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Turchia: Steinbeck, laici e islamici…

turkey10bA sorpresa, il primo ministro turco Erdoğan ha rimpastato il suo governo sostituendo ben quattro ministri, perlopiù in posti chiave quali il Ministero degli Interni, della Giustizia, della Cultura e Turismo e della Sanità. Gli osservatori locali inseriscono la manovra (cui Erdoğan, peraltro, non è nuovo) nella strategia per le prossime amministrative che si terranno nel 2014: e, difatti, il premier ha esonerato dall’incarico alla Cultura Ertuğul Gűnay dopo anni di ottimo lavoro solo per permettergli di candidarsi sindaco a Izmir, carica solitamente vinta dal partito d’opposizione repubblicano (CHP). Izmir è ritenuta un bastione “laico”, ma è luogo troppo importante perché il partito al governo (AKP) se la lascia scappare, ed ecco quindi che l’AKP candida alla sua guida uno stimato ex ministro di tendenze laiche e liberali.

Proprio da Izmir era partita il mese scorso un’offensiva contro Erdoğan, di natura culturale: il locale direttivo della pubblica istruzione, infatti, aveva criticato la decisione del governo centrale di includere nella lista dei cento libri indispensabili nel curriculum scolastico di ogni cittadino turco il romanzo Uomini e topi di Steinbeck, giudicandone alcuni passaggi “volgari e razzisti”. Il paradossale (in quanto lanciato proprio da un’amministrazione “laica”) attacco nei confronti del Ministero della Cultura ha avuto così l’effetto di richiamare l’attenzione del governo centrale verso le coste egee.

La polemica scaturita ha gettato benzina sul fuoco della diatriba tra l’anima secolare e quella religiosa turche, particolarmente accesa in questo periodo in cui la Turchia sta revisionando la propria Costituzione, per la cui stesura l’AKP deve necessariamente cercare la collaborazione del CHP, principale partito d’opposizione. La seconda alternativa sarebbe rappresentata dal partito ultranazionalista (MHP), ma ciò rappresenterebbe sia un allontanamento della Turchia dall’Europa (e della sua possibile entrata nella UE) sia un ritorno indietro nella trattativa di riappacificazione con la componente curda ultimamente intensamente perseguita dal governo.

La collaborazione tra l’AKP e il CHP sembra quindi la strada più naturale ed auspicabile, ma, ovviamente, non senza intoppi. Il CHP, animato da laici moderati e da intransigenti kemalisti, rimprovera al partito di governo, tra l’altro, di praticare una politica non meritocratica favorendo l’occupazione dei posti pubblici di cittadini di “comprovata fede musulmana” a discapito degli altri. L’AKP, di rimando, risponde che per quasi cent’anni la Turchia è stata dominata dai LAST (turchi laici, ataturkisti, sunniti) a molti dei quali sono stati assegnati incarichi non per merito ma per “comprovata fede kemalista”.

Resta la necessità, da parte del governo turco, di comporre quanto prima la questione curda, anche per portare a casa un risultato positivo dopo alcuni fallimenti verificatisi in politica estera, soprattuto in relazione alla situazione siriana: fintanto che il regime di Bashar al-Assad rimane saldo in sella, infatti, la Turchia non riesce a perseguire il suo scopo di proporsi come nazione leader nell’area.

Erdoğan e i suoi continuano a farsi forti nel buoni risultati in campo economico e della stabilità del Paese in questo senso: a breve vedremo se ciò basterà a garantire all’AKP la guida della Turchia.

 

dal Giornale di Brescia 28/1/2013.

 

 

Non dimentichiamoci l’Iraq….

images (4)L’attenzione internazionale ha spostato da tempo i riflettori dall’Iraq, ma il Paese rappresenta più che mai un utile laboratorio di lezioni da imparare ed applicare al Medio Oriente allargato. Se la caduta di Saddam ha rappresentato l’emergere della componente sciita maggioritaria per anni vessata da quella sunnita, il dopo Saddam si sta contraddistinguendo per un banale rovesciamento delle posizioni, con i sunniti che protestano lamentando disparità e sperequazioni compiuti ai loro danni dal governo sciita.

Certo i sunniti hanno le loro ragioni se a loro favore s’è recentemente espresso addirittura un leader sciita del calibro di Muqtada al Sadr, ma i partiti sunniti, che stanno puntando ad un’ulteriore smembramento del Paese con lo scopo di ottenere uno stato indipendente sul modello di quello curdo, non si peritano di servirsi, per i loro scopi secessionisti, di militanti affiliati ad al Qaeda. Molti di questi ultimi si sono infiltrati in Siria, con l’intendo di abbattere il regime alawita e di instaurare regimi oltranzisti tanto in patria quanto nella Siria dell’inevitabile post Assad.

E se l’Iraq non può essere paragonato alla Siria per numero di vittime civili, certamente non offre l’immagine di un paese pacificato, con un numero di morti che supera, per il solo 2012, le 4mila unità, morti causati perlopiù dallo scoppio di oltre 900 bombe che hanno causato altresì migliaia di feriti. Per consolarsi del fallimento iracheno alcune osservatori statunitensi hanno affermato sulla stampa nazionale che l’Iraq è assai pacifico di alcune province americane, quelle quella di Chicago, dove le vittime di delitti vari superano, in percentuale, quelle provocate dalla lotta tra fazioni irachene.

Ma l’Iraq è l’esempio lampante di errori commessi in passato e che adesso si stanno perpetuando contro altri regimi: ad esempio, le sanzioni adottate 1991 al 2003 contro l’Iraq non hanno per niente indebolito Saddam, anzi, l’hanno rafforzato, mentre hanno fiaccato la popolazione civile. E la conseguente svalutazione ha ucciso la classe media, costretta alla povertà o alla migrazione. Il prezzo del rovesciamento del regime di Saddam e la conseguente occupazione militare è stato pagato dalla popolazione irachena anche in termini di salute: secondo l’OMS nel Paese si registrano tassi di mortalità infantile preoccupanti, dovuti a inquinamento da piombo e mercurio contenuti nelle munizioni usate dalle truppe NATO. In Iraq esistono 750 mila vedove, molte delle quali disposte a diventare seconde mogli di qualcuno pur di evitare la fame o la strada della prostituzione che ora costituisce un business in aumento esponenziale. E in quell’Iraq che nel 1982 aveva ottenuto un riconoscimento dall’UNESCO per essere riuscito a debellare l’ analfabetizzazione, ora si trovano sempre più persone incapaci di leggere e scrivere, in percentuale che fra le donne supera il 30%.

L’instabilità politica irachena provoca una spirale di violenza che trova terreno fertile fra una popolazione oltremodo provata e, a tratti, “imbarbarita”, anche se le condizioni per favorire un ritorno dell’economia ci sarebbero: basti pensare che, con il crollo dell’esportazioni petrolifere iraniane, l’Iraq è ora secondo solo all’Arabia Saudita per la produzione dell’oro nero. Ma il petrolio rischia di divenire un ennesimo motivo di scontri: i curdi iracheni, infatti, hanno già siglato lucrosi contratti con compagnie internazionali (quali la Exxon e la Total) che tagliano fuori il governo di Baghdad. Quest’ultimo ha protestato ribadendo che solo il governo centrale ha il potere per firmare accordi che coinvolgano lo sfruttamento di energie nazionali.

da 15/1/2013.

India: donne, potere e donne al potere

aa-India-women-protestingL’India è scossa da un’ondata di proteste senza precedenti contro le violenze sessuali che hanno causato in pochi giorni la morte di una ragazza e il ferimento di altre. La violenza contro le donne nel Paese non rappresenta certo una novità: da decadi le organizzazioni femminili e quelle per i diritti umani si battono per denunciare le varie forme di sopruso di cui le indiane sono vittime quotidiane, addirittura prima delle nascita, che a moltissime viene preclusa (il fenomeno dell’amniocentesi usata per determinare il sesso del nascituro e sbarazzarsi delle femmine è tanto diffuso quanto esecrabile). Per non parlare delle discriminazioni cui una indiana è soggetta, quali le limitazioni dei suoi diritti alla proprietà terriera e al possesso di beni in genere; la discriminazione di salario e posizione nel luogo di lavoro; il minore accesso all’istruzione e la maggiore percentuale di abbandono degli studi rispetto ai maschi; la posizione di inferiorità nella conduzione della famiglia.

Certo vi sono onorevoli eccezioni, basti pensare che l’India è stata uno dei primi Paesi al mondo a avere una premier donna e che l’attuale presidente del Partito di maggioranza è una donna, per di più di origine straniere: ma la elezione di Indira e Sonia Gandhi è dovuta perlopiù alla loro vicinanza con potenti leader maschi del Paese. Anche altre donne che hanno raggiunto posizioni importanti in India debbono le loro carriere al vantaggio dinastico, più che a una reale volontà generale di riconoscere alle donne un ruolo apicale.

Inoltre, per mantenere il potere sono costrette a non occuparsi di politiche di genere, in quanto sarebbe visto come una debolezza, un’ammissione che le donne, quando elette, si occupano di questioni “di donne”. Ciò, in parte, spiega, anche se non giustifica, l’apparente distacco di Sonia Gandhi da quanto sta accadendo nel suo Paese, che si sta però ribellando e sta reagendo in modo diverso dal passato contro l’abuso nei confronti delle donne. I cortei che serpeggiano nelle piazze indiane chiedono giustizia, nuove leggi e maggiore controllo su chi le applica, dalle forze di polizia (queste ultime spesso colpevoli di reticenza, se non addirittura di complicità coi violentatori) ai magistrati: nel 2011, solo il 26% degli oltre 24mila casi di violenza contro le donne denunciati sono stati puniti.

Il fatto che l’ordine degli avvocati indiani rifiuti ora di difendere i violentatori è un importante segnale del cambiamento della mentalità di un’intera nazione, così come la presenza di molti uomini nei cortei di protesta. Altrettanto importante è che lo Stato abbia finalmente deciso di intervenire addestrando corpi speciali di polizia femminile e che molte regioni stiano istituendo centralini d’ascolto per aiutare le indiane in difficoltà. Ma il decisivo e necessario declino di questa violenza richiede l’azione congiunta di tutti i settori della società civile, a cominciare dalla famiglia, nella quale si consumano violenze quotidiane anche da parte di altre donne. I quotidiani riportano storie ordinarie di indiane che vengono percosse, o addirittura uccise dalle suocere per questioni di dote, delitti poi mascherati da falsi incidenti domestici. Molte mogli sono regolarmente picchiate dai mariti all’interno di matrimoni infelici perché per la maggior parte ancora combinati come vuole la tradizione, mentre la società ha oramai preso un’altra strada.

Le indiane sono ormai mature e non si riconoscono più nello stereotipo creato da Bollywood che le vuole tutte moine e danze per i loro amati; esse chiedono rispetto, pari opportunità e partecipazione alla vita del loro Paese.

 

da Giornale di Brescia 5/1/2013

I “buoni musulmani” di Dubai….

TeaTempo di vacanze, magari in climi più miti, e gli italiani (se possono) sembrano amare sempre di più o paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati, la cui città principale, Dubai, se manca di attrattive artistiche è  in compenso ricolma di negozi e ogni tipo di divertimenti. Quelli degli Emirati Arabi Uniti sono musulmani ma “aperti”, insomma, musulmani buoni. Su questo pare concordare anche Mario Monti, il quale, nel mese scorso, ha condotto una visita proprio a Dubai, dove il nostro ambasciatore locale ha dichiarato che “l’Italia considera gli UAE come modello di tolleranza nel mondo arabo e apprezza i progressi ottenuti dal loro governo nel rispetto dei diritti umani”.

Visto che lo scopo della visita del nostro oramai ex premier era quello di batter cassa, una bugia potrebbe giustificare i mezzi: l’importante è esser coscienti che si tratta di bugia, perché il governo degli UAE tutto è tranne che rispettoso dei diritti umani. Semmai, le autorità del Golfo sono state accurate nel forgiare una narrativa che ritrae i loro Paesi come accoglienti e tolleranti. Se questa politica ha favorito l’acquisto di immobili a Dubai e dintorni da parte di magnati e calciatori, i nuovi proprietari dovrebbero ricordarsi di come le autorità locali tengano in condizioni pressoché disumane le maestranze coinvolte nelle costruzioni: salari bassi, condizioni di lavoro pesanti (per il clima e per la mancata sicurezza dei cantieri), mancata assicurazione, mancata assistenza sanitaria, in pratica, nessun diritto per le migliaia di lavoratori stranieri che costituiscono la manovalanza UAE. E che dire dei diritti civili dei locali? Solo il 12% della popolazione UAE ha diritto di voto, stampa e internet sono imbavagliati, gli studenti che si sono mossi pubblicamente, sulla scia delle “primavere arabe” ad invocare i propri diritti si sono trovati con il passaporto confiscato, mentre componenti della società civile che hanno osato criticare la dirigenza si ritrovano in carcere da oltre un anno.

Essere condannati addirittura all’ergastolo per ribellione contro “le istituzioni” non è difficile, e dal mese scorso è ancora più facile: bastano una vignetta satirica, un blog che critichi le autorità o fornire informazioni “lesive” delle autorità locali alla stampa per incorrere in pene pecuniarie e carcerarie.

Le autorità UAE si difendono con la ormai trita scusa dei governi islamici illiberali: esse fungerebbero, secondo la versione ufficiale, da bastione contro il fondamentalismo islamico e il dilagare dei partiti politici islamici. Soprattutto, esse tenterebbero di arginare l’influenza del partito islamico al-Islah, che riscuote le simpatie di molti anti governativi; ma, con la scusa di combattere al-Islah, le autorità UAE stanno arrestando magistrati, avvocati, professionisti, studenti. Che fine abbiano fatto alcuni di questi non è dato a sapere, nonostante organizzazioni per i diritti umani si stiano dando da fare, anche portando a conoscenza il parlamento europeo della situazione. Quest’ultimo lo scorso ottobre  ha manifestato perplessità nei confronti della conduzione illiberale dei paesi UAE, chiedendo alle autorità garanzie sui rispetto dei diritti dei cittadini.

Al momento la risposta sembra essere tracotantemente negativa. E’ un fatto su cui anche i turisti dovrebbero meditare, tra uno shopping nel ricco centro di Dubai e una passeggiata lungo il suo allettante lungomare.

da Giornale di Brescia 23/12/2012

ARGO, il film: il pare di un’iranologa

da Spazio critico, rivista di cinema del Comune di Venezia

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233

Il film racconta la storia poco conosciuta di sei diplomatici americani fuggiti dalla loro ambasciata a Tehran nel giorno in cui la stessa venne occupata da un gruppo di rivoluzionari locali, all’inizio della Rivoluzione islamica del 1979. Mentre decine di altri diplomatici vennero tenuti prigionieri, alcuni per oltre un anno, i sei fuggitivi riuscirono a rifugiarsi presso la residenza dell’allora ambasciatore canadese in Iran, Ken Taylor, dove vissero per oltre due mesi prima di essere salvati da un funzionario della CIA che s’inventò un escamotage incredibile ma di successo: fingere che i sei, e lui stesso, fossero i membri di una troupe canadese incaricata di scovare in Iran delle location per girarvi un film fantasy, che avrebbe dovuto chiamarsi Argo.

Il film si apre con un riassunto della storia iraniana, in cui ci sono alcune inesattezze, ma che vuol spiegare i perché dell’odio iraniano nei confronti degli Stati Uniti: per questo si riesuma il fantasma del primo ministro Mohammad Mossadeq, che negli anni ’50 aveva nazionalizzato il petrolio, a dispetto delle potenze soprattutto americana e britannica, le quali avevano complottato per riportare sul trono lo shah Pahlavi, garante dei privilegi occidentali, compresi quelli petroliferi.

Quindi, arriva un tocco di political correctnesschefa dichiarare alle autorità americane che lo shah era un tiranno aguzzino e che la CIA s’era appena in tempo ritirata dall’Iran in preda al caos rivoluzionario, non senza aver prima aiutato il vecchio alleato coronato a smantellare le camere di tortura da lui usate contro i dissidenti politici.

Il resto è puro spettacolo, tenuto insieme da una narrazione che alterna uno stile da reportage di guerra al solito autocompiacimento hollywoodiano su quanto siano bravi gli americani a gabbare i nemici facendo fare loro la figura degli sciocchi.

Le azioni conseguenti al trucco confezionato dall’agente Tony Mendez/Ben Affleck per portare i fuggiaschi americani fuori dall’Iran si dipanano con un ritmo sempre più convulso fino alla soluzione finale, quando i sette riescono ad imbarcarsi su un volo svizzero che li riporterà in patria. Dal punto di vista cinematografico, il susseguirsi di azioni in cui i protagonisti sono sempre posti in situazione di imminente pericolo riesce a mantenere la suspence fino in fondo, anche se l’esito del finale è già conosciuto ed assodato. Ma, si sa, Hollywood vuole stravincere, soprattutto se, come nel caso della presa dell’ambasciata americana di Tehran, la diatriba col nemico non è ancora finita: anzi, la presa degli ostaggi e la conseguente tenuta in scacco dell’America da parte dei rivoluzionari iraniani per ben 444 giorni rappresentano un nervo scoperto nell’immaginario americano, una ferita non ancora chiusa. Ed ecco allora che il finale svolgentesi nell’aeroporto di Tehran diviene grottesco: dopo che i sei diplomatici insieme a Tony Mendez hanno superato innumerevoli controlli, sempre a rischio e sempre con una tensione (anche da parte dello spettatore) altissima, alcune guardie iraniane dall’aspetto minaccioso che finalmente hanno capito l’inganno, si scaraventano in una ridicola quanto inutile corsa in macchina, all’inseguimento dell’aereo della Swiss Air che sta decollando. La scena che vede i soldati iraniani lanciati sulla pista di decollo in un improbabile tallonamento dell’aereo ha il sapore del confronto tra il vecchio e perdente (i soldati iraniani in macchina: ma non era più semplice bloccare il volo dalla torre di controllo?!) e il nuovo e vincente (l’aereo svizzero) e dura qualche sequenza di troppo.

Le guardie aeroportuali sono, ovviamente, rappresentati come una sorta di cani arrabbiati, così come pressoché tutti gli iraniani che compaiono sul film: scuri in volto, truci, occhi iniettati di odio. Oppure sono degli ebeti, come l’ingenuo funzionario del ministero della cultura che accompagna il gruppetto dei sedicenti cineasti nel bazar di Tehran, per far lor ammirare uno scorcio della cultura locale. Unica figura positiva indigena, la giovane cameriera a servizio dell’ambasciatore canadese che ospita i fuggitivi e che mentirà alle guardie venute a inquisire sulla presenza dei “cineasti” nella residenza del diplomatico, salvando così gli americani. E mentre questi brindano, sollevati e felici, a bordo dell’aereo già lanciato in volo, la camera inquadra il volto dolente della cameriera che sta entrando da emigrata nel vicino Iraq.

 Anna Vanzan

 

 

crisi egiziana

Nel ritratto fornito dai media internazionali della crisi egiziana in atto prevale la descrizione di un Paese diviso tra islamisti (Fratelli Musulmani e salafisti) da un lato e opposizione laica dall’altro. Quest’ultima, formata da gruppuscoli liberali, minoranze religiose e sociali, starebbe lottando contro l’estensione di potere che il Presidente Morsi ha proclamato per se stesso e contro la bozza di costituzione che porterebbe all’imposizione di un modello statale religioso.

Certo è che una parte degli egiziani sta protestando contro il ruolo dittatoriale che Morsi si sta ricavando; meno certa è questa apparente dicotomia tra “religiosi” che vogliono l’implementazione della shari’a e laici che la rifiutano. Vediamo innanzitutto i termini della costituzione: nella nuova bozza i riferimenti alla legge islamica sono menzionati solo negli articoli 2 e 219. L’art 2, che esiste fin dai tempi di Sadat, prevede che i principi della legge islamica siano le fonti principali della costituzione. Mentre i salafiti hanno protestato, chiedendo che l’art 2 preveda la shari’a quale unica fonte, gli altri gruppi, compresi laici e cristiani, non hanno avuto nulla da eccepire al mantenimento dell’art 2 così com’è ora. Nonostante la mediazione qualificata (da punto di vista religioso) dell’imam della moschea di al Azhar, su questo punto non si è riusciti a trovare l’accordo, e così vari membri del Comitato per la Costituzione, fra cui il candidato perdente alla presidenza, Amr Mousa, e leader di partiti laici hanno ritirato il loro appoggio alla bozza, chiedendo, al contempo, di rivedere pure il ruolo di alcune istituzioni statali quali la magistratura e l’esercito.

Tale ritiro era inteso a far fallire l’appuntamento per il licenziamento della bozza della costituzione previsto per il 12 dicembre, con il conseguente obbligo da parte di Morsi di rinominare nuovi  esperti e re iniziare il procedimento da capo: un vero colpo per Morsi, già accusato di non aver realizzato nessuno degli obiettivi promessi durante i primi cento giorni di presidenza.

I partiti laici non si sono lanciati in richieste di separazione tra religione e stato, né nelle piazze gremite di manifestanti “anti-Morsi” si sono uditi slogan di richiesta di “secolarizzazione”: anche perché le opposizioni laiche stanno bene attente a non lasciare la fiaccola dell’islam nelle mani esclusive dei Fratelli Musulmani in un Paese in cui l’identità musulmana è comunque condivisa dalla stragrande maggioranza.

La crisi egiziana è squisitamente politica: i Fratelli Musulmani si stanno ponendo come unici arbitri del Paese, convinti che il successo ottenuto alle elezioni garantisca loro un governo incondizionato che non tenga conto dell’opposizione. Ma quest’ultima ha dimostrato di poter continuare a riempire le piazze di migliaia di dimostranti, segno che i Fratelli non hanno una maggioranza definitiva, così come bisogna ricordare che Morsi è stato eletto con una risicata maggioranza del 51% dei voti: l’”islam politico” non è quindi così prevalente come si vorrebbe far pensare, solo più prevaricatore. E’ contro questo modello autoritario imposto dai Fratelli e da Morsi che le opposizioni si stanno organizzando. Per uscire dalla crisi, l’Egitto ha anche bisogno di uscire dalla pretestuosa dicotomia tra “islamisti” e “laici”, ripensando invece a costruire una democrazia che rifletta le diversità politiche del Paese.

da Giornale di Brescia 12/12/2012.

Musulmani e cristiani in Nigeria

In Nigeria, come in molti paesi africani, ci sono questioni politiche, economiche e sociali che determinano uno stato di perenne tensione tra vari gruppi etnici e /o religiosi, quali la carenza di risorse, l’iniqua distribuzione della ricchezza e le tensioni inter comunali. Semplificare ciò che sta accadendo e rappresentare la violenza in Nigeria come una guerra di religione non serve a chiarire la situazione.

Gli attacchi da parte di musulmani contro i cristiani ottiene in occidente grande attenzione, ma la realtà è che la violenza è effettuata dai membri di tutti i gruppi. E gli estremisti islamici del gruppoBoko Haram, ora principali responsabili delle violenti azioni contro i cristiani, hanno esordito terrorizzando per anni i loro correligionari nelle stesse province nigeriane.

Como lo stesso vescovo di Sokoto ha avuto occasione di dichiarare, la dicotomia tra benestanti cristiani nel sud e poveri musulmani nel nord Nigeria è fuorviante, se non altro perché vi sono milioni di cristiani che vivono anche a nord del Paese, ma, soprattutto, in quanto implica che il conflitto nord/sud e cristiani/musulmani sia inevitabile. Vi sono gruppi nigeriani inter religiosi che lavorano per la pace e la composizione del conflitto, ma altri sono gli elementi che remano contro ogni processo di riappacificazione.

Nonostante il suo Presidente, Jonathan, abbia recentemente proclamato che la Nigeria è il secondo paese africano che con successo sta combattendo contro la corruzione, i nigeriani sono di tutt’altro avviso, e individuano proprio nella corruzione dei politici e della polizia la principale causa del degenerarsi della situazione. In un Paese ricchissimo di risorse naturali, che pompa oltre due milioni di barili di petrolio al giorno, l’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e il sistema fiscale esige dai poveri molto più di quanto non richieda ai benestanti. Fra questi ultimi vi sono gli imprenditori, i quali, secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, pagano regolari tangenti a pubblici ufficiali. E così, nonostante, sempre secondo il parere della Banca Mondiale, la Nigeria rappresenti il miglior contesto africano per gli investimenti, costituendo la seconda economia e il principale mercato del continente con i suoi quasi 160 milioni di abitanti, per la maggioranza dei nigeriani le prospettive di vita sono assai misere. Gli 80 milioni di musulmani appartengono allo strato maggiormente discriminato ed è al loro senso di emarginazione politica ed economica cui fanno appello gli estremisti.

Per molti musulmani e cristiani lo spauracchio della guerra di religione è agitato dal governo per giustificare, ad esempio, ingenti somme destinate alla sicurezza (il 20% del bilancio annuale, assai più di quanto non venga impiegato per il programma di educazione primaria), nonché lo stato di coprifuoco nelle zone a maggior rischio, con il risultato, però, di perseguire i propri avversai politici più che non conseguire positivi risultati nella lotta contro il terrore.

Eppure, la soluzione è forse più semplice di quanto non appaia. Tre anni fa, l’amnistia concessa a chi deponeva le armi aveva portato a un periodo di pace, grazie anche ai benefit economici offerti ai “redenti”. Boko Haram e altre frange minori vogliono probabilmente solo entrare nel programma di aiuti e mettersi in evidenza come coloro i quali contribuiscono a far appianare le sperequazioni economiche a danno dei musulmani. Forse, vale la pena di esplorare questa strada, prima che il conflitto s’aggravi ulteriormente.

da Giornale di Brescia 6/12/2012