Tempi duri in Iran

Per ora, le armi tacciono, ma il risultato di quest’ennesimo combattimento tra Israele e Palestina lascia inevitabili conseguenze, tra le quali l’ulteriore isolamento di Israele e la devastazione, morale e fisica, di Gaza.

Ma se, come è stato da più fonti ipotizzato, da parte di Israele quest’operazione è stata una sorta di avvertimento nei confronti dell’Iran non ci resta che temere il peggio. Anche se, paradossalmente, nella Repubblica Islamica d’Iran si respira un’aria quasi di vittoria: dopo mesi di accuse per l’appoggio fornito da Tehran al sanguinario alleato Assad, che brutalmente uccide i suoi cittadini a migliaia, l’Iran può di nuovo comparire sulla scena mediorientale come il difensore di musulmani innocenti, ovvero dei palestinesi. Ecco perché le autorità militari iraniane si sono affrettate a confermare che i missili in dotazione a Hamas sono stati fabbricati grazie al know how da loro fornito; mentre il portavoce del parlamento, Ali Larijani, ha dichiarato che il suo Paese è fiero di aiutare i palestinesi, lasciati soli dalle nazioni arabe.

Queste esternazioni iraniane appaiono, però, autolesioniste se affiancate a tutti i messaggi che personalità di spicco dell’establishment di Tehran stanno lanciando nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto dopo la conferma di Obama alla presidenza: dall’attuale Presidente Ahmadinejad al suo predecessore Rafsanjani, dal capo della commissione per la sicurezza nazionale allo stesso Larijani, tutti hanno rilasciato dichiarazioni sulla necessità di comporre la diatriba sul nucleare ricorrendo a negoziati diretti con gli Stati Uniti.

Nonostante la sicurezza ostentata dal regime iraniano sul futuro dell’economia locale, il Paese ha un disperato bisogno che le sanzioni vengano alleggerite quanto prima. Medici e associazioni umanitarie iraniani stanno da tempo cercando di attirare l’attenzione sugli scaffali vuoti di farmacie e ambulatori nell’intero Paese, da dove ormai mancano pure i farmaci “salva vita” di fabbricazione estera, mettendo in pericolo più di sei milioni di cittadini. Il mese scorso, tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea hanno dichiarato di aver depennato molti farmaci dalla lista dei beni non commerciabili con l’Iran, ma c’è un altro problema: la paurosa inflazione di cui l’Iran è protagonista rende impossibile ai più l’acquisto anche di beni di prima necessità. Il calo di produzione (ed esportazione) del petrolio ha vuotato le casse dello stato, mentre la moneta locale è collassata.

Restrizioni e privazioni rendono nervose le autorità, scatenandole le une contro le altre, perlomeno a parole: il Ministro della Sanità, ad esempio, ha accusato la Banca Centrale per non aver messo a disposizione un budget adeguato per acquisire farmaci e strumenti dall’estero.

Sempre a parole, anche il Presidente Obama ha sottolineato la volontà di risolvere la situazione iraniana con la diplomazia: ma accetteranno le autorità iraniane le proposte internazionali? Sapranno mettere da parte le proprie ambizioni personali per il bene del Paese? Nell’estate 1988, allorché l’Iran fu costretto a firmare l’armistizio con l’Iraq, l’allora capo di Stato, ayatollah Khomeini, disse che quella pace era come “bere un calice di veleno”. Ora più che mai è necessario che il regime di Tehran s’adegui alla realpolitik, anche pretendendo di essere costretto a rinunciare alle proprie ambizioni per il bene del popolo, e beva il famoso calice.

 

 pubblicato da Giornale di Brescia, 24/11/2012

Noi e l’Afghanistan: è sempre scontro di civiltà?

Ieri sera, al Candiani di Mestre, si è presentato il documentario di Razi e Soheila Mohebi Afghanistan 2014 un realistico, amaro, quasi spietato ritratto di come le potenze internazionali stanno affrontando la situazione afghana.

Al termine, un interessante dibattito condotto soprattutto grazie alla bravura di Soheila Mohebi, in difficoltà solo quando alcuni spettatori le hanno chiesto quanto ci vorrà perchè l’Afghanistan diventi una nazione…. Soheila ha provato a spiegare che le categorie occidentali non funzionano ovunque, e che l’Afghanistan è la prova evidente di questa impossibilità di traslare istituzioni e concetti che magari funzionano nel contesto occidentale come fossero universali…niente da fare, in quel momento è scattata l’incomprensione tra il pubblico e la cineasta.

E’ possibile essere ancora convinti che tutto ciò che è “made in the West” possa essere esportato come fosse un paio di scarpe italiane o uno spumante francese?