Arabia Saudita. Un primo segno di insoddisfazione da parte di Riyadh per quest’approccio Iran- US si è visto all’Assemblea delle Nazioni Unite avvenuta lo scorso mese, quando per la prima volta i sauditi hanno rinunciato all’opportunità di leggere un loro discorso, infastiditi dall’attesa creata intorno alla venuta del Presidente Rouhani. Questo voluto ritiro è stato seguito da un’intensa campagna sulla stampa saudita (ovviamente, solo di stato) in cui si denuncia l’ex amico statunitense accusandolo di tradimento. Nonostante si tratti probabilmente solo di un modo per alzare la posta, è chiaro che Riyadh paventa la nuova entrata dell’Iran nel gioco internazionale, soprattutto come produttore di petrolio: le sanzioni, infatti, impedendo all’Iran di vendere il proprio greggio ai Paesi occidentali (e pure a molti altri aderenti alle sanzioni), ha di fatto reso l’Arabia Saudita il primo esportatore di oro nero al mondo. La speranza è che le minacce saudite non inficino la cauta, ma promettente apertura statunitense nei confronti del’Iran.
da Giornale di Brescia 21/10/2013
Non demonizziamo la Libia!
Il rapimento da parte di un gruppo di ribelli del primo ministro libico, Ali Zeidan, sembra confermare l’infausta previsione di Henry Kissinger, il quale mesi fa aveva incluso la Libia nell’elenco delle nazioni in disfacimento e/o ad altissimo rischio, insieme a Siria, Somalia, Yemen, Iraq e Afghanistan. Tale sequestro costituisce senza dubbio un atto comprovante la fragilità del processo di democratizzazione in corso nel paese nord africano, ma non deve, peraltro, inficiare i notevoli progressi compiuti dai libici da quando è finita la dittatura gheddafiana fino ad oggi. Chi ha visitato il Paese recentemente conferma che la vita è ripresa regolarmente tanto nei centri maggiori (Tripoli, Misurata, Benghasi) quanto nelle oasi del deserto, dove la gente passeggia tranquillamente nelle strade, si reca al lavoro, a scuola, o a fare compere. I negozi più ambiti sono quelli di moda italiana (una buona notizia anche per la nostra economia) e di gioielli. Qualche cittadino pessimista dichiara che la corsa all’oro è dovuta al fatto che la gente investe nel prezioso metallo per avere a disposizione un bene rapidamente convertibile in caso di fuga, ma è altresì vero che molti monili sono comperati per i matrimoni, ripresi dopo una lunga pausa, segno di voglia di stabilità del Paese; così come è un segnale positivo che le gioielleria rimangano aperte fino a sera tarda, senza paura di rapine, nonostante le milizie siano virtualmente sparite dalle strade, ora controllate solo dalla polizia regolare.
Ciò non significa, ovviamente, che la Libia sia divenuta il paese del bengodi, i problemi ci sono, quali i ripetuti scontri tra gruppi etnici rivali nel sud est del Paese che si contendono i traffici locali; o gli scioperi di alcune categorie di lavoratori non sufficientemente retribuiti. Ma dobbiamo ricordare che nel passato regime lo sciopero non era neppure consentito, così come esistevano solo media controllati strettamente dal governo, mentre ora una nuova generazione di giornalisti libici sta sperimentando la libertà di stampa. Allo stesso modo, le elezioni municipali svoltesi a Benghasi e Misurata nei mesi scorsi hanno confermato la voglia di democrazia dei libici che hanno affrontato lunghe code davanti ai seggi elettorali, conferendo, tra l’altro, fiducia ad alcune candidate. Anche questa rappresenta una novità positiva, che ristabilisce l’immagine delle donne nella sfera pubblica, immagine ridotta dal regime gheddafiano alla caricatura delle proprie guardie del corpo, metà soubrette e metà feroci aguzzine.
Come collocare, allora, in questo quadro il rapimento del primo ministro? Il gruppo che ha sequestrato Ali Zeidan è formato da ex-ribelli del passato regime ora passato al servizio dell’attuale governo, per il quale compie azioni di polizia; tanto da aver dichiarato di non avere rapito il primo ministro, bensì di averlo arrestato da parte della Procura libica (cosa, peraltro, smentita dalla stessa Procura). Il sequestro di Ali Zeidan è avvenuto a ridosso della cattura a Tripoli di Abou Anas al Libi, figura di spicco al Qaeda e ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane del 1998 in Kenya e Tanzania. Se i fatti sono collegati, ciò dimostrerebbe lo stretto legame tra il braccio nord africano di al Qaeda e alcuni gruppi di (ex) ribelli libici, i quali avrebbero “punito” il primo ministro per l’appoggio dato agli americani che, di fatto, hanno arrestato al Libi. Lo stesso Ali Zeidan aveva proprio in questi giorni chiesto spiegazioni a Washington riguardo al raid compiuto sul suolo libico proprio per prendere al Libi, ma il portavoce americano ha dichiarato che il governo provvisorio libico era stato anticipatamente informato dell’operazione.
Che si tratti di un arresto o di un rapimento, la vicenda di Ali Zeidan prova lo stato di divisione del governo provvisorio libico; al contrario, la sua società civile combatte quotidianamente per stabilire democrazia e la normalità.
da il Giornale di Brescia 11/10/2013.
il “pacchetto di democratizzazione” di Erdogan
Ankara ha finalmente varato il pacchetto di riforme verso la strada della democratizzazione atteso da mesi, almeno fin da noti fatti di parco Gezi e delle successive manifestazioni anti governative, la cui dura repressione ha notevolmente annerito l’immagine del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) da anni alla guida della Turchia. Ma la risposta del Paese è, perlopiù, negativa. Sono soprattutto le minoranze, principale oggetto del “pacchetto di democratizzazione” a dimostrarsi scontente per questa che ritengono una opera di superficiale maquillage, a cominciare dalla comunità più controversa, ovvero, la curda. Ad esempio, ai 15 milioni di curdi che chiedevano l’introduzione della loro lingua nelle scuole è stato concesso solo di poter avere l’insegnamento in curdo presso gli istituti privati: ciò suona come una beffa, visto che la maggioranza di loro vive nella zona sud-est del Paese, notoriamente più povera, dove le scuole private sono pressoché inesistenti o inaffrontabili. L’altra richiesta cruciale, ovvero quella di abbassare la soglia del 10% ora necessaria per poter accedere al Parlamento (limite che favorisce i grandi partiti come l’AKP e tiene fuori, tra gli altri, propri quelli curdi), è stata accolta solo da una vaga promessa di rivedere il dato in seno al Parlamento stesso. Nessun passo concreto, inoltre, è stato fatto per decentralizzare l’amministrazione verso un più democratico potenziamento degli organi regionali e locali (altra richiesta curda).
Parimenti scontente sono le minoranze religiose, quali gli Alevi, costituenti circa il 20% della popolazione, che richiedevano il riconoscimento statale delle loro sedi di culto, e che hanno ottenuto solamente la possibilità di avere un’università statale re intitolata sotto il nome di un loro mistico trecentesco.
Gli irriducibili della laicità, poi, hanno accolto con terrore l’abolizione del giuramento di “buon turco” finora imposta agli scolari della scuola dell’obbligo a ogni inizio di settimana, e, soprattutto, lo sdoganamento del velo per le donne nei luoghi di lavoro pubblici, considerandoli quali espressione della precisa volontà dell’AKP di cancellare quel che resta della Turchia di Atatürk per sostituirla con una completamente islamizzata. In realtà, la proibizione del velo nelle pubbliche amministrazioni era divenuta obsoleta in un Paese in cui le donne l’hanno riabbracciato da decadi, e anzi spesso costituiva una forma di protesta contro le costrizioni dello Stato. Lo spettacolo delle studentesse che si toglievano il velo prima di varcare i cancelli delle università per poi rimetterselo quando uscivano era divenuto assurdo, per non parlare delle associazioni di donne sorte proprio per combattere tale proibizione. L’AKP, che governa grazie al consenso di cittadini per cui l’islam è l’identità principale e che, piaccia o no, sono in maggioranza nella Turchia d’oggi, non poteva non accogliere questa protesta che da anni travaglia la vita pubblica. Fermo restando che alcune professioni, quali quella di poliziotta e di giudice, rimarranno comunque “veil free”, la riforma faciliterà l’accesso delle donne a posti di pubblica amministrazione, dove adesso non vengono neppure prese in considerazione solo perché nella foto allegata al curriculum portano il velo.
Quello che desta preoccupazione in tutti, piuttosto, è la totale assenza nel pacchetto di norme che garantiscano maggiore libertà di espressione e che consentano di non etichettare i dissenzienti (quali quelli arrestati proprio durante le manifestazioni iniziate a parco Gezi il giugno scorso) quali terroristi, o che limitino lo strapotere della polizia nel sedare anche violentemente le manifestazioni di pacifica protesta. Ma quest’assenza potrebbe essere frutto di un abile calcolo politico dell’AKP e del suo astuto leader, Erdoğan: nel 2014 i turchi saranno chiamati alle urne, ed è probabile quindi che nei prossimi mesi, a ridosso delle elezioni, venga varata qualche altra riforma che, se annunciata troppo presto, potrebbe essere dimenticata dagli elettori.
dal Giornale di Brescia 3/10/2013
Rouhani a New York
L’assemblea generale delle Nazioni Unite si sta prospettando come un appuntamento d’importanza cruciale per le sorti del mondo. Il leader più atteso sembra essere il neo Presidente della Repubblica Islamica d’Iran, Hassan Rouhani, attorno al quale gravitano argomenti di capitale interesse e strettamente collegati tra loro, quali la situazione siriana e il nucleare iraniano.
Il neo Presidente iraniano si presenta a New York con una serie di credenziali che fanno ben sperare: la mediazione iraniana è stata cruciale nella “resa” da parte di Bashar Assad per la consegna delle armi chimiche e Rouhani ha più volte dichiarato la volontà del proprio Paese a non perseguire il nucleare per fini bellici, e di avere comunque pieno mandato per stipulare un accordo in materia con le potenze occidentali. A tal proposito, Rouhani ha in programma un incontro, proprio a New York, con tutti i membri della P5 (Cina, Russia, Germania, Inghilterra, Francia), con esclusione, al momento, degli Stati Uniti. Ma lo scambio epistolare avvenuto nei mesi scorsi tra Rouhani e Obama fa ben sperare in un incontro, se non al vertice, almeno tra alti funzionali dei due stati.
Per quanto riguarda il fronte interno, Rouhani ha messo a segno una serie eventi positivi: la corsa al rialzo dei prezzi per i generi di prima necessità si è fermata (complice pure l’alleggerimento del blocco internazionale nei confronti del trasporto navale iraniano), così come si è parzialmente colmato il divario nel cambio tra il dollaro e la valuta iraniana. Alcune manovre volute dal Presidente (quali la liberazione dei social network prima accessibili solo attraverso l’uso di filtri e, più cospicuamente, la liberazione dal carcere di alcuni figure di dissidenti di spicco, quali l’avvocata Nasrin Sotudeh, ex braccio destro del Nobel per la Pace Shirin Ebadi) hanno riportato fiducia nella popolazione, spingendo verso un’unità nazionale che non si respirava dagli anni ’50, all’epoca della nazionalizzazione del petrolio da pare dell’allora ministro Mossadegh.
Ovviamente, vi sono molti scettici che attribuiscono queste timide riforme al bisogno di Tehran di allentare la pressione delle sanzioni e di allontanare la minaccia di un attacco alla Siria che avrebbe conseguenze letali anche per l’Iran. Alcuni “falchi” americani hanno applaudito il loro Presidente, Obama, per aver contribuito ad inasprire le sanzioni e aver minacciato la Siria di un attacco bellico, elementi che, secondo la loro interpretazione, avrebbero determinato l’ammorbidimento (anzi, la capitolazione), di Tehran.
Al contempo, molti altri plaudono la diplomazia che, negli ultimi tempi, sembra di nuovo animare i rapporti internazionali. Ambo le parti parlano di “rispetto reciproco”, mentre “flessibilità”, sembra essere la parola che anima i discorsi tanto di Tehran quanto di Washington. Indubbiamente, ciò rappresenta il segno positivo di una distensione che va ampliata e fortificata. Se ciò è dovuto, da parte iraniana, ai problemi economici che travagliano da tempo il Paese, certamente anche gli Stati Uniti debbono sottostare alle necessità di una crisi globale che li costringe a guardare al proprio interno, se vogliono mantenere la propria posizione negli affari mondiali.
In altra parole, anche Washington deve cambiare il proprio approccio e convogliare le proprie energie non verso una guerra logorante nei confronti di Tehran, ma verso un progetto di attiva collaborazione con l’Iran, senza il quale la regione rimarrà in uno stato di tensione, con la Siria in preda alla guerra civile, l’Iraq vittima di continui attacchi terroristici e l’Afghanistan destinato a divenire, dopo il ritiro americano, un luogo più violento e ingovernabile di quanto non fosse all’inizio del 2000.
da Giornale di Brescia, 24/9/2013.
Donne e giardino nel mondo islamico
L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana
Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.
Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.
Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.
da Giornale di Brescia 9/9/2013
l’islam politico è morto, viva l’islam politico
In Tunisia è stato ucciso un altro esponente dell’opposizione contro il partito islamico al governo Ennahda; in Egitto, il Presidente Morsi, espressione del partito islamico al potere, è stato esautorato dall’esercito dopo che milioni di cittadini ne hanno chiesto l’allontanamento; in Turchia, il leader dei partito islamico al governo da anni, Recep Erdoğan, è da oltre un mese contestato dalle piazze che lo accusano di aver tradito la democrazia. Questi eventi spingono molti osservatori a pensare all’implosione dell’islam “politico” e a dichiarare la fine di questo modello, ma, un’analisi dei fatti porta ad altre conclusioni. In Egitto, Morsi è stato contestato perché ha interpretato il mandato come un’autorizzazione a consolidare il proprio potere, convinto che l’anima religiosa degli egiziani fosse sufficiente per assoggettarli a un unico partito, seppure d’ispirazione religiosa. Inoltre, ha fallito (insieme ai Fratelli Musulmani) nel dare una risposta alla crisi economica e sociale in cui si dibatte il Paese, così come, parallelamente, in Tunisia ha fallito Ennahda, il cui governo coincide con una delle peggiori crisi economiche nella storia tunisina. In Turchia, dove Erdoğan ha portato il Paese al benessere e a un esponenziale incremento del PIL, le cose sono diverse: qui non è in discussione il partito religioso al governo (anche se, ovviamente, pure l’AKP ha i suoi oppositori), quanto proprio il suo leader e i suoi atteggiamenti dispotici, e la contestazione popolare è quindi ad personam. Le proteste a Ankara, Cairo e Tunisi non significano che i rispettivi cittadini vogliano liberarsi dell’islam politico, o che questi sia finito, ma solo che i cittadini non s’accontentano del vecchio slogan “l’islam è la soluzione” sbandierato dai partiti religiosi qualche tempo fa, ma invocano una direzione dall’identità islamica sì, ma con un forte accento democratico, e soprattutto, di provata competenza politico-economica. I partiti islamici, quindi, non possono contare solo sulle loro credenziali religiose per governare, ma debbono dimostrare capacità tecniche unite a una vocazione democratica. In questi ultimi anni, tunisini, egiziani e turchi hanno dimostrato che, seppur abbiano essi stessi eletto Ennahda, i Fratelli Musulmani e il Partito della Giustizia e Sviluppo, una volta accertato che il mandato da loro democraticamente consegnato non si è tramutato in benessere economico, politico, sociale, sono pronti a scendere in piazza e ha chiedere il cambiamento. Il ricatto operato in passato dai gruppi religiosi che pretendevano di identificare l’opposizione nei loro confronti come un insulto alla religione non funziona più. Tuttavia, nell’area la religione permane non solo come depositaria della fede e del culto, ma pure come guida alle pratiche quotidiane, e, in politica è considerata fonte di moralità, anzi, spesso rimpiazza il concetto stesso di moralità. L’insuccesso dei Fratelli Musulmani o il “tradimento” di Erdoğan non vengono interpretati come il fallimento dell’islam, e ciò spiega, almeno in parte, perché il colpo militare che ha deposto Morsi è stato salutato con favore – o, almeno, condonato – da molti paesi musulmani. D’altro canto, nelle società a forte componente musulmana si sta levando sempre più forte il richiamo a tenere la religione separata (ovvero, più in alto) della politica, proprio per evitare eventuali contaminazioni e che l’abuso della religione da parte di movimenti radicali per auto legittimarsi, in questo momento storico così incerto, possa condurre a identificare uno scacco politico come un insuccesso della religione stessa. Ma in queste società, dove lo spazio politico continua a rimanere ristretto e i regimi non incoraggiano l’opposizione, la religione finisce spesso per essere l’unica istituzione alternativa; e così mentre la politica diviene religiosa, l’islam diviene (o rimane) politico.
da il Giornale di Brescia 30/7/2013
Erdoğan contro Erdoğan
Erdoğan contro Erdoğan: il super primo ministro turco, altamente contestato all’interno dopo i noti fatti del Parco Gazi, incorre ora pure nelle ire del suoi un tempo fedeli alleati e amici, ovvero l’Egitto e il Qatar. Il nuovo sovrano di Doha, infatti, non sembra per ora confermare il massiccio supporto ai Fratelli Musulmani offerto in passato dal re suo padre, e ha addirittura inviato le proprie felicitazioni al nuovo governo egiziano. Così il governo turco rimane la sola voce autorevole nell’area a chiedere la re installazione dell’ex Presidente egiziano Morsi, richiesta peraltro non apprezzato dal Cairo che ha accusato Erdoğan e i suoi di immischiarsi nei propri affari interni. Anzi, il portavoce del premier egiziano, Ahmed Elmoslmany, ha esplicitamente ammonito Ankara a non occuparsi di quanto succede a piazza Tahrir, visto che il Cairo non ha interferito nei fatti di piazza Taksim. L’accenno alla piazza istanbulina, sede della più grande contestazione popolare nei confronti di Erdoğan, deve essere risultata particolarmente sgradita al premier turco, il quale, tuttavia, non sembra voler fare marcia indietro sulle sue intransigenti posizioni nei confronti dei contestatori. Continua, infatti, l’ondata di arresti indiscriminati di persone solo in sospetto di aver partecipato a qualche manifestazione di protesta (esemplare il fermo di un venditore di bandiere di Istanbul solo perché recanti la foto di Ataturk), tanto che ormai gli oppositori del primo ministro non lo chiamano più per nome, riferendosi invece comunemente a lui come “il dittatore”.
Erdoğan è accusato di aver minato le basi delle democrazia, accentuando i conflitti tra le varie anime del Paese (soprattutto quello tra la componente laica e quella religiosa), col solo fine di perseguire il proprio potere personale. La dissennata condotta del primo ministro, già iniziata da qualche tempo, ma culminata nell’ultimo mese in un atteggiamento dispotico di chiusura totale al dialogo con la popolazione, ha già fatto dimenticare i buoni servigi da lui offerti nei primi anni di amministrazione, fra i quali ricordiamo la re defizione dei compiti dell’esercito (in passato assai propenso a colpi di stato liberticidi), il processo di pacificazione con la componente curda, l’incremento esponenziale del PIL e l’accresciuto prestigio della Turchia a livello internazionale. Ora invece la Turchia sembra essere entrata in una fase di decadenza e di pessimismo, aumentati dalla tendenza economica negativa: dopo i fatti di Parco Gazi il flusso turistico ha subito un duro colpo, non solo per i mancati arrivi internazionali, ma pure perché gli stessi turchi stanno disertando i luoghi d’intrattenimento, le mete turistiche e i gli acquisti in genere. La delusione nei confronti di Erdoğan fa leggere in chiave diversa i suoi successi passati, e molti sostengono egli abbia domato il potere dell’esercito non per fini democratici, ma per togliere di mezzo un contendente pericoloso; così come la sua preoccupazione di intrattenere il dialogo con il partito Curdo non sarebbe frutto del desidero di unificare finalmente il Paese, ma, piuttosto, di crearsi un alleato per la sua ambita futura carriera di Presidente. E’ infatti risaputo che Erdoğan mira ad essere letto Presidente nel 2014, ma solo se riuscirà prima a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, altrimenti la carica attuale darebbe poco prestigiosa per un uomo che è stato un potente primo ministro. Per far ciò, egli e il suo AKP stanno lavorando nell’ambito della commissione che sta riscrivendo la costituzione, ma vi sono opposizioni e quindi hanno bisogno del supporto del partito filo curdo Pace e Democrazia.
Intanto, però, i sondaggi hanno evidenziato come nell’ultimo mese Erdoğan abbia perduto molto supporto popolare, diventando nell’immaginario popolare il primo responsabile della crisi; i turchi, quindi, aspettano un gesto significativo da parte di colui che, negli ultimi tempi, si è auto nominato padrone assoluto del Paese.
dal Giornale di Brescia 21/7/2013