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Ho letto l’art di Sofri dulle donne di Tehran….

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Solitamente non innesco polemiche, ma l’articolo apparso sulla Repubblica di oggi a firma di Adriano Sofri mi ha fatto veramente arrabbiare. Nella tradizione del peggior giornalismo, dopo mezz’ora che è in Iran Sofri ha già capito tutto: in realtà, le informazioni fornite non sono poi delle novità. Ci illumina sul fatto che i persiani non sono arabi (grazie); ci ammanisce le solite statistiche sulle donne iraniane colte, istruite, che guidano ecc; e preannuncia che le ragazze avranno una parte nelle ribellioni contro l’establishment. Peccato poi che, nonostante la sua presunta crociata a favore delle iraniane, scivoli nel solito commento orientalista: una delle giornaliste locali che sono con lui alla conferenza stampa Bonino-Zarif, sentendo che la nostra Ministra degli Esteri loda la professionalità delle giornaliste iraniane, si apre in un “sorriso infantilmente felice, come per un regalo“. Ho già letto questo commento in un resoconto di viaggio francese del XVIII secolo: basta così, et de hoc satis.

 

Perchè non piace la pace con l’Iran

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Come prevedibile, l’accordo, per quanto provvisorio, sul programma nucleare iraniano siglato tra la Repubblica Islamica d’Iran e le potenze occidentali, è in pericolo. Con esso è in periglio il progetto di pacificazione in Medio Oriente, che appoggia sul riposizionamento dell’Iran come fulcro e motore d’ogni tensione nell’area. In questi anni, infatti, l’Iran è stato investito di responsabilità più o meno reali, relative a ogni crisi scoppiata attorno ai suoi confini: dagli attentati in Iraq (della cui perenne destabilizzazione s’incolpa Tehran e i suoi aiuti alla leadership sciita); alla guerra civile siriana (in cui l’Iran è accusato d’appoggiare incondizionatamente Bashar al Asad); alle continue crisi libanesi (uno dei cui protagonisti, il partito Hezbollah, è una “costola” della Repubblica Islamica); per finire in Afghanistan, dove è impantanata la forza internazionale, impossibilitata però a stringere una necessaria alleanza con Tehran che sarebbe certamente foriera di positivi cambiamenti.

E’ soprattutto negli Stati Uniti che trova favore il partito “anti-Iran”, per il quale il Paese dell’altopiano è un nemico ormai storico e che imputa a Tehran ogni avvenimento negativo; i sostenitori di questa teoria sostengono che la Repubblica Islamica rappresenta una minaccia per Israele, che la tregua dell’accordo consente all’Iran di congelare il proprio programma ma di non eliminarlo, e, soprattutto, che l’accordo ha riportato l’Iran al centro della diplomazia internazionale, sdoganandolo da “stato canaglia” e rifacendogli nutrire ambizioni di protagonista in Medio Oriente.

In effetti, la costruzione dell’Iran quale “nemico” internazionale ha avuto una leggera scossa lo scorso 24 novembre, e anche se l’intervento sulle sanzioni è così minimale da non poter avere profondi benefici effetti sull’economia iraniana, il suo valore simbolico è altissimo, tanto per la politica internazionale quanto per quella domestica iraniana. Ad esempio, il successo dell’accordo di Ginevra ha consentito al Presidente Rouhani, suo principale sponsor, di intervenire pesantemente sull’amministrazione locale, sostituendo quasi tutti i governatori delle province, appartenenti all’ultraconservatore Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, per sostituirli con civili di comprovate abilità. Conoscendo inoltre il poco gradimento riscosso nei paesi arabi circostanti, il governo di Tehran ha rimesso in piedi i negoziati per restituire quanto prima agli Emirati le tre isole situate nel golfo di Hormuz, importante check point petrolifero, oggetto di contesa fin dai tempi del deposto shah. Il fronte arabo anti-Iran, prima compatto, ha ricevuto una scossa pure grazie al rifiuto del sultano dell’Oman di far parte di un’eventuale coalizione araba in funzione anti Repubblica Islamica: “siamo in una fase storica in cui il mondo ha bisogno di pace e stabilità” ha dichiarato qualche giorno fa Yousif al Ibrahim, ministro degli esteri omanita.

Certo l’accordo sul nucleare comporta alcuni rischi, ma gli scettici dovrebbero porsi il quesito se i rischi della negoziazione siano maggiori del continuare a tenere un paese come l’Iran sotto scacco minacciando di bombardarlo. I negoziati meritano una chance e così la pace nel mondo.

da Giornale di Brescia 15/12/2013

Iran e accordo nucleare: un commento “da parte iraniana”….

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A Tehran si festeggia. Finalmente, l’accordo raggiunto a Ginevra tra la Repubblica Islamica d’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio delle Nazioni Unite concede all’Iran di alleggerire il peso delle sanzioni internazionali in cambio di una limitazione del proprio programma d’arricchimento dell’uranio. Per quanto fragile, quest’accordo permette all’Iran di allontanare la minaccia di una guerra internazionale nei propri confronti, ma, soprattutto, di rientrare nel giro internazionale. Il nuovo ruolo dell’Iran sarà di beneficio a tutti, e se Tehran potrà ricominciare a vendere il proprio petrolio, facendo ridecollare la languente economia, il nuovo canale di diplomazia e dialogo aperto con gli Stati Uniti potrebbe portare a una collaborazione volta a comporre i conflitti tutt’ora aperti in zone calde quali l’Iraq, la Siria e l’Afghanistan. I due recentissimi attacchi suicidi compiuti ai danni dell’ambasciata iraniana a Beirut hanno dimostrato come nessuno nell’area medio orientale allargata si salvi dal complesso di forze reazionarie e terroristiche (Al Qaeda, salafiti ecc.) che operano contro chiunque, occidentale o no, si frapponga ai loro obiettivi. Paradossalmente, Stati Uniti e Iran condividono ora un interesse comune contro le centrali di terrore che sono proliferate soprattutto dopo la guerra in Iraq.

Tehran festeggia perché l’accordo è stato raggiunto senza umiliazione, cosa che più paventava. Non per nulla, solo pochi giorni fa la Guida suprema Khamenei, mentre i suoi diplomatici erano già seduti al tavolo delle trattative di Ginevra, aveva sferrato un ennesimo attacco nei confronti degli Stati Uniti dichiarando che mai e poi mai il suo Paese si sarebbe piegato cedendo il proprio diritto ad acquisire il nucleare per scopi civili. I recenti eventi, invece, dimostrano coma la sparata di Khamenei fosse una sorta di rito esorcistico, visto che si è precipitato a congratularsi col Presidente Rouhani per l’accordo raggiunto, considerandolo “la base per ulteriori saggi sviluppi”. Rouhani, a sua volta, ha ringraziato Khamenei per il ruolo di guida e supporto svolto durante il lungo ed estenuante negoziato. Quest’accordo rappresenta un importante rafforzamento della posizione interna di Rouhani, il quale in soli 100 giorni di mandato è riuscito a ricomporre un conflitto che durava da oltre dieci anni. E’ stato proprio il Presidente Rouhani, coadiuvato dal suo Ministro degli Esteri, Zarif, infatti, a tessere le trame per un nuovo rapporto con le potenze occidentali, dopo la disastrosa esperienza del suo successore Ahmadinejad. Il nuovo razionalismo di Rouhani gli ha consentito dapprima di recarsi alle Nazioni Unite come ambasciatore di un “new deal” iraniano, quindi di stabilire un contatto telefonico con il suo corrispettivo americano, Obama, e finalmente di portare a casa l’accordo sul nucleare.

Che a Tehran si respiri aria nuova sul fronte diplomatico è dimostrato pure dal fatto che, sollecitato ad esprimere un proprio giudizio sull’ostilità israeliana (Netanyahu ha definito l’accordo sul nucleare “un errore storico”) e saudita nei confronti della raggiunta intesa, il Ministro degli Esteri iraniano Zarif ha prudentemente commentato che quanto stabilito a Ginevra è positivo e foriero di benefici per il Medio Oriente e per tutto il mondo indistintamente, quindi non vi è nessuna giustificazione per affermare il contrario. Per la diplomazia iraniana il tempo degli slogan contro tutti sembra finito, almeno momentaneamente.

Iran e US: troppi falchi

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Per Stati Uniti e Iran è tempo di raggiungere un accordo sul nucleare. Se il Presidente iraniano Rouhani ne ha impellente necessità per far uscire il suo Paese dall’impasse economica determinata dalle sanzioni, Obama ne ha urgenza per chiudere definitivamente la possibilità di un confronto militare di cui sarebbero ritenuti responsabili gli Stati Uniti, e che avrebbe conseguenze catastrofiche per il mondo intero.

Pure, ci sono i falchi dei rispettivi Paesi che remano contro a un sempre più vicino accordo: se a Washington un gruppo di senatori minaccia l’Iran di nuove sanzioni, a Tehran nei giorni scorsi s’è celebrato il 34° anniversario della presa dell’ambasciata americana da parte dei rivoluzionari khomeinisti, che hanno riempito l’aria della inquinata capitale con slogan di “morte all’America”. Che a Washington la lobby delle armi e della guerra sia sempre all’opera è risaputo; meno conosciuta è la situazione all’interno dell’Iran, dove negli ultimi mesi sembrava che l’antico odio verso il “grande Satana” (ovvero, gli Stati Uniti) si fosse dissolto, e che merita quindi una riflessione.

Rouhani, si sa, ha avviato un nuovo rapporto con Washington fatto di diplomazia e avvicinamento; questo new deal è incoraggiato dal leader supremo, Khamenei, acerrimo nemico degli USA da sempre, ma che, ultimamente, con il pragmatismo tipico della leadership politica iraniana, ha dato il suo beneplacito alle trattative sul nucleare, senza intervenire in prima persona, ma lasciando che sia il neo Presidente a esporsi. Tuttavia, quest’ultimo, è bene ricordarlo, senza l’appoggio di Khamenei non andrebbe molto lontano.

La nuova Presidenza ha comportato, tra le altre cose, la rimozione degli ultimi murales anti USA, ormai sbiaditi, su alcuni edifici nella capitale iraniana. Ma alcuni gruppi di irriducibili, quali il Corpo della Guardie Rivoluzionarie e i Basij (sorta di milizia para militare formatasi nei primi giorni della Rivoluzione) hanno rilanciato la sfida a Rouhani e compagni, istituendo un premio per la miglior opera visiva che celebri l’anti americanismo internazionale (Grande Premio“Morte all’America”), nonché organizzando la manifestazione di protesta contro gli Stati Uniti tenutasi il 4 u.s.

Tutto ciò conferma, ancora una volta, come il regime iraniano sia frammentato, fin dal suo incipit, causa le diverse ideologie sottostanti ai vari movimenti unitisi per attuare la Rivoluzione Islamica del 1978-79. Il potere è retto da un sistema in cui diverse elite si combattono quotidianamente, unite solo da un unico desiderio di controllare la società, e che, paradossalmente, sono tenute in vita proprio da questa dialettica. In questo momento i gruppi che contrastano Rouhani e la sua politica riformista cercano di sbilanciare la tensione e l’attenzione sulla politica estera, per far fallire il negoziato con gli Stati Uniti e ridurre le pretese del riformisti. Questi ultimi, infatti, stanno lavorando non solo sul fronte esterno, ma soprattutto, su quello interno, creando vasto consenso tra la popolazione. Il giorno della manifestazione anti USA, il ministro della Cultura, Ali Jannati, ha annunciato il suo piano per legalizzare definitivamente i social network (il cui accesso, al momento, è inficiato dalla censura e da continue interruzioni di servizio); mentre altri collaboratori scelti da Rouhani stanno coinvolgendo organi governativi e ONG per attuare riforme nei confronti della censura non solo nei confronti di manifestazioni culturali (stampa, letteratura, arti varie) ma anche per sollevare la stretta sulla vita quotidiana dei cittadini.

Tutto ciò è avversato dai falchi, che temono la riduzione del loro potere mantenuto tramite una politica del terrore.

Nella negoziazione sul nucleare, quindi, non contano solo il numero delle centrifughe concesse a Tehran o delle pur necessarie visite degli ispettori AIEA agli impianti iraniani; è in gioco un futuro migliore per decine di milioni di iraniani e per il mondo intero.

da  10/11/2013.

Arabia Saudita: non tutti sono felici per il new deal iraniano….

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Quello che si è aperto a Ginevra è il più carico di aspettative fra tanti negoziati avvenuti in questi ultimi anni tra l’Iran e il blocco di potenze occidentali che contestano a Tehran il suo programma nucleare. Il parziale riavvicinamento fra stati Uniti e Iran avvenuto il mese scorso nella sede newyorkese dell’ONU unito alle aperture tanto verbali quanto tangibili effettuate da parte della nuova Presidenza iraniana non solo in politica estera, ma, soprattutto, nella sfera domestica, hanno creato un clima di fiducia e speranza. Tale speranza è stata in parte confermata dai primi approcci tra il gruppo di potenze internazionali P5+1 e Iran; anche se ancora non è chiaro se la “road map” presentata da Tehran per arrivare a una risoluzione del conflitto sul nucleare sarà accettata, a Ginevra si respira un’altra aria, che intanto ha consentito di programmare un ravvicinato incontro nel mese prossimo di novembre. Chiaramente, non ci si poteva aspettare una capitolazione totale da parte dell’Iran, interessato soprattutto ad allentare la morsa delle sanzioni, ma anche a ritornare nel giro internazionale “occidentale”: un chiaro segnale in questo senso è stato dato dal fatto che i negoziati sono stati condotti dalla rappresentanza iraniana in lingua inglese, contrariamente a quanto avvenuto in passato. Altra novità è stata l’intervista concessa dal Ministro degli Affari Esteri, Abbas Araqchi, all’inviato di un quotidiano israeliano, il Times di Israele, al quale ha dichiarato che la risoluzione del problema nucleare porterebbe l’Iran a vivere in pace con tutti i Paesi. Il fatto che un alto funzionario della Repubblica Islamica conceda un’intervista a un esponente dei media israeliani è già di per se eccezionale, ma che poi, seppur senza nominarlo, includa implicitamente l’acerrimo nemico nei Paesi con cui convivere è di straordinaria importanza, calcolando che l’Iran a tutt’oggi non riconosce lo stato di Israele. Al contempo, la stampa iraniana ha annunciato l’ avvenuta cancellazione della seconda edizione del festival cinematografico “Nuovi orizzonti”, inaugurato l’anno scorso dall’ex Presidente Mahmud Ahmadinejad, un contenitore culturale di proiezioni e conferenze in chiave palesemente anti-israeliana. Ciò costituisce certamente un segno da parte del nuovo Presidente Rouhani di distacco dalla politica del predecessore, per dimostrare il nuovo corso delle diplomazia del suo Paese.

Certamente tutto ciò conferma l’urgenza dell’Iran di uscire dall’impasse in cui è stato condotto dalla stretta delle sanzioni, ma pure di smarcarsi da quell’elenco di Paesi “asse del male” dov’era stato incorniciato dall’ex Presidente degli Stati Uniti George Bush. Anche la dirigenza americana sta adottando un nuovo approccio nei confronti dell’Iran, creando così ansia nel suo più stretto alleato nell’area mediorientale, l’Arabia Saudita. Un primo segno di insoddisfazione da parte di Riyadh per quest’approccio Iran- US si è visto all’Assemblea delle Nazioni Unite avvenuta lo scorso mese, quando per la prima volta i sauditi hanno rinunciato all’opportunità di leggere un loro discorso, infastiditi dall’attesa creata intorno alla venuta del Presidente Rouhani. Questo voluto ritiro è stato seguito da un’intensa campagna sulla stampa saudita (ovviamente, solo di stato) in cui si denuncia l’ex amico statunitense accusandolo di tradimento. Nonostante si tratti probabilmente solo di un modo per alzare la posta, è chiaro che Riyadh paventa la nuova entrata dell’Iran nel gioco internazionale, soprattutto come produttore di petrolio: le sanzioni, infatti, impedendo all’Iran di vendere il proprio greggio ai Paesi occidentali (e pure a molti altri aderenti alle sanzioni), ha di fatto reso l’Arabia Saudita il primo esportatore di oro nero al mondo. La speranza è che le minacce saudite non inficino la cauta, ma promettente apertura statunitense nei confronti del’Iran.

da Giornale di Brescia 21/10/2013

Non demonizziamo la Libia!

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Il rapimento da parte di un gruppo di ribelli del primo ministro libico, Ali Zeidan, sembra confermare l’infausta previsione di Henry Kissinger, il quale mesi fa aveva incluso la Libia nell’elenco delle nazioni in disfacimento e/o ad altissimo rischio, insieme a Siria, Somalia, Yemen, Iraq e Afghanistan. Tale sequestro costituisce senza dubbio un atto comprovante la fragilità del processo di democratizzazione in corso nel paese nord africano, ma non deve, peraltro, inficiare i notevoli progressi compiuti dai libici da quando è finita la dittatura gheddafiana fino ad oggi. Chi ha visitato il Paese recentemente conferma che la vita è ripresa regolarmente tanto nei centri maggiori (Tripoli, Misurata, Benghasi) quanto nelle oasi del deserto, dove la gente passeggia tranquillamente nelle strade, si reca al lavoro, a scuola, o a fare compere. I negozi più ambiti sono quelli di moda italiana (una buona notizia anche per la nostra economia) e di gioielli. Qualche cittadino pessimista dichiara che la corsa all’oro è dovuta al fatto che la gente investe nel prezioso metallo per avere a disposizione un bene rapidamente convertibile in caso di fuga, ma è altresì vero che molti monili sono comperati per i matrimoni, ripresi dopo una lunga pausa, segno di voglia di stabilità del Paese; così come è un segnale positivo che le gioielleria rimangano aperte fino a sera tarda, senza paura di rapine, nonostante le milizie siano virtualmente sparite dalle strade, ora controllate solo dalla polizia regolare.

Ciò non significa, ovviamente, che la Libia sia divenuta il paese del bengodi, i problemi ci sono, quali i ripetuti scontri tra gruppi etnici rivali nel sud est del Paese che si contendono i traffici locali; o gli scioperi di alcune categorie di lavoratori non sufficientemente retribuiti. Ma dobbiamo ricordare che nel passato regime lo sciopero non era neppure consentito, così come esistevano solo media controllati strettamente dal governo, mentre ora una nuova generazione di giornalisti libici sta sperimentando la libertà di stampa. Allo stesso modo, le elezioni municipali svoltesi a Benghasi e Misurata nei mesi scorsi hanno confermato la voglia di democrazia dei libici che hanno affrontato lunghe code davanti ai seggi elettorali, conferendo, tra l’altro, fiducia ad alcune candidate. Anche questa rappresenta una novità positiva, che ristabilisce l’immagine delle donne nella sfera pubblica, immagine ridotta dal regime gheddafiano alla caricatura delle proprie guardie del corpo, metà soubrette e metà feroci aguzzine.

Come collocare, allora, in questo quadro il rapimento del primo ministro? Il gruppo che ha sequestrato Ali Zeidan è formato da ex-ribelli del passato regime ora passato al servizio dell’attuale governo, per il quale compie azioni di polizia; tanto da aver dichiarato di non avere rapito il primo ministro, bensì di averlo arrestato da parte della Procura libica (cosa, peraltro, smentita dalla stessa Procura). Il sequestro di Ali Zeidan è avvenuto a ridosso della cattura a Tripoli di Abou Anas al Libi, figura di spicco al Qaeda e ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane del 1998 in Kenya e Tanzania. Se i fatti sono collegati, ciò dimostrerebbe lo stretto legame tra il braccio nord africano di al Qaeda e alcuni gruppi di (ex) ribelli libici, i quali avrebbero “punito” il primo ministro per l’appoggio dato agli americani che, di fatto, hanno arrestato al Libi. Lo stesso Ali Zeidan aveva proprio in questi giorni chiesto spiegazioni a Washington riguardo al raid compiuto sul suolo libico proprio per prendere al Libi, ma il portavoce americano ha dichiarato che il governo provvisorio libico era stato anticipatamente informato dell’operazione.

Che si tratti di un arresto o di un rapimento, la vicenda di Ali Zeidan prova lo stato di divisione del governo provvisorio libico; al contrario, la sua società civile combatte quotidianamente per stabilire democrazia e la normalità.

da il Giornale di Brescia 11/10/2013.

il “pacchetto di democratizzazione” di Erdogan

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Ankara ha finalmente varato il pacchetto di riforme verso la strada della democratizzazione atteso da mesi, almeno fin da noti fatti di parco Gezi e delle successive manifestazioni anti governative, la cui dura repressione ha notevolmente annerito l’immagine del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) da anni alla guida della Turchia. Ma la risposta del Paese è, perlopiù, negativa. Sono soprattutto le minoranze, principale oggetto del “pacchetto di democratizzazione” a dimostrarsi scontente per questa che ritengono una opera di superficiale maquillage, a cominciare dalla comunità più controversa, ovvero, la curda. Ad esempio, ai 15 milioni di curdi che chiedevano l’introduzione della loro lingua nelle scuole è stato concesso solo di poter avere l’insegnamento in curdo presso gli istituti privati: ciò suona come una beffa, visto che la maggioranza di loro vive nella zona sud-est del Paese, notoriamente più povera, dove le scuole private sono pressoché inesistenti o inaffrontabili. L’altra richiesta cruciale, ovvero quella di abbassare la soglia del 10% ora necessaria per poter accedere al Parlamento (limite che favorisce i grandi partiti come l’AKP e tiene fuori, tra gli altri, propri quelli curdi), è stata accolta solo da una vaga promessa di rivedere il dato in seno al Parlamento stesso. Nessun passo concreto, inoltre, è stato fatto per decentralizzare l’amministrazione verso un più democratico potenziamento degli organi regionali e locali (altra richiesta curda).

Parimenti scontente sono le minoranze religiose, quali gli Alevi, costituenti circa il 20% della popolazione, che richiedevano il riconoscimento statale delle loro sedi di culto, e che hanno ottenuto solamente la possibilità di avere un’università statale re intitolata sotto il nome di un loro mistico trecentesco.

Gli irriducibili della laicità, poi, hanno accolto con terrore l’abolizione del giuramento di “buon turco” finora imposta agli scolari della scuola dell’obbligo a ogni inizio di settimana, e, soprattutto, lo sdoganamento del velo per le donne nei luoghi di lavoro pubblici, considerandoli quali espressione della precisa volontà dell’AKP di cancellare quel che resta della Turchia di Atatürk per sostituirla con una completamente islamizzata. In realtà, la proibizione del velo nelle pubbliche amministrazioni era divenuta obsoleta in un Paese in cui le donne l’hanno riabbracciato da decadi, e anzi spesso costituiva una forma di protesta contro le costrizioni dello Stato. Lo spettacolo delle studentesse che si toglievano il velo prima di varcare i cancelli delle università per poi rimetterselo quando uscivano era divenuto assurdo, per non parlare delle associazioni di donne sorte proprio per combattere tale proibizione. L’AKP, che governa grazie al consenso di cittadini per cui l’islam è l’identità principale e che, piaccia o no, sono in maggioranza nella Turchia d’oggi, non poteva non accogliere questa protesta che da anni travaglia la vita pubblica. Fermo restando che alcune professioni, quali quella di poliziotta e di giudice, rimarranno comunque “veil free”, la riforma faciliterà l’accesso delle donne a posti di pubblica amministrazione, dove adesso non vengono neppure prese in considerazione solo perché nella foto allegata al curriculum portano il velo.

Quello che desta preoccupazione in tutti, piuttosto, è la totale assenza nel pacchetto di norme che garantiscano maggiore libertà di espressione e che consentano di non etichettare i dissenzienti (quali quelli arrestati proprio durante le manifestazioni iniziate a parco Gezi il giugno scorso) quali terroristi, o che limitino lo strapotere della polizia nel sedare anche violentemente le manifestazioni di pacifica protesta. Ma quest’assenza potrebbe essere frutto di un abile calcolo politico dell’AKP e del suo astuto leader, Erdoğan: nel 2014 i turchi saranno chiamati alle urne, ed è probabile quindi che nei prossimi mesi, a ridosso delle elezioni, venga varata qualche altra riforma che, se annunciata troppo presto, potrebbe essere dimenticata dagli elettori.

dal Giornale di Brescia 3/10/2013