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Potenze del Golfo, Cassandra e … Anna Vanzan

ridottoLeggendo le notizie di questi giorni riguardandi la zona del Golfo, dallo scandalo dei mondiali di calcio 2022 assegnati al Qatar grazie alle tangenti pagate da Doha, all’inasprimento della pressione dei vari petro-monarchi sulla società civile, non posso non pensare a quanto ho scritto a proposito, ad esempio, in Primavere rosa:

Nonostante, infatti, le autorità dei vari paesi commissionino a prestigiose agenzie internazionali patinati reportage per dimostrare il proprio avanzamento nelle politiche di genere, sbandierando le posizioni apicali ottenute da poche token women spesso facenti parte proprio delle famiglie al governo, la realtà quotidiana è diversa. Ad esempio, le autorità saudite vantano la presenza di migliaia di donne d’affari sul loro territorio, ma si tratta in realtà perlopiù di prestanome femminili per aziende in solide mani maschili: le saudite, infatti, rappresentano solo il 17% della forza lavoro del Paese.

Non credo di avere detto sconvolgenti verità da novella Cassandra, solo verità scomode per troppi, compresi gli occidentali che fanno lauti affari del Golfo, tornando entusiasti da Dubai, dove si può comperare tutto, inclusi i diritti umani, o schifati da Ryadh, dove le donne “sono tutte imbacuccate e non ci sono le discoteche”. Ma pecunia non olet  , quindi evviva gli affari con i sauditi. Gli stati del Golfo comperano e gli occidentali si fanno comperare.

 

 

Una donna capo del governatorato di Bushehr

11_9.jpg.815x390_q85_crop_upscaleLa trentaseienne Maryam Qorbani, specializzata in sviluppo urbano, è la nuova governatora del distretto di Busher, nell’Iran meridionale. Diventano così quattro le donne a capo di governatorati nella Repubblica Islamica d’Iran, a conferma della sensibilità alle istanze di genere da parte del Presidente, Hassan Rouhani. La nomina di Maryam Qorbani sfata altresì il mito di un Iran a due marce dove solo il nord (Tehran) costituirebbe un polo di modernità. La regione di Bushehr conferma così la sua pluricentenaria storia di vocazione al progresso e all’avanzamento dei diritti delle donne.

Nigeriane pedine di guerra

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I Boko Haram che tengono in ostaggio centinaia di ragazze in Nigeria sono attivi da fine anni 1990. Il loro nome, che nella lingua locale hausa significa “istruzione occidentale illecita” riflette i loro obiettivi principali, ovvero l’abolizione di processi che essi considerano frutto della cultura occidentale, quali l’istruzione laica e i processi elettorali, e l’instaurazione di uno stato islamico. Il loro leader, Mohammad Yusuf, ha fondato scuole dove molti nigeriani contrari all’educazione laica hanno per anni mandato i loro figli, ma che costituivano altresì delle palestre di terrorismo.

Ma perché le donne sono diventate ora le loro principali pedine? Nel 2009 i Boko Haram hanno visto la loro leadership decapitata dalle forze governative: centinaia di militanti, incluso Yusuf, sono stati uccisi senza processo e in modo spettacolarmente crudele, e molte donne legate ai Boko Haram sono state incarcerate e/o uccise. Da quel momento, i Boko Haram hanno cambiato tattica, dando avvio a una serie di rapimenti, inclusi quelli delle mogli degli ufficiali governativi, usandole come merce di scambio per far liberare i loro militanti prigionieri. Mentre sotto il nuovo leader, Abubakar Shekau, i Boko Haram diventavano più sofisticati modellandosi secondo il terrorismo in franchising di al Qaeda, anche i loro obiettivi si internazionalizzavano, grazie al bombardamento del quartiere ONU nella capitale Abuja e al rapimento di una famiglia francese avvenuto l’anno scorso in Camerun.

Negli ultimi due anni, i rapimenti di donne da entrambi le parti si ripetono con sconcertante frequenza; le mogli di alcuni capi dei Boko Haram sono tuttora in carcere, e il recente rapimento delle duecento ragazze dalla scuola di Chibok è stato ideato principalmente per costringere il governo a restituire ai terroristi le loro donne. In questo braccio di ferro per dimostrare il potere, i Boko Haram volutamente proiettano la loro immagine di guerrieri “islamici” la cui ideologia impone che le donne cristiane vadano convertite e considerate bottino di guerra. Il loro misoginismo colpisce tanto le donne della loro comunità, ritenute utili solo per la procreazione, il mantenimento quotidiano della comunità e la soddisfazione dei bisogni sessuali, quanto e soprattutto quelle cristiane, queste ultime simbolo del potere e dell’influsso occidentale che i Boko Haram combattono. Tuttavia, il machismo di questi terroristi non preclude loro di travestirsi da donne, quando serve, tanto che alcuni di loro sono stati scoperti e uccisi mentre trasportavano armi sotto lunghi veli.

In un contesto in cui le donne sono stabilmente vittime di abusi d’ogni tipo e le leggi dello Stato piene di discriminazione nei loro confronti, non desta meraviglia che esse costituiscano l’obiettivo principale delle violenze settarie. Anche se i Boko Haram non detengono il monopolio della violenza contro le donne che in Nigeria, rimane endemica, trans etnica e trans religiosa, non vi è dubbio che in questo conflitto essi strumentalizzino le donne in senso ideologico e strategico, nonché per ottenere vantaggi economici tramite il riscatto.

 

da Giornale di Brescia 14/5/2014

L’India e la questione della violenza sulle donne

images Treccani, atlante geopolitico: http://www.treccani.it/geopolitico/paesi/india.html

La morte di una studentessa dell’Università di Delhi avvenuta a seguito di uno stupro di gruppo nel dicembre 2012 ha provocato sdegno e ira tra la società civile indiana. Nel Paese del “miracolo economico” vigono ancora molte norme sociali, comportamenti e attitudini che contribuiscono al mantenimento di una cultura della violenza perpetuata contro le donne. Tale atteggiamento misogino affonda le radici nell’India feudale e patriarcale che ha sublimato come modelli femminili figure della mitologia hindu (quali Sitra e Savitri), le cui qualità consistono nell’assoluta e cieca devozione ai propri mariti, alla morte dei quali esse dovrebbero immolarsi bruciando sulla pira (sati), rituale abolito ufficialmente da circa due secoli, ma che in qualche seppur raro contesto ha continuato ad essere praticato. D’altro canto, la comunità musulmana, che, seppure cospicua, si sente schiacciata numericamente dalla maggioranza hindu, rafforza la propria identità rendendo le donne veri e propri marcatori culturali, al punto da isolarle dalla sfera sociale (purdah) pur di preservarle da possibili “scandali”. Tale divisione etnico-religiosa tra le due principali comunità del Paese comporta, tra l’altro, la mancata unione d’intenti tra i due rispettivi movimenti femminili, il cui sforzo verso obiettivi comuni è spesso vanificato da preoccupazioni di lealtà verso il gruppo d’appartenenza anziché verso l’acquisizione di diritti in quanto donne. La violenza contro le indiane inizia prima ancora della loro nascita: com’è noto, infatti, l’amniocentesi e altri esami concepiti per effettuare diagnosi prenatali vengono usati per disfarsi di feti femminili, riducendo in modo drastico la percentuale di neonate. Così le famiglie si liberano alla radice dell’onere di dover provvedere alla dote matrimoniale delle figlie. La dote, peraltro, divine ennesimo pretesto di violenza contro le spose, le quali sono vittime di “incidenti” domestici, spesso architettati da mariti e suocere che intendono così ricattare la famiglia d’origine della donna onde ottenere una dote più cospicua; oppure, che vogliono liberarsi della sposa per impalmarne un’altra dotata di maggiori mezzi economici. Ad aggravare questa situazione si aggiunge la lenta e riluttante risposta delle autorità al problema della violenza; basti pensare che, nonostante il movimento femminista abbia posto la violenza come obiettivo primario di lotta fin dagli anni ’70, solo nel 2005 il governo indiano ha promulgato una legge (Protection of Women from Domestic Violence Act) che finalmente prende una decisa posizione nei confronti delle violenze domestiche, tanto fisiche quanto psicologiche. E ciò, dopo che nel 2001 aveva emanato un altro provvedimento legislativo in cui, tra l’altro, si esprimeva a favore della donna maltrattata solo nei casi di “violenza prolungata”, concedendo al marito l’immunità qualora questi avesse reagito a “minacce nei propri confronti”. Tuttavia, la legge del 2005 è ancora insufficientemente implementata, per vari motivi, tra i quali spiccano l’insensibilità delle autorità di polizia cui le donne si recano per sporgere denuncia, e la complicità patriarcale dei medici addetti a riscontrare le prove di violenza fisica, i quali spesso si rifiutano di redigere il rapporto. Inoltre, la stragrande maggioranza delle donne dopo il matrimonio si reca a vivere nella casa maritale assieme ai suoceri; pertanto, anche nel caso in cui la donna trovi il coraggio di denunciare il marito e il tribunale lo allontani, la vittima rimane comunque esposta alla vendetta dei familiari acquisiti. Nel caso, invece, che sia lei ad andarsene, superando la paura dello stigma sociale per l’ “abbandono” del tetto coniugale tornando a quello d’origine, si trova spesso esposta al biasimo della propria famiglia, perché la violenza domestica continua ad essere considerata un affare privato, da non denunciarsi in pubblico in quanto, paradossalmente, discredita e arreca disonore alla vittima e alla sua famiglia. Gli stessi limiti e contraddizioni sono ben presenti pure nella legislazione tesa a punire e arginare lo stupro, che non criminalizza, però, quello coniugale. Nonostante, infatti, le pressioni della società civile a seguito del luttuoso evento del dicembre 2012 abbiano portato a una revisione degli articoli del Codice Penali riguardati lo stupro, l’ Anti Rape Bill in vigore dall’aprile 2013, pur introducendo alcune importanti novità (quale, ad esempio, l’aumento di pena per alcuni reati a sfondo sessuale, per gli attacchi con acidi, per lo stalking e il voyeurismo) non penalizza il sesso non consensuale imposto alla moglie. Il giudizio critico con cui le associazioni per i diritti delle donne hanno accolto la nuova legge sembra purtroppo confermato da una raffica di stupri avvenuti in India proprio dopo la sua approvazione. Ciò conferma che, oltre alle leggi, deve radicalmente cambiare l’attitudine patriarcale nei confronti delle donne; al contempo, il governo indiano deve mantenere le proprie promesse realizzando il piano di aiuti economici e sociali per le vittime e le possibili vittime di odiosi crimini sessuali, promesso nel febbraio 2013 e mai avviato.

Iraq, elezioni, petrolio e acqua

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L’Iraq si avvia alla sua prima elezione parlamentare da quando nel 2011 le truppe statunitensi hanno lasciato il Paese, in un clima di grande instabilità e fra attentati terroristici che mettono quotidianamente a repentaglio la vita dei cittadini. Scontri fra opposte fazioni e atti criminali compiuti soprattutto dal gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, vicino ad al Qaeda, hanno già accumulato l’impressionante record di oltre 2800 morti solo dall’inizio dell’anno, procedendo a un ritmo che ricorda quello preoccupante realizzato lo scorso anno, quanto le vittime furono quasi 8mila. Pertanto, mentre pare scontata la conferma alle urne del partito dello sciita Nouri al Maliki, che guida il Paese dal 2006, sembra altrettanto prevedibile che l’attuale Primo Ministro dovrà accordarsi con altre forze, quali gli esponenti di quei partiti sciiti che contestano ad al Maliki l’incapacità di porre fine agli attacchi che colpiscono soprattutto la loro comunità.

Quest’ultima decade di violenza conferma, tra l’altro, l’imprescindibile necessità di costruire un modello istituzionale assai più decentralizzato rispetto a quello attuale; la distribuzione delle risorse petrolifere, ad esempio, è una chiara prova dell’incapacità del governo di accordarsi in modo soddisfacente con le comunità locali maggiormente coinvolte nell’estrazione del greggio, quale quella curda nel nord del Paese, con conseguente inasprimento dei rapporti tra Baghdad e il Governo Regionale Curdo.

Altro punto dolente nella gestione di al Maliki è il suo sospetto coinvolgimento negli attentati contro alcuni suoi opponenti sunniti; se anche questa gravissima accusa fosse infondata, rimane comunque provato che l’autoritaria politica del Primo Ministro ha scavato un ulteriore solco tra le maggiori comunità del Paese (sciita, sunnita, curda), trasformando sempre più la politica irachena in un conflitto tra gruppi etnico/religiosi. L’Iraq pare così avviato alla frammentazione, mentre avrebbe bisogno di un modello di federalismo capace di puntare all’inclusione dei diversi gruppi e alla decentralizzazione amministrativa. Ma al Maliki sembra poco propenso ad allentare la presa dispotica, giustificata, al solito, quale arma contro il terrorismo, il male maggiore da cui l’Iraq è ora affetto, anche se le sue misure non sembrano avere grandi risultati. Il gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, infatti, è in grado di tenere testa all’esercito regolare e controlla l’area strategica della città di Falluja, e, in particolare, la sua diga, trasformando l’acqua – risorsa ancor più cruciale del petrolio- in un’arma di ricatto e ritorsione nei confronti tanto del governo quanto delle comunità locali, e provocando una vera e propria crisi dell’acqua. I terroristi hanno infatti provocato l’inondazione dei terreni nei pressi di Baghdad, bombardando, contemporaneamente, l’oleodotto che conduce il petrolio fino in Turchia. Al Maliki risponde con brutale atrocità nei confronti anche di sospetti terroristi (provate da video, girati pure dalle forze regolari), al punto che si registra un’alta percentuale di defezioni all’interno dell’esercito iracheno.

Risulta chiaro, quindi, che la spirale di violenza in cui si dibatte l’Iraq deve trovare una soluzione politica; e se, come auspicabile, queste elezioni avranno successo, dimostrando la fede degli iracheni nelle istituzioni, al Maliki dovrà mettersi subito al lavoro, per sviluppare un sistema federale volto non solo a rallentare la tensione nel suo Paese, ma anche potrebbe pure costituire un significativo esempio nell’area.

da Giornale di Brescia 29/4/2014

Bouteflika 4°?

L’Algeria s’appresta a confermare per la quarta volta il suo Presidente in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika. Il super candidato è praticamente aspirante unico alla Presidenza, nonostante l’età e gli innumerevoli malanni da cui è affetto, tanto da far dubitare tutti che, in caso di rielezione, possa concludere di persona il mandato quinquennale.

Bouteflika rappresenta il grande conciliatore che, alla fine della decade nera che negli anni ’90 segnò il Paese con oltre 200mila morti, ricucì le istituzioni algerine, favorendo il processo di pacificazione e promettendo riforme in chiave democratica mai realizzate a pieno. Fu Bouteflika a riallacciare proficui rapporti con l’Occidente, il quale, non va dimenticato, pur di assicurarsi l’accesso alle ingenti risorse energetiche di cui l’Algeria dispone, da almeno quindici anni ha chiuso gli occhi su quanto accade sulla sponda africana del Mediterraneo, pago del fatto che il regime algerino garantisce una sorta di “pax islamica” (sedando i movimenti di matrice islamista) sul prezzo della quale non bisogna andare troppo per il sottile.

Vero è che pure gli algerini, o, almeno, una parte di loro, sembrano aver privilegiato la stabilità offerta dal patto fra Bouteflika e i poteri forti (esercito, apparato di sicurezza e la Sonatrach, la potente agenzia di Stato che controlla le risorse energetiche) a discapito della realizzazione del processo democratico iniziato decadi fa, quando l’Algeria si liberò del giogo coloniale francese. Infatti, anche se il Paese continua a essere teatro di pressoché quotidiani scioperi, soprattutto nel settore pubblico, il regime è finora riuscito a mantenere il controllo elargendo di volta in volta piccole concessioni ai manifestanti. È così l’Algeria non è stata investita dall’onda delle rivoluzioni che da oltre tre anni stanno stravolgendo gli equilibri dell’ampia zona che va dal Marocco al Medio Oriente. Le “primavere arabe” hanno finora solo lambito il Paese, ancora traumatizzato dalle ferite inferte nella guerra degli anni ’90 e dove, se l’esempio positivo della vicina Tunisia infiamma i dissidenti, quello caotico dell’altrettanto confinante Libia scoraggia dall’intraprendere una “primavera algerina”.

E ciò nonostante vi siano tutti i presupposti che hanno scatenato le altre rivoluzioni, dalla corruzione al dispotismo, dalla crisi economica a quella occupazionale, soprattutto nel settore giovanile.

Comprensibile, quindi, che una parte della società civile si sia ribellata, fondando un movimento di aperta contestazione a quest’ennesima elezione-burla chiamato Barakat (Basta!), nato proprio in occasione dell’annuncio della candidatura di Bouteflika. Finora il gruppo non è riuscito a richiamare grandi folle nelle sue proteste di piazza (peraltro bandite per decreto dal 2001), ma evidentemente l’establishment non vuole correre il minimo rischio e ha arrestato, tra gli altri, uno dei co-fondatori di Barakat, la ginecologa Amira Bouraoui, mentre ha chiuso l’emittente televisiva Al Atlas, rea di appoggiare l’opposizione.

Gli aderenti a Barakat non sono ovviamente gli unici ad opporsi al “regno” di Bouteflika e a quello che egli rappresenta, anche i leader dei gruppi islamici hanno invocato il boicottaggio di queste elezioni, ma l’abbraccio tra la compagine “laica” e quella “religiosa” è più che mai improbabile, visto il recente passato algerino. Tuttavia, qualsiasi sia il risultato elettorale, il vincitore dovrà fare i conti con uno scontento popolare sempre più intenso, difficilmente controllabile con l’uso della sola forza e della corruzione.

da Giornale di Brescia 17/4/2014

Il memoriale di Taj as-Soltaneh, principessa Qajar (Iran)

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a cura del Centro Essad Bey

http://www.amazon.it/Memorie-una-principessa-persiana-Qajar-ebook/dp/B00JO8ML4C/ref=sr_1_8?s=books&ie=UTF8&qid=1397549294&sr=1-8&keywords=vanzan+anna

 

Afghanistan, elezioni e ricatto Taleban

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Gli afghani sono chiamati alle urne per scegliere il nuovo Presidente. Le proiezioni danno come favoriti nella rosa di undici candidati Abdullah Abdullah, ex Ministro degli Esteri, e Ashraf Ghani, già Ministro delle Finanze, rivali in quella che, per molti aspetti, è la tornata elettorale più significativa della storia afgana dopo la caduta del regime dei Taleban. E non tanto per il risultato in sé, quanto per la modalità con cui si svolgeranno le elezioni e per la situazione che si verificherà dopo il voto.

Nel Paese in cui, dopo oltre dodici anni di permanenza, la Forza Internazionale (ISAF) si appresta a togliere definitivamente le tende, l’appuntamento del 5 aprile è soprattutto un test per verificare il processo di democratizzazione dell’Afghanistan, l’attendibilità delle sue istituzioni e il grado di sicurezza di cui possono godere i cittadini che vogliano esercitare i diritti politici.

I precedenti non sono confortanti: nella tornata elettorale del 2009, proprio l’aspirante Presidente Abdullah Abdullah abbandonò la competizione dopo la prima tornata accusando il rivale Karzai di brogli elettorali. E per evitare, o, almeno, per limitare la possibilità di brogli, in questi anni le istituzioni afgane hanno compiuto un lungo e laborioso processo, riscrivendo la legge volta a formare le commissioni elettorali in base a criteri democratici, chiamando all’appello membri della società civile come docenti, segretari dei maggiori partiti, membri dell’apparato giudiziario, parlamentari. Tuttavia, nonostante la buona volontà dei singoli, la fragilità delle istituzioni afgane rimane tale, soprattutto perché lo stato non è capace di garantire la loro funzionalità, in quanto non è in grado di proteggere la sicurezza personale dei suoi attori. La strategia talebana di colpire proprio i leader delle istituzioni, dai segretari dei partiti politici a quei religiosi che non si conformano all’islam creato dai Taleban, ha dato in suoi nefasti frutti: lo scorso anno la missione ONU in Afghanistan ha dichiarato che, pur essendo diminuito il numero dei civili periti per mano talebana, è esponenzialmente aumentato quello dei funzionari di stato, dei leader di comunità, delle personalità impegnate nel processo di pace, scientemente eliminai. I Taleban non hanno più bisogno di eclatanti combattimenti, basta loro prendere di mira con precisione chi agisce da parte del governo per screditarlo e convincere la popolazione a non collaborare con le istituzioni. I Taleban sanno che, con la dipartita della ISAF, il tempo è dalla loro parte; certo, l’ISAF ha addestrato circa 350mila afgani che rimarranno a proteggere la popolazione, ma basteranno, visto che non più tardi di quattro giorni fa un commando suicida si è fatto esplodere all’interno del Ministero della Difesa di Kabul provocando sei morti?

Apparentemente per ovviare a questa situazione, l’uscente Presidente Karzai in questi ultimi tempi s’è avvicinato ai Taleban, tentando di coinvolgerli nella costruzione del Paese; la maggioranza dei Taleban però è contraria alle elezioni, che ritengono illegittime, e ha già invitato la popolazione a distruggere i certificati elettorali.

Tuttavia, anche il fronte talebano presenta incertezze, non essendo più compatto come un tempo; parte dei Taleban potrebbe invece attendere l’esito elettorale, confidando nel successo di un candidato disposto poi a negoziare un accordo a loro favorevole.

 

da Giornale di Brescia 5/4/2014

 

Il voto turco: prime impressioni

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Fin dal mattino, lunghe file di votanti si sono formate fuori dai seggi elettorali in Turchia, dove si votava per le elezioni amministrative 2014, una massiccia affluenza che conferma come questa tornata elettorale fosse particolarmente sentita e considerata come un test di prova del rapporto di fiducia tra la popolazione e il suo Premier Recep Tayyip Erdoğan.

 

Il partito turco della Giustizia e Sviluppo (AKP) si conferma primo e Erdoğan rimane in sella. Evidentemente, non è bastato che il partito al governo tradisse il suo nome (l’acronimo AK in turco significa “puro”) con una catena di conclamati scandali avvenuti negli ultimi mesi. A dispetto della corruzione conclamata della leadership turca, della svolta autoritaria del premier rivelatasi appieno con i fatti del Parco Gezi e confermata dal suo oscurare i social network proprio in occasione di questa tornata elettorale, i turchi hanno preferito la stabilità e premiato chi, fra l’altro, ha consentito che l’economia del Paese incrementasse del 230% in dieci anni (fra il 2002 e il 2012) e l’inflazione dal 29,8% del 2002 al 7,4% nel 2013.

 

Il secondo partito, Cumhuriyet Halk (CHP) di centro sinistra, si conferma forte nelle municipalità e nelle province che si affacciano sull’Egeo, soprattutto nella sua roccaforte, Izmir, erodendo voti al partito nazionalista, Milliyetçi Hareket (MHP) e dimostrando così come i turchi siano sempre più orientati verso il centro moderato.

 

L’AKP è riuscito a conquistare Istanbul, piazza importantissima, anche dopo la repressione dei manifestanti a parco Gezi. Probabilmente ha perso voti da parte dei giovani “laici”, ma la sua recente diatriba con il movimento islamista Güllen (un tempo alleato dell’AKP) che Erdoğan ha accusato di fomentare e manovrare gli scandali contro di lui, ha probabilmente fruttato qualche voto al partito di governo da parte di chi vede con sospetto l’azione di Fetullah Güllen, apparentemente solo filantropica, ma in realtà volta a creare un potere forte e più radicalmente islamista nel cuore della Turchia.

 

Ora Erdoğan pensa di concretizzare il suo progetto di costituire un sistema presidenziale attorno alla sua carismatica figura, ma alcune insidie potrebbero frapporsi alla sua smisurata ambizione. Innanzitutto, i problemi economici: anche se l’onda lunga della crisi economica questa volta non è arrivata alle urne, il governo turco deve prendere seri e immediati provvedimenti per evitare che il boom economico dell’ultima decade si trasformi in un baratro che inghiottirebbe non solo l’AKP ma l’intera nazione. Inoltre, l’immagine all’estero di Erdoğan è seriamente compromessa, a causa di scandali e autoritarismo; se in Europa, che non vede più Ankara come possibile serio e stabile mediatore per i problemi del Medio Oriente, il fronte contrario all’entrata della Turchia nell’Unione Europea sta aumentato, negli Stati Uniti, dove risiede Fetullah Güllen e la sua potente macchina di propaganda, Erdoğan è sempre più guardato con sospetto.

Il premier turco non ha molto tempo quindi per godersi la vittoria; gli servono presto altri risultati tangibili, anche perché le elezioni presidenziali sono alle porte.

da Giornale di Brescia 31/3/2014.

Letteratura dal Medio Oriente: una breve riflessione

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Alcuni commenti a proposito del romanzo di Fereshteh Sari Sole a Tehran uscito in questi giorni mi hanno fatto nuovamente riflettere sulla ricezione in Italia della letteratura contemporanea non occidentale, soprattutto di quella di matrice medio orientale (dal Marocco ai Paesi del Golfo).

Gran parte del pubblico italiano, o, almeno, dei giornalisti/critici letterari/commentatori radio, continua a stupirsi per costruzioni letterarie non lineari, per sistemi di punteggiatura non “regolari”, per “proditorie” transizioni dalla terza alla prima persona narrante, per “ardite” metafore e così via.

E ciò, nonostante la scelta di narrativa tradotta nella nostra lingua dal persiano, dall’arabo e dal turco si sia incredibilmente arricchita in queste ultime decadi, con conseguente mutata consapevolezza del fatto che una struttura sintattica ambigua o un brusco passaggio di persona fanno spesso parte della cifra stilistica dello/a scrittore/scrittrice straniero/a.

Il problema, forse, sta nel fatto che molta della letteratura arabo-turca-persiana a disposizione sul mercato non è solo tradotta in italiano, ma piuttosto passata nel tritacarne dell’editing per renderla palatabile a quel pubblico che preferisce storie lineari, magari forti (ovvero di denuncia di situazioni socio-politiche), ma pur sempre riconducibili a schemi consueti, alla struttura letteraria-mentale nostrana. Se l’editing però uniforma tutto, noi continueremo a leggere romanzi che dell’originale hanno mantenuto solo la trama, e che non riescono a restituirci la diversità e la bellezza, seppur nella difficoltà, di arrivare all’Altro.