Alcuni commenti a proposito del romanzo di Fereshteh Sari Sole a Tehran uscito in questi giorni mi hanno fatto nuovamente riflettere sulla ricezione in Italia della letteratura contemporanea non occidentale, soprattutto di quella di matrice medio orientale (dal Marocco ai Paesi del Golfo).
Gran parte del pubblico italiano, o, almeno, dei giornalisti/critici letterari/commentatori radio, continua a stupirsi per costruzioni letterarie non lineari, per sistemi di punteggiatura non “regolari”, per “proditorie” transizioni dalla terza alla prima persona narrante, per “ardite” metafore e così via.
E ciò, nonostante la scelta di narrativa tradotta nella nostra lingua dal persiano, dall’arabo e dal turco si sia incredibilmente arricchita in queste ultime decadi, con conseguente mutata consapevolezza del fatto che una struttura sintattica ambigua o un brusco passaggio di persona fanno spesso parte della cifra stilistica dello/a scrittore/scrittrice straniero/a.
Il problema, forse, sta nel fatto che molta della letteratura arabo-turca-persiana a disposizione sul mercato non è solo tradotta in italiano, ma piuttosto passata nel tritacarne dell’editing per renderla palatabile a quel pubblico che preferisce storie lineari, magari forti (ovvero di denuncia di situazioni socio-politiche), ma pur sempre riconducibili a schemi consueti, alla struttura letteraria-mentale nostrana. Se l’editing però uniforma tutto, noi continueremo a leggere romanzi che dell’originale hanno mantenuto solo la trama, e che non riescono a restituirci la diversità e la bellezza, seppur nella difficoltà, di arrivare all’Altro.