I “buoni musulmani” di Dubai….

TeaTempo di vacanze, magari in climi più miti, e gli italiani (se possono) sembrano amare sempre di più o paesi del Golfo, soprattutto gli Emirati, la cui città principale, Dubai, se manca di attrattive artistiche è  in compenso ricolma di negozi e ogni tipo di divertimenti. Quelli degli Emirati Arabi Uniti sono musulmani ma “aperti”, insomma, musulmani buoni. Su questo pare concordare anche Mario Monti, il quale, nel mese scorso, ha condotto una visita proprio a Dubai, dove il nostro ambasciatore locale ha dichiarato che “l’Italia considera gli UAE come modello di tolleranza nel mondo arabo e apprezza i progressi ottenuti dal loro governo nel rispetto dei diritti umani”.

Visto che lo scopo della visita del nostro oramai ex premier era quello di batter cassa, una bugia potrebbe giustificare i mezzi: l’importante è esser coscienti che si tratta di bugia, perché il governo degli UAE tutto è tranne che rispettoso dei diritti umani. Semmai, le autorità del Golfo sono state accurate nel forgiare una narrativa che ritrae i loro Paesi come accoglienti e tolleranti. Se questa politica ha favorito l’acquisto di immobili a Dubai e dintorni da parte di magnati e calciatori, i nuovi proprietari dovrebbero ricordarsi di come le autorità locali tengano in condizioni pressoché disumane le maestranze coinvolte nelle costruzioni: salari bassi, condizioni di lavoro pesanti (per il clima e per la mancata sicurezza dei cantieri), mancata assicurazione, mancata assistenza sanitaria, in pratica, nessun diritto per le migliaia di lavoratori stranieri che costituiscono la manovalanza UAE. E che dire dei diritti civili dei locali? Solo il 12% della popolazione UAE ha diritto di voto, stampa e internet sono imbavagliati, gli studenti che si sono mossi pubblicamente, sulla scia delle “primavere arabe” ad invocare i propri diritti si sono trovati con il passaporto confiscato, mentre componenti della società civile che hanno osato criticare la dirigenza si ritrovano in carcere da oltre un anno.

Essere condannati addirittura all’ergastolo per ribellione contro “le istituzioni” non è difficile, e dal mese scorso è ancora più facile: bastano una vignetta satirica, un blog che critichi le autorità o fornire informazioni “lesive” delle autorità locali alla stampa per incorrere in pene pecuniarie e carcerarie.

Le autorità UAE si difendono con la ormai trita scusa dei governi islamici illiberali: esse fungerebbero, secondo la versione ufficiale, da bastione contro il fondamentalismo islamico e il dilagare dei partiti politici islamici. Soprattutto, esse tenterebbero di arginare l’influenza del partito islamico al-Islah, che riscuote le simpatie di molti anti governativi; ma, con la scusa di combattere al-Islah, le autorità UAE stanno arrestando magistrati, avvocati, professionisti, studenti. Che fine abbiano fatto alcuni di questi non è dato a sapere, nonostante organizzazioni per i diritti umani si stiano dando da fare, anche portando a conoscenza il parlamento europeo della situazione. Quest’ultimo lo scorso ottobre  ha manifestato perplessità nei confronti della conduzione illiberale dei paesi UAE, chiedendo alle autorità garanzie sui rispetto dei diritti dei cittadini.

Al momento la risposta sembra essere tracotantemente negativa. E’ un fatto su cui anche i turisti dovrebbero meditare, tra uno shopping nel ricco centro di Dubai e una passeggiata lungo il suo allettante lungomare.

da Giornale di Brescia 23/12/2012

ARGO, il film: il pare di un’iranologa

da Spazio critico, rivista di cinema del Comune di Venezia

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233

Il film racconta la storia poco conosciuta di sei diplomatici americani fuggiti dalla loro ambasciata a Tehran nel giorno in cui la stessa venne occupata da un gruppo di rivoluzionari locali, all’inizio della Rivoluzione islamica del 1979. Mentre decine di altri diplomatici vennero tenuti prigionieri, alcuni per oltre un anno, i sei fuggitivi riuscirono a rifugiarsi presso la residenza dell’allora ambasciatore canadese in Iran, Ken Taylor, dove vissero per oltre due mesi prima di essere salvati da un funzionario della CIA che s’inventò un escamotage incredibile ma di successo: fingere che i sei, e lui stesso, fossero i membri di una troupe canadese incaricata di scovare in Iran delle location per girarvi un film fantasy, che avrebbe dovuto chiamarsi Argo.

Il film si apre con un riassunto della storia iraniana, in cui ci sono alcune inesattezze, ma che vuol spiegare i perché dell’odio iraniano nei confronti degli Stati Uniti: per questo si riesuma il fantasma del primo ministro Mohammad Mossadeq, che negli anni ’50 aveva nazionalizzato il petrolio, a dispetto delle potenze soprattutto americana e britannica, le quali avevano complottato per riportare sul trono lo shah Pahlavi, garante dei privilegi occidentali, compresi quelli petroliferi.

Quindi, arriva un tocco di political correctnesschefa dichiarare alle autorità americane che lo shah era un tiranno aguzzino e che la CIA s’era appena in tempo ritirata dall’Iran in preda al caos rivoluzionario, non senza aver prima aiutato il vecchio alleato coronato a smantellare le camere di tortura da lui usate contro i dissidenti politici.

Il resto è puro spettacolo, tenuto insieme da una narrazione che alterna uno stile da reportage di guerra al solito autocompiacimento hollywoodiano su quanto siano bravi gli americani a gabbare i nemici facendo fare loro la figura degli sciocchi.

Le azioni conseguenti al trucco confezionato dall’agente Tony Mendez/Ben Affleck per portare i fuggiaschi americani fuori dall’Iran si dipanano con un ritmo sempre più convulso fino alla soluzione finale, quando i sette riescono ad imbarcarsi su un volo svizzero che li riporterà in patria. Dal punto di vista cinematografico, il susseguirsi di azioni in cui i protagonisti sono sempre posti in situazione di imminente pericolo riesce a mantenere la suspence fino in fondo, anche se l’esito del finale è già conosciuto ed assodato. Ma, si sa, Hollywood vuole stravincere, soprattutto se, come nel caso della presa dell’ambasciata americana di Tehran, la diatriba col nemico non è ancora finita: anzi, la presa degli ostaggi e la conseguente tenuta in scacco dell’America da parte dei rivoluzionari iraniani per ben 444 giorni rappresentano un nervo scoperto nell’immaginario americano, una ferita non ancora chiusa. Ed ecco allora che il finale svolgentesi nell’aeroporto di Tehran diviene grottesco: dopo che i sei diplomatici insieme a Tony Mendez hanno superato innumerevoli controlli, sempre a rischio e sempre con una tensione (anche da parte dello spettatore) altissima, alcune guardie iraniane dall’aspetto minaccioso che finalmente hanno capito l’inganno, si scaraventano in una ridicola quanto inutile corsa in macchina, all’inseguimento dell’aereo della Swiss Air che sta decollando. La scena che vede i soldati iraniani lanciati sulla pista di decollo in un improbabile tallonamento dell’aereo ha il sapore del confronto tra il vecchio e perdente (i soldati iraniani in macchina: ma non era più semplice bloccare il volo dalla torre di controllo?!) e il nuovo e vincente (l’aereo svizzero) e dura qualche sequenza di troppo.

Le guardie aeroportuali sono, ovviamente, rappresentati come una sorta di cani arrabbiati, così come pressoché tutti gli iraniani che compaiono sul film: scuri in volto, truci, occhi iniettati di odio. Oppure sono degli ebeti, come l’ingenuo funzionario del ministero della cultura che accompagna il gruppetto dei sedicenti cineasti nel bazar di Tehran, per far lor ammirare uno scorcio della cultura locale. Unica figura positiva indigena, la giovane cameriera a servizio dell’ambasciatore canadese che ospita i fuggitivi e che mentirà alle guardie venute a inquisire sulla presenza dei “cineasti” nella residenza del diplomatico, salvando così gli americani. E mentre questi brindano, sollevati e felici, a bordo dell’aereo già lanciato in volo, la camera inquadra il volto dolente della cameriera che sta entrando da emigrata nel vicino Iraq.

 Anna Vanzan

 

 

crisi egiziana

Nel ritratto fornito dai media internazionali della crisi egiziana in atto prevale la descrizione di un Paese diviso tra islamisti (Fratelli Musulmani e salafisti) da un lato e opposizione laica dall’altro. Quest’ultima, formata da gruppuscoli liberali, minoranze religiose e sociali, starebbe lottando contro l’estensione di potere che il Presidente Morsi ha proclamato per se stesso e contro la bozza di costituzione che porterebbe all’imposizione di un modello statale religioso.

Certo è che una parte degli egiziani sta protestando contro il ruolo dittatoriale che Morsi si sta ricavando; meno certa è questa apparente dicotomia tra “religiosi” che vogliono l’implementazione della shari’a e laici che la rifiutano. Vediamo innanzitutto i termini della costituzione: nella nuova bozza i riferimenti alla legge islamica sono menzionati solo negli articoli 2 e 219. L’art 2, che esiste fin dai tempi di Sadat, prevede che i principi della legge islamica siano le fonti principali della costituzione. Mentre i salafiti hanno protestato, chiedendo che l’art 2 preveda la shari’a quale unica fonte, gli altri gruppi, compresi laici e cristiani, non hanno avuto nulla da eccepire al mantenimento dell’art 2 così com’è ora. Nonostante la mediazione qualificata (da punto di vista religioso) dell’imam della moschea di al Azhar, su questo punto non si è riusciti a trovare l’accordo, e così vari membri del Comitato per la Costituzione, fra cui il candidato perdente alla presidenza, Amr Mousa, e leader di partiti laici hanno ritirato il loro appoggio alla bozza, chiedendo, al contempo, di rivedere pure il ruolo di alcune istituzioni statali quali la magistratura e l’esercito.

Tale ritiro era inteso a far fallire l’appuntamento per il licenziamento della bozza della costituzione previsto per il 12 dicembre, con il conseguente obbligo da parte di Morsi di rinominare nuovi  esperti e re iniziare il procedimento da capo: un vero colpo per Morsi, già accusato di non aver realizzato nessuno degli obiettivi promessi durante i primi cento giorni di presidenza.

I partiti laici non si sono lanciati in richieste di separazione tra religione e stato, né nelle piazze gremite di manifestanti “anti-Morsi” si sono uditi slogan di richiesta di “secolarizzazione”: anche perché le opposizioni laiche stanno bene attente a non lasciare la fiaccola dell’islam nelle mani esclusive dei Fratelli Musulmani in un Paese in cui l’identità musulmana è comunque condivisa dalla stragrande maggioranza.

La crisi egiziana è squisitamente politica: i Fratelli Musulmani si stanno ponendo come unici arbitri del Paese, convinti che il successo ottenuto alle elezioni garantisca loro un governo incondizionato che non tenga conto dell’opposizione. Ma quest’ultima ha dimostrato di poter continuare a riempire le piazze di migliaia di dimostranti, segno che i Fratelli non hanno una maggioranza definitiva, così come bisogna ricordare che Morsi è stato eletto con una risicata maggioranza del 51% dei voti: l’”islam politico” non è quindi così prevalente come si vorrebbe far pensare, solo più prevaricatore. E’ contro questo modello autoritario imposto dai Fratelli e da Morsi che le opposizioni si stanno organizzando. Per uscire dalla crisi, l’Egitto ha anche bisogno di uscire dalla pretestuosa dicotomia tra “islamisti” e “laici”, ripensando invece a costruire una democrazia che rifletta le diversità politiche del Paese.

da Giornale di Brescia 12/12/2012.

Musulmani e cristiani in Nigeria

In Nigeria, come in molti paesi africani, ci sono questioni politiche, economiche e sociali che determinano uno stato di perenne tensione tra vari gruppi etnici e /o religiosi, quali la carenza di risorse, l’iniqua distribuzione della ricchezza e le tensioni inter comunali. Semplificare ciò che sta accadendo e rappresentare la violenza in Nigeria come una guerra di religione non serve a chiarire la situazione.

Gli attacchi da parte di musulmani contro i cristiani ottiene in occidente grande attenzione, ma la realtà è che la violenza è effettuata dai membri di tutti i gruppi. E gli estremisti islamici del gruppoBoko Haram, ora principali responsabili delle violenti azioni contro i cristiani, hanno esordito terrorizzando per anni i loro correligionari nelle stesse province nigeriane.

Como lo stesso vescovo di Sokoto ha avuto occasione di dichiarare, la dicotomia tra benestanti cristiani nel sud e poveri musulmani nel nord Nigeria è fuorviante, se non altro perché vi sono milioni di cristiani che vivono anche a nord del Paese, ma, soprattutto, in quanto implica che il conflitto nord/sud e cristiani/musulmani sia inevitabile. Vi sono gruppi nigeriani inter religiosi che lavorano per la pace e la composizione del conflitto, ma altri sono gli elementi che remano contro ogni processo di riappacificazione.

Nonostante il suo Presidente, Jonathan, abbia recentemente proclamato che la Nigeria è il secondo paese africano che con successo sta combattendo contro la corruzione, i nigeriani sono di tutt’altro avviso, e individuano proprio nella corruzione dei politici e della polizia la principale causa del degenerarsi della situazione. In un Paese ricchissimo di risorse naturali, che pompa oltre due milioni di barili di petrolio al giorno, l’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e il sistema fiscale esige dai poveri molto più di quanto non richieda ai benestanti. Fra questi ultimi vi sono gli imprenditori, i quali, secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, pagano regolari tangenti a pubblici ufficiali. E così, nonostante, sempre secondo il parere della Banca Mondiale, la Nigeria rappresenti il miglior contesto africano per gli investimenti, costituendo la seconda economia e il principale mercato del continente con i suoi quasi 160 milioni di abitanti, per la maggioranza dei nigeriani le prospettive di vita sono assai misere. Gli 80 milioni di musulmani appartengono allo strato maggiormente discriminato ed è al loro senso di emarginazione politica ed economica cui fanno appello gli estremisti.

Per molti musulmani e cristiani lo spauracchio della guerra di religione è agitato dal governo per giustificare, ad esempio, ingenti somme destinate alla sicurezza (il 20% del bilancio annuale, assai più di quanto non venga impiegato per il programma di educazione primaria), nonché lo stato di coprifuoco nelle zone a maggior rischio, con il risultato, però, di perseguire i propri avversai politici più che non conseguire positivi risultati nella lotta contro il terrore.

Eppure, la soluzione è forse più semplice di quanto non appaia. Tre anni fa, l’amnistia concessa a chi deponeva le armi aveva portato a un periodo di pace, grazie anche ai benefit economici offerti ai “redenti”. Boko Haram e altre frange minori vogliono probabilmente solo entrare nel programma di aiuti e mettersi in evidenza come coloro i quali contribuiscono a far appianare le sperequazioni economiche a danno dei musulmani. Forse, vale la pena di esplorare questa strada, prima che il conflitto s’aggravi ulteriormente.

da Giornale di Brescia 6/12/2012