Nella piattaforma programmatica di Obama e del suo rivale manca un capitolo importante: che fare in Medio Oriente nel prossimo mandato. La politica americana continua a essere carente nei confronti di una zona ampia e cruciale, nella quale seguita a mietere insuccessi clamorosi, soprattutto per mancanza di diplomazia, di analisi e di acume politico. Non si è ancora elaborato il lutto per l’ambasciatore ucciso in Bengasi dai terroristi ed ecco che Washington in questi giorni sdogana un gruppo iraniano, i Mujaheddin-e Khalq (MEK), dall’elenco dei gruppi terroristi esteri più pericolosi. Il sospetto condiviso da molti è si tratti di un premio concesso per l’aiuto prestato dal MEK in atti di sabotaggio compiuti a danno del programma nucleare della Repubblica Iraniana. Ancora una volta, quindi, gli Stati Uniti favoriscono gruppi estremisti perché lottano contro un nemico comune, salvo poi diventarne la prossima vittima.
Inoltre, gli Stati Uniti continuano la stretta collaborazione con l’Arabia Saudita, alla cui ideologia wahhabita si ispirano, tra l’altro, proprio gli attentatori che hanno ucciso l’ambasciatore americano di Libia; e mentre Washington si proclama a favore dei movimenti democratici dei popoli arabi, Riyadh ospita l’ex dittatore tunisino Ben Ali, rifiutandosi di consegnarlo a un tribunale internazionale dove dovrebbe essere processato per aver represso i propri cittadini.
I paesi mediorientali di cui l’America fino a poco tempo fa controllava i destini si stanno ribellando: anche l’ambasciata di Sanaa è stata oggetto di un attacco dopo l’uscita del famigerato film su Maometto, ma la folla inferocita non era tanto composta da barbuti inturbantati e offesi dal vilipendio del loro profeta, quanto da giovani in abiti occidentali arrabbiati per un drone americano che ha abbattuto dieci innocenti civili, urlando slogan contro l’ambasciatore Gerald Feierstein, grande sostenitore dell’ex Presidente Saleh. E’ la prima volta che un diplomatico americano viene fatto oggetto di pesanti dimostrazioni e accuse, ma ciò comprova quanto il sentimento anti americano sia rafforzato e esteso.
Se gli yemeniti rimproverano a Washington l’ingerenza interna, i bahreiniti si lagnano perché gli Stati Uniti chiudono gli occhi davanti al massacro perpetuato da quasi due anni sotto i loro occhi, complici, ancora una volta, i sauditi che hanno inviato le loro truppe per aiutare la dinastia di Manama a soffocare nel sangue la rivolta dei cittadini richiedenti riforme e giustizia.
E mentre Washington ha abdicato al proprio ruolo di pacere nella questione palestinese, ora più che mai ferma a un punto morto, potenti lobby premono su Obama chiedendo invece interventi militari volti a stroncare il terrorismo in Libia o il programma nucleare in Iran.
La politica americana in Medio Oriente è ambigua e autolesionista, soggetta a chi ritiene che, pur di contrastare l’Iran, considerato il nemico per eccellenza, si debba continuare l’alleanza suicida con regimi liberticidi e protettori del terrorismo quali l’Arabia Saudita.
Brutte notizie giungono pure dal fronte afghano: è stata definitivamente sospesa l’attività di sostegno alle forze di sicurezza locali, un chiaro segno del fallimento del lungo e costoso addestramento della forza di polizia locale. Ad Obama serve quindi un successo, e questo non arriverà senza una nuova strategia: ma il successo della politica americana in Medio Oriente serve altresì alla pace, e a noi tutti.
da Giornale di Brescia 30/9/2012