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Che fine ha fatto Ahmadinejad?

Che fine ha fatto Ahmadinejad? Dopo la batosta elettorale della primavera scorsa che ha annullato la compagine parlamentare a lui favorevole il Presidente della Repubblica Islamica d’Iran sembra scomparso, sia a livello interno quanto, soprattutto, a livello internazionale. Il count down per il suo ultimo anno di presidenza è iniziato da oltre un mese, ma politicamente Mahmoud Ahmadinejad è finito, annientato dai suoi avversari che si stanno combattendo ferocemente per la spartizione del potere, ma che ancora utilizzano la figura ormai caricaturale del Presidente per addossargli la colpa della sempre più profonda crisi economica che sta mettendo a dura prova la vita degli iraniani. Che la situazione economica sia drammatica è provato dal fatto che all’ultimo colloquio di Istanbul, avvenuto la settimana scorsa, per la prima volta Tehran ha chiesto l’annullamento delle sanzioni in cambio dello stop al famoso arricchimento al 20% dell’uranio. La maratona di 15 ore di colloquio tra Iran e le super potenze è passata inosservata, sia perché si è trattato di discorsi super tecnici, sia perché l’opinione pubblica internazionale sembra stanca di questa negoziazione che sembra essere infruttuosa e senza fine. Ma la draconiana stretta delle nuove sanzioni varate il primo luglio, che di fatto impediscono ai paesi dell’Unione europea di importare petrolio iraniano, sta provando il Paese dell’altopiano fuori d’ogni misura. Fino a oggi l’Iran poteva contare su ancora ingenti esportazioni del proprio oro nero, ma ora il mercato europeo è definitivamente chiuso, mentre l’Iraq ha ripreso a pompare per sostituire il petrolio iraniano.

Intanto, nel paese degli ayatollah l’inflazione ha toccato il 30% e la gente fatica sempre più ad arrivare a fine mese: il costo della vita ha raggiunto livelli europei, ma gli stipendi medi non raggiungono neppure la metà del corrispettivo europeo.

La frustrazione degli iraniani è altissima, e il loro senso di isolamento si è acuito. I paesi circostanti approfittano di questa debolezza, come l’Azerbaijan, che sta fomentando la ribellione contro il governo di Tehran dei suoi quasi 25 milioni di cittadini di ceppo azeri: Baku, in ottimi rapporti con Israele, è sospettata di offrire base logistica ad operazioni spionistiche israeliane in Iran, compresi i vari attacchi al sistema informatico nucleare iraniano grazie a dei virus, verificatisi nel recente passato. E il nemico più potente dell’area, l’Arabia Saudita, sta negando i visti ai cittadini iraniani che vogliono recarsi in pellegrinaggio nei luoghi sacri dell’islam, situati, appunto in territorio saudita. Al contempo, gli iraniani, che già da tempo diffidano delle linee aeree interne ormai da tempo carenti nella manutenzione (bloccata dalle sanzioni) ora diffidano pure delle tratte internazionali solitamente coperte dalla compagnia di bandiera, l’Iran Air, e i milioni di immigrati che solitamente tornano a casa per le vacanze estive si stanno accalcando sui voli delle compagnie aeree europee e su quelle dei paesi del Golfo.

L’Iran sembra essere allo stremo, ma le sue autorità temporeggiano ancora, convinte che, almeno sino alla prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ci sia margine per evitare eventuali attacchi bellici. Così anche nell’ultimo colloquio hanno negato la chiusura dell’impianto di Fordow, presso la città santa di Qom, strategicamente situato fra montagne difficilmente attaccabili militarmente.

Gli effetti della crisi iraniana, nel frattempo, sono arrivati in Italia: a Falconara Marittima la raffineria API, cliente abituale del petrolio iraniano, ha messo 400 dipendenti in cassa integrazione. Mentre l’ENI, in credito di 2 miliardi di dollari in petrolio greggio iraniano, potrebbe vedere il suo credito annullato, per rappresaglia, dalle autorità di Tehran, non nuove a questo tipo di guerra per via economica.

 pubblicato da Giornale di Brescia 12/7/2012.

Le conversioni all’islam

Le conversioni alla fede islamica sono in aumento anche nel mondo occidentale. In Gran Bretagna, ad esempio, sono parecchie decine di migliaia i cittadini di fede cristiana, o non professanti alcunché, che hanno abbracciato l’islam, il 75% dei quali rappresentato da donne. Un bel risultato per una religione che molti etichettano quale “misogina”.

In Italia vi sono ormai alcune associazioni che raggruppano i convertiti all’islam, a Milano, Vicenza, Roma, nelle quali la presenza femminile è attiva e in crescita. Non vi sono statistiche precise, perché i diretti interessati non si sono ancora censiti, mentre le illazioni dei media a riguardo sono spesso faziose e irrispettose: la rassegna stampa di reportage sul mondo dei convertiti che ho raccolto trasuda di incredulità, facile ironia sul profilo dei nuovi musulmani, dipinti generalmente come personaggi border line che hanno attraversato tutte le correnti di pensiero e vissuto esperienze di vita diversamente estreme prima di trovare un porto sicuro nell’islam. Le donne, poi, sono considerate solo “convertite per amore”, ovvero, creature fragili che cambiano religione solo perché attratte da un uomo musulmano: incasellate, così, in un ritratto razzista e maschilista.

Certamente le conversioni al buddismo o alle varie religioni “new age” non provocano la stessa reazione causata dall’aumento della popolazione musulmana nel nostro Paese, che inquieta soprattutto coloro i quali identificano l’islam con l’oscurantismo, o, peggio, con il terrorismo. Il fatto poi che siano delle donne a scegliere di aderire all’islam dove, secondo i più, s’annidano tutti i peggiori nemici del genere femminile, dalla poligamia alla lapidazione, dalle mutilazioni genitali all’annullamento della figura femminile nella sfera sociale, risulta inspiegabile e incomprensibile. Ciò avviene soprattutto perché i pregiudizi nei confronti dell’islam sono pervicaci e tenaci: per quanto sia gli stessi musulmani sia gli studiosi dell’islam dichiarino e scrivano con autorevolezza che le cosiddette mutilazioni genitali femminili non sono una pratica musulmana, che lapidazione non è presente nel Corano, che la poligamia è sempre stata fenomeno limitato e controverso e che la presenza delle donne nella società è legata a fattori assai diversi da quello religioso (economico, culturale, geografico, ecc.), l’islam continua a essere identificato come un pericolo soprattutto per la libertà delle donne e, di conseguenza, per l’intera società.

Pertanto, la conversione all’islam (anzi, come dicono i musulmani) il “ritorno” all’islam di milioni di individui si presenta come un rebus di difficile soluzione.

Eppure, basta chiedere le motivazioni della propria conversione agli interessati. Cinzia Aicha Rodolfi, con il suo libro, offre molte risposte.

Certo anche Cinzia potrebbe essere etichettata come “convertita per amore”, giacché la sua scelta è stata conseguente all’innamoramento per un coetaneo tunisino, ma la sua testimonianza prova che, in realtà, il sentimento è stato solo l’occasione d’incontro con una religione che l’ha coinvolta in modo profondo.

La conversione di Cinzia non trova adeguata risposta per molti: era (ed è tuttora!) una ragazza bella, istruita, di famiglia benestante, dotata di indipendenza economica derivante prima da una professione basata sul culto del corpo (modella), poi da un lavoro in cui comunque la bella presenza è fondamentale (accompagnatrice turistica). La sua scelta di abbandonare non solo l’esposizione del corpo, ma addirittura di assumere il velo, che per moltissimi rappresenta la negazione della femminilità, come essa intesa in occidente, risulta incomprensibile ai più. Anche perché il velo non le è stato non solo imposto, ma neppure richiesto dal marito.

Non c’è dubbio, infatti, che di tutti i simboli musulmani, il velo è quello che provoca le reazioni più scomposte: la stessa presenza delle donne velate nel nostro Paese viene monitorata come segno dell’espansione dell’islam, quasi che esse fossero tanti minareti. Forse perché, un tempo, i minareti erano eretti dai musulmani a dimostrazione della loro presenza in zone abitate da altre religioni.

Il velo occupa il centro del discorso tra islam e occidente. Da secoli il velo è per l’islam il

segno di demarcazione tra pubblico e privato, la protezione per la sfera intima e inviolabile: mentre, al contrario, l’occidente vede il velo come il segno della distanza invalicabile tra Est e Ovest. Se nei paesi d’origine il velo è considerato segno di arretratezza e/o di costrizione, il velo delle musulmane che vivono in occidente è spesso interpretato quale simbolo della mancanza di volontà da parte della comunità islamica di “integrarsi”.

Cinzia Aicha ci chiarisce le ragioni per cui ha liberamente adottato il velo, che possono essere comprese oppure no, ma che vanno ascoltate da chi desidera capire. Lei ha scritto questo libro per un’esigenza interiore, non per insegnare, ma soltanto per raccontare il suo percorso.

Certamente, la testimonianza di Cinzia Aicha non rientra nel binomio classico “donna e islam”, che vende molto, poiché basato su testi costruiti per compiacere le aspettative di un certo pubblico occidentale rispetto alle donne musulmane: storie dolorose, di ammissione di errori compiuti, di costrizioni e di maltrattamenti, che certamente esistono, ma che non sono esclusivo appannaggio del mondo islamico, né tantomeno lo caratterizzano. L’immaginario collettivo vuole ancora immagini femminili avvolte in neri ciador iraniani, nei burqa azzurri afghani, o dai volti celati dal niqab. Ma sempre più lettori avvertono la necessità di andare oltre il facile stereotipo propinato da coloro che vogliono “velare” la reale immagine dell’islam.

Questo libro è dedicato a loro.

Anna Vanzan

Prefazione : Cinzia Aicha Rodolfi, Dalle sfilate di moda al velo…una musulmana italiana, Al Hikma, 2012.

Egitto alle urne

Gli egiziani tornano alle urne per il ballottaggio che dovrebbe eleggere il nuovo Presidente della Repubblica in un clima di grande incertezza acuito dal recente scioglimento, da parte della Corte Costituzionale, del Parlamento eletto solo qualche mese fa. Questa manovra, tesa  a disfarsi di un’assemblea “troppo” sbilanciata a favore dei fratelli Musulmani e della compagine islamista più estrema (salafita), conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le forze armate non hanno perso l’appetito per il potere, tanto da aver messo in atto questo colpo di stato incompleto. Se vincitore di queste elezioni dovesse risultare Ahmed Shafiq, loro candidato (Shafiq è un ex generale dell’ aeronautica), le forze armate avrebbero il controllo completo, l’ancient regime sarebbe restaurato e la primavera di piazza Tahrir vanificata.

Contro quest’ipotesi si scagliano tanto gli islamisti quanto i laici, ma, in realtà, alla maggioranza degli egiziani non piace né Ahmed Shafiq (e quanto significherebbe la sua elezione), né il suo oppositore, Muhamed Mursi, candidato dei Fratelli Musulmani. uomo privo di carisma e ubbidiente al Partito che diverrebbe  il rappresentante di un Egitto decisamente sbilanciato verso una piena connotazione “religiosa” del Paese.

Tuttavia, molti laici, ma pure la componente Copta, sembrano preferire, tra i due mali, la soluzione Shafiq; ecco perché anche Mursi ha corteggiato i Copti dichiarando la sua disponibilità a farli partecipi del nuovo corso politico egiziano, e perché ha cercato di ammorbidire alcune posizioni dell’ala più conservatrice dei Fratelli in materia di controllo sulla società, parlando della non necessità di imporre il velo alle donne e dimostrandosi più possibilista dei colleghi di partito nell’apertura politica alle minoranze.

E’ pure vero che i Fratelli scontano la cattiva performance post elettorale e il conseguente scontento della popolazione, compresi i loro votanti, i quali s’illudevano, irrealisticamente, in un rapido miglioramento delle condizioni economico-lavorative del Paese. Molti hanno votato i Fratelli conoscendo il loro grande impegno sociale sul territorio, la loro rete di successo volta ad assicurare assistenza sanitaria e scolastica nelle zone disagiate, il loro rapido intervento a favore dei disoccupati e dei più poveri: ma reggere le sorti del Paese è altra cosa, soprattutto se si hanno le forze armate che remano contro. Ricordiamo che l’esercito controlla la risorsa principale del Paese, ovvero l’agricoltura, ma pure molte industrie nonché i lucrosi insediamenti turistici del Mar Rosso.

D’altro canto, per molti è difficile pure dare il voto a Shafiq, ex membro del partito di Mubarak, correo di tante azioni corrotte in compagnia dell’ex faraone e sospettato, tra l’altro, di aver ordito l’attacco delle “truppe cammellate” che hanno picchiato e ucciso alcuni manifestanti in piazza Tahrir nel gennaio 2011. Ecco perché, ad esempio, gli animatori del Movimento del 6 Aprile, uno dei gruppi di giovani egiziani più attivi nella “primavera”, considera piuttosto un’alleanza con i Fratelli Musulmani, qualora vincesse il loro candidato Mursi, ma esclude la possibilità di venire a patti con Shafiq.

Così, gli egiziani vanno alle urne per scegliere tra Scilla e Cariddi, mentre la vera sconfitta, al momento, è la democrazia, assieme ai suoi seguaci. In più, vi è l’incombente pericolo di nuovi e sanguinosi disordini nelle piazze del Paese, qualsiasi sia il verdetto delle urne.

pubblicato da Giornale di Brescia 17/6/2012

l’eredità della guerra dei 6 giorni

Nella ridda di anniversari ed appuntamenti che si rincorrono nel Medio Oriente in questi ultimi mesi è scivolato via quasi totalmente ignorato dall’attenzione internazionale il 45 anniversario della guerra del 6 giorni, combattuta nel giugno 1967 fra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra. La guerra lampo fruttò a Israele cruciali territori strappati ai tre paesi arabi, fra cui le alture del Golan, in Siria, e aprì una fase di crisi profonda nell’area ancor oggi ben lungi dall’essere risolta.

Al di là delle perdite umane e territoriali, comunque ingenti, la cocente sconfitta comportò uno sconvolgimento socio-politico culturale non solo nei tre paesi arabi coinvolti, ma nell’area islamica tutta. Basti pensare che l’evento bellico è comunemente conosciuto come “an-naksa”, la ricaduta, la sconfitta per antonomasia, in quanto lo shock subito per questa rapida e inaspettata vittoria israeliana si è scolpito per sempre nella memoria storica dei paesi musulmani.

L’Egitto è forse il Paese che più ha scontato, alla lunga scadenza, tale sconfitta: l’Egitto doveva assicurare alla coalizione militare l’impatto della sua formidabile forza aerea, che venne invece annientata dalle forze israeliane già nel primo giorno del conflitto, il 5 giugno 1967. La guerra continuò rapida e impietosa per gli alleati arabi, e già l’8 giugno, per evitare che gli israeliani prendessero pure il controllo sul Canale di Suez, il leader egiziano Nasser dovette accettare la pace imposta dall’ONU e le successive condizioni dei vincitori.

Il 10 giugno, era già tutto finito. Nasser era stato umiliato, e con lui l’intero Paese. Nasser poi presentò le proprie dimissioni, peraltro respinte, ma ormai s’era infranto il sogno dell’intraprendente politico, il suo progetto di pan-arabismo sotto la propria leadership, e, soprattutto, l’idea di uno stato laico vincente. La sconfitta del 1967 ha provocato la sfiducia collettiva nello stato laico, nelle sua declinazione socialista dimostratasi incapace di fronteggiare il nemico, aprendo la strada ad una sempre maggior influenza dei nuovi gruppi islamisti. L’anno precedente la catastrofe, nel 1966, Nasser aveva fatto giustiziare Sayyd Qutb, padre fondatore dei Fratelli Musulmani: la sconfitta da parte di Israele venne quindi interpretata da molti come conseguenza di una deviazione dalla via “religiosa”, ritenuta l’unica possibile per lo sviluppo di un paese ad alata concentrazione musulmana. Molti nazionalisti disillusi abbandonarono le loro convinzioni per abbracciare un “islam politico” le cui derive estremiste minacciano ancor oggi l’incolumità mondiale, in primis quella degli stessi musulmani, principali vittime del terrorismo islamista internazionale. E’ nell’Egitto post 1967, infatti, che ha cominciato la sua opera di predicazione jihadista un allora giovanissimo al-Zawahri, poi fuggito in Asia Centrale dove partecipa al progetto della neonato al-Qaeda.

L’eredità di quei 6 giorni del giugno 1967 è altresì rappresentata dalla massa di sfollati palestinesi che sono ancora rimasti tali; dai territori occupati in Palestina e Giordania; dall’isolamento di Israele e dalla tensione in tutta l’area.

La memoria della guerra dei 6 giorni è presente in molta letteratura in lingua araba, nella cinematografia mediorientale, ma è anche spesso sfruttata da regimi illiberali che con il pretesto di difendere la causa palestinese, cercano di deviare l’attenzione dei propri concittadini dai problemi interni. La guerra dei 6 giorni non può essere cancellata, ma la questione palestinese deve tornare alla ribalta dell’agenda internazionale, ora distratta su altri fronti, perché da ciò dipende la sicurezza di noi tutti.

 pubblicato da Giornale di Brescia, 14/6/2012

E’ mancata Farideh Mashini/درگذشت فریده ماشینی

E’ morta dopo lunga malattia Farideh Mashini, una grande protagonista del movimento femminile in Iran. Già a capo della Commissione Donna del Fronte di Partecipazione, si era battuta per le quote rosa e per una maggiore partecipazione alla politica attiva delle sue connazionali.

Farideh era ricercatrice presso la più antica ONG di Studio e Ricerca delle Donne in Iran, una delle prime istituzioni a sponsorizzare la pubblicazione di uno studio sul Corano in prospettiva femminile e redatto da una donna. Farideh Mashini era convinta assertrice della validità del “femminismo islamico”, l’avevo incontrata anni fa mentre facevo ricerca per il mio libro sull’argomento e mi aveva impressionata per la sua forza e per le sue idee. Mi aveva detto, tra l’altro: “Io sono Musulmana e l’islam predica l’uguaglianza dei sessi, ma vi sono diverse interpretazioni dell’islam. se ci fosse la possibilità di affermare una visione islamica femminista, allora molti dovrebbero smettere di commettere azioni sbagliate in nome dell’islam”.

E’ un lutto per la società civile iraniana e non solo.

Baghdad e nucleare iraniano

Ci riprovano. Il 23 maggio le grandi potenze occidentali si incontrano con i rappresentanti della Repubblica Islamica d’Iran a Baghdad per discutere di nucleare. Dopo il timido risultato di Istanbul nell’aprile scorso che, in sostanza, ha più che altro solo fatto riprendere le trattative in un clima meno teso, questa volta lo scenario si apre con molte novità. Innanzitutto, il cambio di presidenza in Francia può essere ricco di conseguenze: Sarkozy ha sempre usato la linea dura con l’Iran, chiedendo l’inasprimento delle sanzioni e non nascondendo una sua eventuale propensione ad un intervento armato (Libia docet). Ma Hollande sta prendendo le distanze dal suo predecessore e intende perseguire una nuova politica estera. Ciò non significa che Parigi intenda stravolgere la propria posizione nei confronti del nucleare iraniano, ma in questi giorni un ex primo ministro socialista, Michel Rocard, si è recato in Iran per una visita privata, il cui significato non è certo sfuggito alle autorità iraniane, che ora si sentono imbaldanzite dal venir meno di un nemico sullo scacchiere internazionale.

Nel frattempo la Cina, che aveva riluttantemente diminuito le importazioni di greggio iraniano, le ha riprese su vasta scala. Qualche osservatore ha sottolineato che potrebbe trattarsi solo di una ritorsione dovuta all’ospitalità offerta dagli Stati Uniti ad dissidente cinese Chen Guangcheng, ma in realtà il traffico di petrolio dal Golfo Persico verso la Cina è ripreso alacremente già da due mesi, confermando come Beijing sia alleata poco affidabile nel gruppo dei 5+1.

Inoltre, per la coesione del gruppo internazionale “anti nucleare iraniano” la defezione di Putin al summit dei G8 tenutosi nei giorni scorsi a Washington suona come un campanello d’allarme: che la posizione della Russia nei confronti dell’Iran sia sempre stata ambigua è risaputo, ma in questo momento una ritirata di Mosca comprometterebbe la già poco solida unione dei 5+1.

Su tutto, pesa la profonda crisi che sta sconvolgendo alcuni paesi europei per i quali cancellare le entrate di petrolio iraniano significherebbe dover aumentare i prezzi del combustibile, provando ulteriormente le economie e le tasche dei già scontenti contribuenti.

Tutte notizie che non possono che rallegrare Tehran, che, peraltro, ha teso la mano consentendo l’ingresso nel Paese degli ispettori IAEA, capitanati dal generale Amano, la prima spedizione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica che atterra sul suolo iraniano dal 2009, quando l’IAEA era ancora diretta dall’egiziano Baradei, ritenuto troppo “morbido” nei confronti delle pretese iraniane. Amano e i suoi, invece, vogliono risultati concreti, così come auspicano i 5+1 che colloquiano a Baghdad.

Anche Tehran ha un disperato bisogno di riallacciare le relazioni internazionali, soprattutto di poter riacquistare materiale di ricambio per l’aviazione civile e strumentazione medica di qualità, elementi che difettano ormai da troppo tempo sull’altipiano, facendo, tra l’altro, crescere il senso di insicurezza dei cittadini, molti dei quali hanno rinunciato a effettuare voli interni dopo che si è sparsa la voce che le forniture aeree provengono solo da paesi in via di sviluppo e quindi sarebbero inaffidabili.

Ma la trattativa si presenta tutt’altro che facile, poiché entrambe le parti pretendono un primo passo dall’altra, mentre il successo dell’iniziativa è legato solo a una simultanea azione concreta da parte di entrambi i contendenti.

pubblicato in Giornale di Brescia 23/5/2012

Elezioni in Siria, cattiva informazione e cattiva coscienza

I siriani sono arrivati finalmente alle urne, non certo in un clima sereno, visto che il regime continua imperterrito a mietere vittime, mentre gli oppositori hanno dichiarato il boicottaggio di quelle che chiamano «elezioni farsa».
È indubbio che la tornata elettorale sia l’ennesima manovra messa in campo da Bashar al Assad per prendere tempo e allontanare l’attenzione internazionale dalla repressione: le elezioni dovrebbero essere l’essenza della democrazia, ma sappiamo che in realtà non è così e che troppi regimi si mascherano dietro la periodica indizione di elezioni il cui risultato è già deciso in partenza.
Se nel Paese la dirigenza di Assad è ampiamente contestata, a livello internazionale finora ha goduto di una copertura mediatica incerta e partigiana che non vuole riconoscere che la Siria è controllata da una feroce dittatura peggiore, per certi aspetti, di quella di Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. Forse, è proprio il recente risultato elettorale in questi due Paesi che fa tentennare l’opinione internazionale, timorosa che alla caduta del «laico» Assad segua l’insediamento di una compagine islamista che complicherebbe ulteriormente i rapporti tra Occidente e Medio Oriente. Uno degli spauracchi internazionali a difesa di Assad, infatti, è la sua presunta tolleranza per le minoranze: in realtà il presidente non fa che fomentare le divisioni etnico-religioso-comunitarie, politica già perseguita dal padre Hafiz che, dal golpe del ’70, ha prosperato per anni sulla politica del divide et impera. Che gli Assad alawiti abbiano favorito le ricche élite sunnite è risaputo ed è una delle cause di sperequazioni della Siria: la rivolta, infatti, è figlia di 40 anni di lotte che ora assumono anche il sapore della ribellione di poveri agli abbienti, resi tali dalle corrotte politiche degli Assad. Ma neppure la lettura confessionale del conflitto siriano regge: se internamente l’opposizione è trasversale a tutte le comunità, a livello internazionale si rivela pretestuosa. L’appoggio iraniano ad Assad, infatti, non ha connotazioni religiose (gli sciiti duodecimani, variante dello sciismo dell’Iran, sono in Siria meno del 5%), ma solo politiche. Così come l’appoggio saudita agli anti Assad è determinato non dalla volontà di Ryad di proteggere i siriani sunniti, quanto dalla volontà di combattere a distanza contro l’Iran.
La comunità internazionale ha tollerato per troppo tempo gli Assad che da un lato si proponevano come unico Paese mediorientale stabile, mentre destabilizzavano l’Iraq post Saddam, inviando milizie per organizzare atti terroristici; si ergevano a paladini dei Palestinesi, ma li massacravano nei campi profughi; e hanno mietuto migliaia di vittime fra i cittadini, mentre centinaia di migliaia di siriani vivono profughi in Giordania e in Turchia. Dando per scontato il successo del partito Ba’ath Assad si assicurerebbe altri 14 anni di presidenza: resta da calcolare il numero di vittime che ciò potrà provocare.

pubblicato da Giornale di Brescia, 10/5/2012.