una recensione del film su Spazio critico, rivista del Comune di Venezia
http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233
I Rifugiati politici , Cittadini del Nulla
I nodi ciechi e le porte chiuse.
Cosa significa essere rifugiato politico in Italia.
Quando non puoi cambiare la situazione lancia un sasso in mare e osserva la moltiplicazione dei cerchi sull’acqua, forse quel movimento porterà il tuo sussurro fino agli oceani.
“Lo vedevo spesso nei vicoli del centro storico di Trento e in via Roma, nella biblioteca centrale della città. La mattina andava lì, lavava la sua faccia nel bagno, cercava un po’ di calore nel profumo del caffè e delle brioche del bar.
Gli chiedevo: “Come stai?”. Diceva: “Dalla mattina fino alla sera cerco lavoro senza trovare nulla, passo le notti in strada vicino alla stazione sopra i tombini dell’areazione per non congelarmi. Pranzo alla Caritas se arrivo in tempo”.
Poi si è perso. Chiedevamo a chiunque, ma nessuno sapeva nulla di lui. Un giorno abbiamo saputo che aveva richiesto asilo politico alla Svezia. Ancora mesi di silenzio, fino a quando ci dissero che volevano rimandarlo a Trento e che lui, per rimanere là, aveva tentato per tre volte il suicidio nel campo rifugiati. Alla fine l’ufficio competente svedese aveva accettato di prendere in considerazione il suo caso”.
Scriviamo questa lettera affinché il grido di sofferenza di un uomo sia di invito per i nostri concittadini a pensare alla situazione di decine di migliaia di altri esseri umani e più in generale alla condizione del rapporto fra gli uomini del nostro tempo. Come rifugiati politici che vivono in Italia da oltre cinque anni, siamo giunti alla conclusione di dover impugnare la penna e raccontare di quell’uomo indefinito: “Chi è il rifugiato politico? Cos’è l’asilo politico? Cosa significa chiedere quest’asilo all’Italia? Che significa per l’Italia dare questo asilo?”. Il rifugiato politico è l’emblema di tutte delle contraddizioni del mondo globale. Prigioniero di due stati, quello da cui è fuggito e quello che lo ha accolto, e di nessuna cittadinanza.
Un uomo costretto a vivere senza volto. Un fantasma che nel migliore dei casi trova di fronte a sé tre grandi porte chiuse. Infatti, ammesso che il suo corpo riesca a non diventare mangime per i pesci, o a non venir schiacciato dai camion cui si aggrappa per superare la frontiera, o che riesca ad affrontare tutti i confini visibili e invisibili fino ad arrivare in questa terra, una volta ottenuto l’asilo politico trova comunque di fronte a sé tre grandi porte chiuse.
La prima porta. Questa porta riguarda l’impossibilità in Italia di poter dare continuità a quell’attività politica e sociale per la quale il rifugiato ha rischiato la propria vita e per la quale è stato costretto ad abbandonare la terra d’origine, gli affetti e le sue proprietà. Chi entra a far parte della categoria di rifugiato politico non ha infatti la possibilità di continuare un’attività che mantenga le reti create precedentemente o che gli permetta di attivarne di nuove nel paese ospitante. Questo è il caso di giornalisti, attivisti, avvocati, registi e studenti che non hanno abbandonato il proprio paese alla ricerca di un miglioramento economico, ma con l’obiettivo di perseverare nelle loro attività politiche, sociali e culturali. Non potendo fare ciò, il loro sacrificio, e quello degli ex colleghi, dei familiari e degli amici rimasti nel paese d’origine, perde qualsiasi senso.
In un paese come l’Italia, privo di una legge organica in materia, nei migliori dei casi il rifugiato si vede costretto a vivere di piccoli sussidi che ne permettono la sopravvivenza ma non ne favoriscono la realizzazione personale. Si permette al corpo di sopravvivere mentre l’anima avvizzisce. Stiamo parlando di uomini e donne che hanno elevati titoli di studio, specializzazioni, spirito imprenditoriale, desiderio di restituire il favore dell’accoglienza arricchendo la società che li ospita. Persone dotate del carisma necessario per contrapporsi a regimi dittatoriali e sanguinari e che spesso hanno una tale forza d’animo da poter dare certamente un prezioso contributo a qualsiasi società. Eppure ogni loro intenzione, ogni loro energia propositiva e vitale è spenta dalla totale insensatezza del meccanismo burocratico che “gestisce” la loro nuova vita di non-cittadini. Un meccanismo che preferisce elargire sussidi, trovare lavori poco decorasi ma “controllati”, rinchiudere in alloggi “protetti” o superaffollati al permettere un’attiva realizzazione delle proprie aspirazioni.
La seconda porta. Questa porta è sbarrata dalla “Convenzione di Dublino” cui aderiscono 24 paesi europei e in cui si obbliga il primo paese ricevente a registrare le impronte digitali del richiedente e limitarne entro i propri confini la residenza, la circolazione e il lavoro: questo rende la condizione di asilo politico un esilio di fatto. Un regolamento criticato fortemente sia dal Consiglio Europeo per i rifugiati e gli esuli che dall’UNHCR in quanto incapace di tutelare i diritti fondamentali dei rifugiati. Ed è paradossale che in una società globale in cui tutto sembra potersi muovere liberamente (merci, notizie, stili di vita, contenuti culturali e mediali) le persone non abbiamo gli stessi “diritti di movimento”. Si sente spesso dire che in questo tempo le persone sono trattate come merci. Ma nel caso dei rifugiati politici lo status di “persona” sembra addirittura inferiore a quello di qualsiasi prodotto commerciale.
La terza porta. Questa porta è chiusa dall’impossibilità del ritorno in patria. I rifugiati si trovano costretti, così, ad ondeggiare in un limbo. Un limbo che più che una questione sociale o di dignità personale sta sempre più diventando un metro di civiltà. Secondo recenti dati Istat negli ultimi due anni, sul solco della crisi economica che ha colpito l’Italia, già 800.000 immigrati hanno deciso di lasciare il Paese per rientrare nei loro stati d’origine. E’ bene ricordare, anche se può sembrare tautologico, che il rifugiato politico a differenza degli immigrati non ha la possibilità di tornare nel proprio paese di origine nemmeno quando il paese “ospitante”, come nel caso di un’Italia in profonda crisi, versa in situazioni economiche e sociali che non ne permettono una vita dignitosa. Ed è soprattutto utile ribadire che sul limbo in cui fluttuano i rifugianti politici pende una duplice condanna sancita dalle mancanze dei governi dell’Unione Europea (Premio Nobel per la Pace 2012). Perché duplice condanna? In primis perché fuggono da conflitti o regimi dittatoriali direttamente o indirettamente sostenuti dagli stessi governi europei che, in secondo luogo, non hanno attuato politiche condivise ed efficaci per la loro accoglienza, inserimento e valorizzazione e per il rispetto della loro dignità. Fatto drammaticamente rilevante per l’Italia che, ad oggi, non ha ancora espresso una benché minima legge in materia. Attualmente l’Italia sta ospitando solo 58.000 rifugiati politici a fronte dei 570.000 ospitati dalla Germania. Eppure sembra solo quello italiano ad essere un caso emergenziale, sebbene i numeri ne smentiscano l’intensità.
Queste tre porte, serrate con l’efficacia del ferro e del cemento, sono tuttavia invisibili e non servono né pugni né baionette per aprirle. Solo poche parole d’ordine ne possono permettere magicamente l’apertura. Parole che però possono sciogliere questo incantesimo inumano solo se pronunciate a gran voce da tutta la società.
Queste parole d’ordine, che vorremmo sentire urlate a gran voce dalla società civile e dai mezzi di informazione, altro non sono che tre semplici provvedimenti: una legge organica per i rifugiati politici, l’abolizione della Convenzione di Dublino e l’accelerazione dei tempi burocratici per il diritto di cittadinanza. Senza queste tre parole d’ordine il rifugiato politico non potrà mai trovare un posto all’interno della società, non potrà mai conoscere i propri diritti doveri, non potrà mai essere un attore sociale attivo, non potrà contribuire ad arricchire la società che lo ha accolto e di cui fa parte. Ma rimarrà un cittadino del nulla. Senza cittadinanza altro non è che un “fantasma burocratico” in balia del semplice e puro assistenzialismo. Come un bambino intelligente e dotato costretto a rimanere tutta la vita in una culla. Sempre accudito, mai adulto.
Non potendo varcare le tre porte il rifugiato politico cade nel vuoto dei “tombini” lasciati aperti nelle strade. Viene risucchiato dai loro gorghi e scompare fra i rifiuti senza nemmeno passare per la raccolta differenziata.
La caduta passa attraverso quattro diversi gironi danteschi in cui il rifugiato si trova ad essere risucchiato in un movimento lento, graduale e inesorabile.
Il primo girone è rappresentato dagli enti locali – nel caso del Trentino dal Cinformi. Senza una legge organica il rifugiato politico percepisce subito gli enti locali come strutture imbalsamate e inermi di cui non è chiaro il ruolo né le direttive. Passata la fase emergenziale dell’accoglienza immediata (fase che può durare anche alcuni anni), il rifugiato politico viene poi spinto dagli enti locali nella bocca del secondo girone: quello delle agenzie per il lavoro.
In questo girone – quello in cui i condannati sono costretti a cercare un lavoro che non avranno mai – l’assenza della cittadinanza e l’impossibilità di potersi muovere liberamente nei diversi stati alla ricerca di un lavoro che corrisponda alle proprie inclinazioni crea il più grande dei circoli viziosi: la mancanza di offerte di lavoro dovuta alla crisi economica, infatti, obbliga all’assistenzialismo continuo, ultima via verso il margine della società.
Il terzo girone passa per le infinite vie degli assistenti sociali e dei loro tentativi di trovare alloggi protetti, case famiglia e lavori scartati dagli italiani.
L’ultimo girone, esaurite tutte le possibilità di inserimento, passa per il semplice meccanismo di soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza presso enti legati alla Chiesa, come ad esempio Caritas.
Il rifugiato entra così in una serie di circoli viziosi in cui ogni emergenza ne produce un’altra peggiore. Intendiamoci, nessuno dei livelli ha delle colpe o semplicemente delle mancanze specifiche. E’ l’intera impalcatura che non regge e che fa si che tutti navighino a vista e nessuno sappia realmente cosa fare. Sembra infatti sempre più evidente che nessuno dei livelli istituzionali (i gironi) sia realmente preparato ad intervenire nella gestione di questo fenomeno con strumenti adeguati e specificatamente studiati per i rifugiati politici. L’intervento generico e approssimativo in realtà ne facilita la caduta o crea nei migliori dei casi un sistema assistenzialistico a ciclo continuo che attraverso fondi europei, o quelli stanziati ad hoc per i casi emergenziali, arricchisce i gironi ma non redime le anime dannate.
Alla fine e nel fondo dei quattro gironi c’è la pace dei sensi (per le istituzioni) e l’inferno (per i rifugiati), ovvero: l’assenza di qualsiasi responsabilità.
Al di là della precarietà economica, la vera caduta nel vuoto è la fragilità mentale che consegue a tale trattamento e che, se non conduce necessariamente alla morte fisica, ne comporta di certo una psicologica: il rifugiato diventa un’anima morta in un corpo mobile e la società subisce il progressivo ingrandimento di un cimitero di corpi senza nome che camminano nella città, mangiano in chiesa e dormono per strada. Morti viventi cui è tolta la possibilità di creare rete e lavoro e che diventano così un pericolo per la società, oltre che per sé stessi. Il tombino va dunque chiuso dipingendo aperture sulle pareti. Solo attraverso una legge organica, e quindi istituzioni adeguate, si possono rompere questi circoli viziosi e creare uno spazio in cui l’asilo politico sia ponte tra i beni culturali e sociali di due paesi differenti.
Per quanto riguarda il nostro caso specifico di rifugiati politici, dopo più di cinque anni vissuti in Trentino abbiamo iniziato ad amare questa terra e a tessere con essa dei legami profondi. Una terra in cui abbiamo cresciuto nostro figlio che parla e si sente in tutto e per tutto italiano. Per lui il Trentino è il suo pianeta, la sua famiglia allargata e la sua infanzia. E’ una parte inseparabile del suo Sé sulla quale sta costruendo l’uomo che sarà un domani.
Una terra che inoltre abbiamo provato a vivere intensamente a livello sociale e culturale attraverso molteplici progetti: innanzitutto il “Progetto Afghanistan 2014” realizzato con la collaborazione del Forum per la Pace del Trentino, di Filmwork Trento e delle Fondazioni Fontana e Mehregan. Un progetto dai molti risvolti politici, sociali ed economici che coinvolge importanti attori esteri e locali e che si propone di fare del Trentino il centro internazionale di un profondo dialogo interculturale sul futuro dell’Afghanistan ma soprattutto su un futuro comune basato sulla cultura della pace. Altri progetti hanno invece riguardato più strettamente la nostra attività di registi. In questi anni abbiamo infatti prodotto e realizzato in Trentino diversi film e portato con orgoglio il nome della Provincia Autonoma di Trento alle oltre cinquanta proiezioni presentate all’estero e in altre regioni d’Italia anche in occasione di importanti kermesse e festival internazionali. Infine, da tre anni a questa parte abbiamo dato vita all’Associazione Sociocinema, nata in collaborazione con alcuni studenti della facoltà di sociologia dell’Università di Trento. Un’associazione che attraverso un workshop di cinematografia digitale, da noi tenuto, promuove l’uso di strumenti digitali per raccontare la realtà sociale.
Nonostante tutto ciò, nonostante i nostri sforzi per integrarci ed essere parte attiva del tessuto sociale che ci ha accolti, ci troviamo però nella situazione di dover continuamente scontrarci con gli innumerevoli ostacoli e le difficoltà che, come sopra descritto, ogni rifugiato si trova a dover affrontare in questo paese. Difficoltà che limitano la nostra capacità di agire in modo indipendente e di fronte alle quali tutte le istituzioni sembrano essere impotenti. Ed è proprio vista la mancanza di responsabilità manifestata a qualsiasi livello dalle istituzioni e data la situazione paradossale in cui ci troviamo, ad esempio quella di disporre di finanziamenti in Paesi esteri cui non possiamo accedere per il semplice motivo di non possedere una cittadinanza (finanziamenti che se sbloccati ci permetterebbero di generare progetti e ricchezza anche per la terra che ci sta ospitando) chiediamo la cittadinanza immediata. Una richiesta che non deve essere intesa nell’ottica dello scontro, ma come forma di resistenza non violenta e come strumento per poter diventare autonomi e indipendenti rinunciando a qualsiasi forma di assistenza. Chiediamo la cittadinanza immediata come atto d’amore totale verso il territorio e le persone che ci hanno accolto e in cui abbiamo investito molto, affettivamente e professionalmente. Vogliamo continuare a farlo, con ancora maggior trasporto e sentimento, ma da cittadini italiani.
Razi Mohebi
Soheila Mohebi
11 Aprile 2013
http://meykhane.altervista.org/recensioni.html
L’Afghanistan ospita storie letterarie che si esprimono in lingue differenti, le cui principali sono la dari, una variante del persiano, e il pashto, anch’essa appartenente al ramo orientale delle lingue iraniche. Rispetto al consorella, la dari vanta una più cospicua tradizione letteraria che da secoli si interseca (per motivi storici e culturali) con quella dell’Iran propriamente detto. Se nei secoli scorsi il flusso dei letterati tra occidente iraniano e oriente indo-afghano era virtualmente reciproco, dipendendo spesso dal mecenatismo di cui facevano sfoggio i rappresentanti delle diverse dinastie insediati ora sull’altopiano iranico ora tra le montuose valli del centr’Asia, nelle ultime decadi è indubbio che sia l’Iran a rivelarsi ricettivo per gli scrittori nati in terra d’Afghanistan. L’invasione sovietica prima e il regime dei Taleban poi hanno spinto milioni di profughi nei paesi confinanti, ma è proprio in Iran che che alcuni intellettuali afghani hanno trovato la via per frequentare corsi di scrittura creativa e poi, seppur con fatica, quella per pubblicare le proprie opere.
Nei secoli passati la letteratura afghana, come molte altre dell’area, compresa quella persiana, era soprattutto costituita da poesia, ma negli ultimi anni la prosa, specialmente nella forma del racconto breve sembra aver preso il sopravvento fra gli scrittori afghani, almeno tra gli uomini, mentre le donne sembrerebbero ancora legate alla lirica.1
Tuttavia, le circostanze storiche e sociali sembrano aver travasato nella nuova letteratura prosastica una sua componente essenziale, e, in alcuni periodi preponderante, ovvero il fakhr: letteralmente “onore, orgoglio, vanto”, in passato era una vera e propria forma retorica esprimente in una parte dell’ode (o in tutta) una serie di minacce e di violenze contro il nemico. Certo nella nuova letteratura il fakhr non si esprime in forma attiva, non c’è alcun compiacimento da parte dello scrittore in soldatesche smargiassate auto celebrative, ma, piuttosto, c’è il passivo subire una infinita tragedia bellica di proporzioni epiche dalla quale non ci si riesce a liberare.
Indubbiamente, le buone penne come quella di Mohammad Hossen Mohammadi (Mazar-e Sharif, 1975) riescono a rispecchiare verità intrise di atrocità trasfigurandole nel lirismo, in dimensioni oniriche, in quel realismo magico in cui scrittori di tutto il mondo spesso si rifugiano per evitare censure, o, semplicemente, attenuare i propri dolori. Attenzione, però, la raccolta presente non è l’ennesimo libro fabbricato per l’Occidente, dove improbabili cacciatori di aquiloni mescolano una sapiente miscela di temi politically correct per non scontentare nessuno, o, peggio, per giustificare ingiustificabili guerre. Apparentemente, Mohammad Hossen Mohammadi non accusa nessuno, neppure i carnefici, a loro volte vittime, si limita a guardare con occhio dolente una umanità resa disumana dalle circostanze, senza esprimere giudizi. In questo senso, la sua letteratura sembra distaccarsi da quella di un suo collega contemporaneo col quale purtuttavia condivide molto, ovvero Mohammad Asaf Soltanzade, il quale nella sua raccolta Perduti nella fuga (2000) si esprimeva con vena più politica e polemica, seppur stemperando i giudizi in una rarefatta area di magia, e puntava il dito contro tradizioni barbare, superstizioni, interpretazioni pseudo-religiose assurde.2
Nei racconti di Mohammad Hossen Mohammadi, invece, apparentemente non c’è nulla di tutto questo, l’Autore scandaglia, pone dinnanzi all’occhio del lettore un panorama angosciante di bambini orfani, ragazzi mutilati, donne stuprate e/o costrette alla prostituzione per sbarcare il lunario, soldati crudeli e impauriti, gente comune la cui natura umana è stata perduta per sempre. Tuttavia, anche nella sua assenza il giudizio dello scrittore è presente: così, se la scusa generale per i mali dell’Afghanistan è quella dell’incombente presenza della “religione”, l’Autore ne cancella ogni traccia. Anche il nome di Dio non è che un ritornello usato da un mendicante per farsi fare la carità che diventa addirittura il suo nome (Allah…Allah); oppure ricorre come invocazione a un dio minore, un surrogato di talismano pagano che la traduttrice, opportunamente, rende con la minuscola.
I racconti di Mohammad Hossen Mohammadi sono scomodi, inquietanti, disturbanti, ciononostante, oltre a costituire un esempio di prosa artistica ci ricordano l’ingombrante ma insopprimibile presenza di milioni di persone il cui destino resta sospeso fra montagne gelide e deserti infuocati.
Anna Vanzan
1Su questo v. il mio “Il doppio esilio. La poesia delle afghane rifugiate in Iran”, in El Ghibli, 5, 22, 2008: http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_05_22-section_6-index_pos_1.html
2Mohammad Asaf Soltanzade, Perduti nella fuga, AIEP, S. Marino, 2002.
Le “primavere arabe” hanno scatenato una serie di conseguenze cruciali per il destino non solo dei Paesi coinvolti, ma, più in generale, di tutti quelli che comunemente vengono definiti “islamici”: una di queste è il dibattito sulla natura dei partiti islamici/islamisti e la loro (in)adeguatezza nel reggere le sorti politiche di un Paese.
Al di là, infatti, dell’interrogativo sulle garanzie democratiche (tutela delle minoranze, delle donne, delle libertà personali ecc) che i partiti islamici possono offrire, il vero banco di prova della loro capacità di governo è costituto dalla economia. In altre parole, fra gli elettori che hanno votato l’ En Nahda tunisino e i Fratelli Musulmani egiziani ve ne sono moltissimi che, pur magari preferendo un partito laico, hanno dato il voto a compagini che sembravano offrire maggiori garanzie di stabilità e, soprattutto, di capacità di traghettare i Paesi fuori dalla crisi economica. A due anni di distanza, il fallimento delle politiche economiche della dirigenza tanto tunisina quanto egiziana è sotto gli occhi di tutti: oltre al fatto di non essere stati capaci di implementare nessuna misura per combattere crisi e disoccupazione, nei partiti al potere permangono i vizi dei vecchi regimi, quali corruzione e nepotismo (ultima la notizia, qualche settimana fa, dell’ennesimo tentativo del Presidente Morsi di divenire il nuovo faraone, questa volta favorendo la nomina del figlio appena laureato a una posizione pubblica apicale).
Se i “laici” che hanno riluttantemente votato per i partiti islamici sono comprensibilmente arrabbiati, altrettanto delusi si dimostrano gli elettori un tempo convinti che En Nahda e i Fratelli Musulmani fossero almeno capaci di eliminare immoralità e disonestà. Tutto ciò sta incrementando la frustrazione delle popolazioni che hanno concorso al cambiamento epocale avvenuto in Tunisia e in Egitto, che ora scendono in piazza ormai con regolarità per inscenare la loro profonda insoddisfazione, mentre le élite dirigenziali mascherano la loro incapacità a colpi di “islamizzazione” della vita pubblica pensando, da una parte, di assicurarsi la benevolenza delle frange più estreme (tanto in patria quanto all’estero, fra i paesi sponsor dell’islamizzazione quali il Qatar e l’Arabia Saudita); dall’altra, di affermare la propria legittimità di partiti “sacri” e intoccabili.
Ma fra l’oltre 70% dei giovani egiziani che non hanno lavoro il mito dei Fratelli Musulmani è in declino: votati soprattutto perché per decadi hanno sostituito lo stato nell’assistenza sociale e sanitaria nei confronti della popolazione bisognosa, i Fratelli Musulmani si sono rivelati però incapaci di creare posti di lavoro e opportunità. Siamo lungi dal sostenere che ciò provocherà una disaffezione generale per i partiti islamici nell’area, ma, di certo, il mito della soluzione offerta dall’islam politico ai problemi delle società arabe e non rischia di infrangersi proprio a seguito delle “primavere arabe” liquidate da qualche osservatore come “primavere islamiste”.
L’islamismo politico, che come struttura organizzata ha conseguito successi cospicui, posto alla prova della gestione di un paese si sta rivelando fallimentare: le ideologie, infatti, non bastano a confermare il consenso, soprattutto in realtà dove lo scontento sociale ormai sconfina pericolosamente in una frustrazione dagli effetti potenzialmente esplosivi e destabilizzanti.
A sorpresa, il primo ministro turco Erdoğan ha rimpastato il suo governo sostituendo ben quattro ministri, perlopiù in posti chiave quali il Ministero degli Interni, della Giustizia, della Cultura e Turismo e della Sanità. Gli osservatori locali inseriscono la manovra (cui Erdoğan, peraltro, non è nuovo) nella strategia per le prossime amministrative che si terranno nel 2014: e, difatti, il premier ha esonerato dall’incarico alla Cultura Ertuğul Gűnay dopo anni di ottimo lavoro solo per permettergli di candidarsi sindaco a Izmir, carica solitamente vinta dal partito d’opposizione repubblicano (CHP). Izmir è ritenuta un bastione “laico”, ma è luogo troppo importante perché il partito al governo (AKP) se la lascia scappare, ed ecco quindi che l’AKP candida alla sua guida uno stimato ex ministro di tendenze laiche e liberali.
Proprio da Izmir era partita il mese scorso un’offensiva contro Erdoğan, di natura culturale: il locale direttivo della pubblica istruzione, infatti, aveva criticato la decisione del governo centrale di includere nella lista dei cento libri indispensabili nel curriculum scolastico di ogni cittadino turco il romanzo Uomini e topi di Steinbeck, giudicandone alcuni passaggi “volgari e razzisti”. Il paradossale (in quanto lanciato proprio da un’amministrazione “laica”) attacco nei confronti del Ministero della Cultura ha avuto così l’effetto di richiamare l’attenzione del governo centrale verso le coste egee.
La polemica scaturita ha gettato benzina sul fuoco della diatriba tra l’anima secolare e quella religiosa turche, particolarmente accesa in questo periodo in cui la Turchia sta revisionando la propria Costituzione, per la cui stesura l’AKP deve necessariamente cercare la collaborazione del CHP, principale partito d’opposizione. La seconda alternativa sarebbe rappresentata dal partito ultranazionalista (MHP), ma ciò rappresenterebbe sia un allontanamento della Turchia dall’Europa (e della sua possibile entrata nella UE) sia un ritorno indietro nella trattativa di riappacificazione con la componente curda ultimamente intensamente perseguita dal governo.
La collaborazione tra l’AKP e il CHP sembra quindi la strada più naturale ed auspicabile, ma, ovviamente, non senza intoppi. Il CHP, animato da laici moderati e da intransigenti kemalisti, rimprovera al partito di governo, tra l’altro, di praticare una politica non meritocratica favorendo l’occupazione dei posti pubblici di cittadini di “comprovata fede musulmana” a discapito degli altri. L’AKP, di rimando, risponde che per quasi cent’anni la Turchia è stata dominata dai LAST (turchi laici, ataturkisti, sunniti) a molti dei quali sono stati assegnati incarichi non per merito ma per “comprovata fede kemalista”.
Resta la necessità, da parte del governo turco, di comporre quanto prima la questione curda, anche per portare a casa un risultato positivo dopo alcuni fallimenti verificatisi in politica estera, soprattuto in relazione alla situazione siriana: fintanto che il regime di Bashar al-Assad rimane saldo in sella, infatti, la Turchia non riesce a perseguire il suo scopo di proporsi come nazione leader nell’area.
Erdoğan e i suoi continuano a farsi forti nel buoni risultati in campo economico e della stabilità del Paese in questo senso: a breve vedremo se ciò basterà a garantire all’AKP la guida della Turchia.
dal Giornale di Brescia 28/1/2013.
L’attenzione internazionale ha spostato da tempo i riflettori dall’Iraq, ma il Paese rappresenta più che mai un utile laboratorio di lezioni da imparare ed applicare al Medio Oriente allargato. Se la caduta di Saddam ha rappresentato l’emergere della componente sciita maggioritaria per anni vessata da quella sunnita, il dopo Saddam si sta contraddistinguendo per un banale rovesciamento delle posizioni, con i sunniti che protestano lamentando disparità e sperequazioni compiuti ai loro danni dal governo sciita.
Certo i sunniti hanno le loro ragioni se a loro favore s’è recentemente espresso addirittura un leader sciita del calibro di Muqtada al Sadr, ma i partiti sunniti, che stanno puntando ad un’ulteriore smembramento del Paese con lo scopo di ottenere uno stato indipendente sul modello di quello curdo, non si peritano di servirsi, per i loro scopi secessionisti, di militanti affiliati ad al Qaeda. Molti di questi ultimi si sono infiltrati in Siria, con l’intendo di abbattere il regime alawita e di instaurare regimi oltranzisti tanto in patria quanto nella Siria dell’inevitabile post Assad.
E se l’Iraq non può essere paragonato alla Siria per numero di vittime civili, certamente non offre l’immagine di un paese pacificato, con un numero di morti che supera, per il solo 2012, le 4mila unità, morti causati perlopiù dallo scoppio di oltre 900 bombe che hanno causato altresì migliaia di feriti. Per consolarsi del fallimento iracheno alcune osservatori statunitensi hanno affermato sulla stampa nazionale che l’Iraq è assai pacifico di alcune province americane, quelle quella di Chicago, dove le vittime di delitti vari superano, in percentuale, quelle provocate dalla lotta tra fazioni irachene.
Ma l’Iraq è l’esempio lampante di errori commessi in passato e che adesso si stanno perpetuando contro altri regimi: ad esempio, le sanzioni adottate 1991 al 2003 contro l’Iraq non hanno per niente indebolito Saddam, anzi, l’hanno rafforzato, mentre hanno fiaccato la popolazione civile. E la conseguente svalutazione ha ucciso la classe media, costretta alla povertà o alla migrazione. Il prezzo del rovesciamento del regime di Saddam e la conseguente occupazione militare è stato pagato dalla popolazione irachena anche in termini di salute: secondo l’OMS nel Paese si registrano tassi di mortalità infantile preoccupanti, dovuti a inquinamento da piombo e mercurio contenuti nelle munizioni usate dalle truppe NATO. In Iraq esistono 750 mila vedove, molte delle quali disposte a diventare seconde mogli di qualcuno pur di evitare la fame o la strada della prostituzione che ora costituisce un business in aumento esponenziale. E in quell’Iraq che nel 1982 aveva ottenuto un riconoscimento dall’UNESCO per essere riuscito a debellare l’ analfabetizzazione, ora si trovano sempre più persone incapaci di leggere e scrivere, in percentuale che fra le donne supera il 30%.
L’instabilità politica irachena provoca una spirale di violenza che trova terreno fertile fra una popolazione oltremodo provata e, a tratti, “imbarbarita”, anche se le condizioni per favorire un ritorno dell’economia ci sarebbero: basti pensare che, con il crollo dell’esportazioni petrolifere iraniane, l’Iraq è ora secondo solo all’Arabia Saudita per la produzione dell’oro nero. Ma il petrolio rischia di divenire un ennesimo motivo di scontri: i curdi iracheni, infatti, hanno già siglato lucrosi contratti con compagnie internazionali (quali la Exxon e la Total) che tagliano fuori il governo di Baghdad. Quest’ultimo ha protestato ribadendo che solo il governo centrale ha il potere per firmare accordi che coinvolgano lo sfruttamento di energie nazionali.
da 15/1/2013.
L’India è scossa da un’ondata di proteste senza precedenti contro le violenze sessuali che hanno causato in pochi giorni la morte di una ragazza e il ferimento di altre. La violenza contro le donne nel Paese non rappresenta certo una novità: da decadi le organizzazioni femminili e quelle per i diritti umani si battono per denunciare le varie forme di sopruso di cui le indiane sono vittime quotidiane, addirittura prima delle nascita, che a moltissime viene preclusa (il fenomeno dell’amniocentesi usata per determinare il sesso del nascituro e sbarazzarsi delle femmine è tanto diffuso quanto esecrabile). Per non parlare delle discriminazioni cui una indiana è soggetta, quali le limitazioni dei suoi diritti alla proprietà terriera e al possesso di beni in genere; la discriminazione di salario e posizione nel luogo di lavoro; il minore accesso all’istruzione e la maggiore percentuale di abbandono degli studi rispetto ai maschi; la posizione di inferiorità nella conduzione della famiglia.
Certo vi sono onorevoli eccezioni, basti pensare che l’India è stata uno dei primi Paesi al mondo a avere una premier donna e che l’attuale presidente del Partito di maggioranza è una donna, per di più di origine straniere: ma la elezione di Indira e Sonia Gandhi è dovuta perlopiù alla loro vicinanza con potenti leader maschi del Paese. Anche altre donne che hanno raggiunto posizioni importanti in India debbono le loro carriere al vantaggio dinastico, più che a una reale volontà generale di riconoscere alle donne un ruolo apicale.
Inoltre, per mantenere il potere sono costrette a non occuparsi di politiche di genere, in quanto sarebbe visto come una debolezza, un’ammissione che le donne, quando elette, si occupano di questioni “di donne”. Ciò, in parte, spiega, anche se non giustifica, l’apparente distacco di Sonia Gandhi da quanto sta accadendo nel suo Paese, che si sta però ribellando e sta reagendo in modo diverso dal passato contro l’abuso nei confronti delle donne. I cortei che serpeggiano nelle piazze indiane chiedono giustizia, nuove leggi e maggiore controllo su chi le applica, dalle forze di polizia (queste ultime spesso colpevoli di reticenza, se non addirittura di complicità coi violentatori) ai magistrati: nel 2011, solo il 26% degli oltre 24mila casi di violenza contro le donne denunciati sono stati puniti.
Il fatto che l’ordine degli avvocati indiani rifiuti ora di difendere i violentatori è un importante segnale del cambiamento della mentalità di un’intera nazione, così come la presenza di molti uomini nei cortei di protesta. Altrettanto importante è che lo Stato abbia finalmente deciso di intervenire addestrando corpi speciali di polizia femminile e che molte regioni stiano istituendo centralini d’ascolto per aiutare le indiane in difficoltà. Ma il decisivo e necessario declino di questa violenza richiede l’azione congiunta di tutti i settori della società civile, a cominciare dalla famiglia, nella quale si consumano violenze quotidiane anche da parte di altre donne. I quotidiani riportano storie ordinarie di indiane che vengono percosse, o addirittura uccise dalle suocere per questioni di dote, delitti poi mascherati da falsi incidenti domestici. Molte mogli sono regolarmente picchiate dai mariti all’interno di matrimoni infelici perché per la maggior parte ancora combinati come vuole la tradizione, mentre la società ha oramai preso un’altra strada.
Le indiane sono ormai mature e non si riconoscono più nello stereotipo creato da Bollywood che le vuole tutte moine e danze per i loro amati; esse chiedono rispetto, pari opportunità e partecipazione alla vita del loro Paese.
da Giornale di Brescia 5/1/2013
Tempo di vacanze, magari in climi più miti, e gli italiani (se possono) sembrano amare sempre di più o paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati, la cui città principale, Dubai, se manca di attrattive artistiche è in compenso ricolma di negozi e ogni tipo di divertimenti. Quelli degli Emirati Arabi Uniti sono musulmani ma “aperti”, insomma, musulmani buoni. Su questo pare concordare anche Mario Monti, il quale, nel mese scorso, ha condotto una visita proprio a Dubai, dove il nostro ambasciatore locale ha dichiarato che “l’Italia considera gli UAE come modello di tolleranza nel mondo arabo e apprezza i progressi ottenuti dal loro governo nel rispetto dei diritti umani”.
Visto che lo scopo della visita del nostro oramai ex premier era quello di batter cassa, una bugia potrebbe giustificare i mezzi: l’importante è esser coscienti che si tratta di bugia, perché il governo degli UAE tutto è tranne che rispettoso dei diritti umani. Semmai, le autorità del Golfo sono state accurate nel forgiare una narrativa che ritrae i loro Paesi come accoglienti e tolleranti. Se questa politica ha favorito l’acquisto di immobili a Dubai e dintorni da parte di magnati e calciatori, i nuovi proprietari dovrebbero ricordarsi di come le autorità locali tengano in condizioni pressoché disumane le maestranze coinvolte nelle costruzioni: salari bassi, condizioni di lavoro pesanti (per il clima e per la mancata sicurezza dei cantieri), mancata assicurazione, mancata assistenza sanitaria, in pratica, nessun diritto per le migliaia di lavoratori stranieri che costituiscono la manovalanza UAE. E che dire dei diritti civili dei locali? Solo il 12% della popolazione UAE ha diritto di voto, stampa e internet sono imbavagliati, gli studenti che si sono mossi pubblicamente, sulla scia delle “primavere arabe” ad invocare i propri diritti si sono trovati con il passaporto confiscato, mentre componenti della società civile che hanno osato criticare la dirigenza si ritrovano in carcere da oltre un anno.
Essere condannati addirittura all’ergastolo per ribellione contro “le istituzioni” non è difficile, e dal mese scorso è ancora più facile: bastano una vignetta satirica, un blog che critichi le autorità o fornire informazioni “lesive” delle autorità locali alla stampa per incorrere in pene pecuniarie e carcerarie.
Le autorità UAE si difendono con la ormai trita scusa dei governi islamici illiberali: esse fungerebbero, secondo la versione ufficiale, da bastione contro il fondamentalismo islamico e il dilagare dei partiti politici islamici. Soprattutto, esse tenterebbero di arginare l’influenza del partito islamico al-Islah, che riscuote le simpatie di molti anti governativi; ma, con la scusa di combattere al-Islah, le autorità UAE stanno arrestando magistrati, avvocati, professionisti, studenti. Che fine abbiano fatto alcuni di questi non è dato a sapere, nonostante organizzazioni per i diritti umani si stiano dando da fare, anche portando a conoscenza il parlamento europeo della situazione. Quest’ultimo lo scorso ottobre ha manifestato perplessità nei confronti della conduzione illiberale dei paesi UAE, chiedendo alle autorità garanzie sui rispetto dei diritti dei cittadini.
Al momento la risposta sembra essere tracotantemente negativa. E’ un fatto su cui anche i turisti dovrebbero meditare, tra uno shopping nel ricco centro di Dubai e una passeggiata lungo il suo allettante lungomare.
da Giornale di Brescia 23/12/2012