Gli iraniani sono di nuovo in piazza e questa volta non si tratta di studenti che protestano in nome della libertà, ma di commercianti che non sanno più come prezzare le merci, visto che la moneta nazionale, il rial, ha perduto, solo nell’ultima settimana, il 40% del suo valore contro il dollaro. La serrata del bazar di Tehran avvenuta qualche giorno fa è particolarmente grave, in quanto l’immenso dedalo di negozi d’ogni tipo che si trova nel quartiere sud della capitale non solo è il vero cuore pulsante dell’economia nazionale, ma costituisce altresì, da secoli, il barometro del rapporto tra stato e cittadini. Storicamente, i commercianti del bazar, o bazari, hanno dato il via alle proteste più cruciali compresa, per rammentare solo la più rilevante avvenuta nel vicino passato, quella che ha decretato la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica Islamica a fine anni ’70.
Ora, fra gli slogan echeggianti nel corteo di bazari, spiccavano quelli indirizzati contro il Presidente Ahmadinejad, accusato di aver ridotto l’economia iraniana ai minimi termini: ciò potrebbe essere una buona notizia per la Guida Suprema Khamenei che mira a togliere di mezzo il Presidente della repubblica prima della scadenza del suo mandato (giugno 2013). Ma i bazari scandivano slogan anche contro l’aiuto fornito al regime siriano, aiuto fornito col beneplacito dell’intero establishment, Khamenei incluso.
La protesta del bazar è quindi una protesta che investe tutta la dirigenza, e parrebbe segnare il primo grande successo delle sanzioni che stanno strangolando l’Iran: dopo molti mesi di scontento per l’inflazione spaventosa, l’aumento insostenibile del costo della vita e la disoccupazione galoppante (ormai al 25%), la gente scende in piazza contro il regime, chiedendo, inoltre, di investire localmente le risorse ora impiegate per aiutare Assad a rimanere in sella. Ma vi potrebbe essere presto anche un altro risvolto auspicato dai governi internazionali, ovvero la necessità di scendere a compromesso sulla questione nucleare: l’avventura dell’arricchimento dell’uranio è estremamente dispendiosa e se fino ad ora ha avuto comunque l’approvazione dell’opinione pubblica, in questo momento di difficoltà la gente potrebbe cambiare idea. Al regime serve solo un pretesto per ridimensionare le proprie aspettative nucleari e certamente una protesta popolare contro il nucleare offrirebbe l’opportunità di negoziare in nome del “bene pubblico”, senza perdere la faccia.
Va tutto per il meglio, quindi? Forse. Non bisogna infatti dimenticare che le autorità iraniane combattono una guerra di propaganda contro Stati Uniti e alleati accusati di essere la causa principale della collassata economia. Anche il giorno dopo la serrata del bazar, Ahmadinejad è comparso in televisione, per tranquillizzare i connazionali e sottolineare come la debacle del rial sia dovuta alle sanzioni che impediscono le esportazioni del petrolio. Se lo scontento popolare nei confronti del regime è palpabile, lo è altrettanto l’aumentante odio nei confronti dell’occidente ritenuto responsabile di strangolare nella morsa economica non tanto il regime quanto la popolazione senza colpe.
Inoltre, prima di dare per sconfitta la dirigenza di Tehran, bisogna mettere in conto i possibili colpi di coda: se la valuta nazionale va malissimo, in compenso la borsa regge egregiamente e il Paese è preso d’assalto da investitori russi e cinesi.
Con le dovute differenze, il regime di Tehran sembra sempre più assomigliare a quello di Damasco: entrambi con un piede sulla fossa, entrambi entrati in una agonia senza fine che, al momento, va a discapito solo dei loro innocenti cittadini.
da Giornale di Brescia 7/10/2012