Morire per Kabul

E’ morto un altro nostro connazionale sulla difficile strada che porta alla pacificazione dell’Afghanistan, il 52° soldato da quando la missione italiana affianca quella internazionale fra le montagne del Centrasia. L’alpino Tiziano Chierotti è stato ucciso al culmine dell’escalation di attacchi ai soldati della Forza Internazionale impegnata da oltre dieci anni ad estirpare i covi del terrorismo internazionale e a consentire a circa 30 milioni di afgani di poter vivere in pace. Un intervento certo necessario, ma se consideriamo che dal 2001 sono morti circa 2800 soldati della Forza Internazionale (per non parlare delle migliaia di civili afgani colpiti dal “fuoco amico” e/o dai Talebani), sono più che comprensibili le voci che da più Paesi (Italia in testa) si alzano a invocare la fine della missione.

Qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare. Ad esempio, vi è una palese conflittualità tra forze dell’ordine (polizia e esercito) addestrate dalla FI e i poliziotti/militari afghani, una conflittualità dettata dall’incomprensione spesso dimostrata dagli occidentali nei riguardi di usi e costumi locali, e che in più di una occasione ha spinto le forze afghane ad attaccare gli alleati. Solo recentemente la FI si è risolta ad addestrare i propri soldati non solo alla conoscenza del terreno afghano, ma pure nella lingua e negli usi e costumi locali, ciononostante la preparazione risulta sovente frettolosa e inadeguata. I militari della FI rischiano troppo spesso infrangere codici non scritti, divenendo vittime della loro conoscenza inadeguata e alienandosi la popolazione locale, sempre più scettica sull’utilità della presenza internazionale.

Eppure, dieci anni fa l’Afghanistan mancava di istituzioni democratiche elementari che sono state ristabilite grazie alla presenza internazionale, e ci sono molti afghani che paventano il 2014, anno in cui la FI dovrebbe ritirare le truppe: l’impegno “civile” dei Paesi ora coinvolti militarmente e garantito anche dopo il ritiro delle truppe basterà a salvare l’Afghanistan dal collasso?

In molte zone del Paese la società civile continua ad essere terrorizzata dal Taleban; scaramucce con l’esercito pakistano sono all’ordine del giorno presso i confini; la crescita economica ha subito un brusco arresto causa la siccità che ha colpito il Paese nella scorsa stagione e molti agricoltori sono soggetti al ricatto talebano che impone loro di coltivare oppio per supplire la produzione agricola (e foraggiare così gli stessi Taleban). A tutto ciò si aggiunge un altalenante conduzione del Paese, con il Presidente Karzai sempre pronto a stendere la mano verso i donatori internazionali, ma riluttante a mettere in opera le richieste riforme istituzionali finalizzate a combattere la corruzione e a garantire il rispetto dei diritti umani.

Altro problema cruciale è la cronica mancanza di coordinamento tra donatori e leadership locale, una lacuna che vanifica l’intervento dei donatori. Un esempio tra i tanti: nel 2009 Karzai ha inaugurato un ospedale modello nella capitale Kabul offerto da un costruttore cinese, ma la struttura sanitaria non ha mai aperto, perché il governo afghano non è in grado di farla funzionare.

Urge una nuova strategia della FI per uscire dall’impasse, ridando fiducia alla società civile afghana e un senso al sacrificio di tanti nostri connazionali.

da Giornale di Brescia 28/10/2012

Morsi: Ikwanizzazione dell’Egitto?

Dopo mesi, gli egiziani sono tornati in piazza, sostanzialmente per protestare contro la bozza della nuova Costituzione che sembra non tenere in debito conto i diritti delle minoranze religiose e di donne e bambini, mentre di fatto rafforza il ruolo della religione (islamica) nella politica e nella vita pubblica.

La contestazione nei riguardi della commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione non è certo scoppiata in questi giorni, in quanto da tempo gli egiziani ne lamentavano la scarsa trasparenza e il peso eccessivo dei suoi componenti “religiosi”, sproporzionatamente maggioritari rispetto agli altri. Così, le accuse alla commissione costituzionale vanno a sommarsi a quelle più generalmente rivolte al Presidente Morsi, giunto al giro di boa dei primi cento giorni al potere: e l’addebito principale contestato al Presidente è la sua volontà di ridurre l’Egitto al completo controllo dei Fratelli Musulmani, di cui Morsi è esponente ed espressione. Secondo i suoi detrattori, Morsi, privo di alcuna esperienza politica, sarebbe pilotato dalla Fratellanza alla quale sta assoggettando le principali cariche del Paese. Forte degli immensi poteri garantiti al Presidente della Repubblica dai tempi di Mubarak, Morsi ha investito delle massime cariche statali membri dei Fratelli Musulmani o, in alternativa, ha nominato personaggi che non intendono sbarrarne la strada al potere assoluto: sarebbe il caso di Al Sisi, scelto quale capo delle Forze Armate, unica istituzione in grado di rappresentare un degno contraltare ai Fratelli, un militare che non pare volersi mettere in rotta di collisione con la nuova dirigenza. Se, da un lato, l’opinione pubblica approva il ridimensionamento dell’esercito, il braccio destro della repressione del defunto regime, dall’altro non può che essere preoccupata dall’indebolimento dell’unica vera forza d’opposizione allo strapotere dei Fratelli Musulmani.

Altro elemento di forte preoccupazione per il cammino democratico del Paese è la stretta data dal nuovo governo alla stampa: dopo un incontro avvenuto la scorsa estate in cui Morsi ha annunciato all’associazione giornalisti che la loro opera verrà sottoposta al controllo della shura (l’organismo parlamentare in cui i Fratelli Musulmani detengono la maggioranza), sono cadute le speranze che il nuovo corso egiziano liberasse l’informazione dalla censura. E l’immediato oscuramento di un canale satellitare e l’accusa ad alcuni giornalisti di diffamazione nei confronti del Presidente hanno rafforzato l’idea che la censura di Mubarak si sia trasformata nella censura di Morsi.

Paradossalmente, Morsi subisce le accuse non solo da parte degli egiziani laici o che comunque non sono in accordo con la politica dei Fratelli Musulmani, ma pure quelle delle frange religiose estreme come quella salafita, che preme per una maggiore “islamizzazione” del Paese. Così, Morsi e i Fratelli sono costretti a promuoversi come un modello alternativo tanto agli uni quanto agli altri, onde sottolineare la propria peculiarità. I Fratelli minacciano la secolarizzazione dell’Egitto per differenziarsi dai “laici” dell’epoca Mubarak, ma, al contempo, in contrasto con i salafiti, debbono tener fede al loro impegno di provare come l’etica religiosa (islamica) sia compatibile coi principi della democrazia.

Il compito di Morsi e dei Fratelli è assai arduo e la transizione dell’Egitto ancora lunga e piena di insidie. 

pubblicato da Giornale di Brescia 20/10/2012

Bazar in fermento a Tehran

Gli iraniani sono di nuovo in piazza e questa volta non si tratta di studenti che protestano in nome della libertà, ma di commercianti che non sanno più come prezzare le merci, visto che la moneta nazionale, il rial, ha perduto, solo nell’ultima settimana, il 40% del suo valore contro il dollaro. La serrata del bazar di Tehran avvenuta qualche giorno fa è particolarmente grave, in quanto l’immenso dedalo di negozi d’ogni tipo che si trova nel quartiere sud della capitale non solo è il vero cuore pulsante dell’economia nazionale, ma costituisce altresì, da secoli, il barometro del rapporto tra stato e cittadini. Storicamente, i commercianti del bazar, o bazari, hanno dato il via alle proteste più cruciali compresa, per rammentare solo la più rilevante avvenuta nel vicino passato, quella che ha decretato la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica Islamica a fine anni ’70.

Ora, fra gli slogan echeggianti nel corteo di bazari, spiccavano quelli indirizzati contro il Presidente Ahmadinejad, accusato di aver ridotto l’economia iraniana ai minimi termini: ciò potrebbe essere una buona notizia per la Guida Suprema Khamenei che mira a togliere di mezzo il Presidente della repubblica prima della scadenza del suo mandato (giugno 2013). Ma i bazari scandivano slogan anche contro l’aiuto fornito al regime siriano, aiuto fornito col beneplacito dell’intero establishment, Khamenei incluso.

La protesta del bazar è quindi una protesta che investe tutta la dirigenza, e parrebbe segnare il primo grande successo delle sanzioni che stanno strangolando l’Iran: dopo molti mesi di scontento per l’inflazione spaventosa, l’aumento insostenibile del costo della vita e la disoccupazione galoppante (ormai al 25%), la gente scende in piazza contro il regime, chiedendo, inoltre, di investire localmente le risorse ora impiegate per aiutare Assad a rimanere in sella. Ma vi potrebbe essere presto anche un altro risvolto auspicato dai governi internazionali, ovvero la necessità di scendere a compromesso sulla questione nucleare: l’avventura dell’arricchimento dell’uranio è estremamente dispendiosa e se fino ad ora ha avuto comunque l’approvazione dell’opinione pubblica, in questo momento di difficoltà la gente potrebbe cambiare idea. Al regime serve solo un pretesto per ridimensionare le proprie aspettative nucleari e certamente una protesta popolare contro il nucleare offrirebbe l’opportunità di negoziare in nome del “bene pubblico”, senza perdere la faccia.

Va tutto per il meglio, quindi? Forse. Non bisogna infatti dimenticare che le autorità iraniane combattono una guerra di propaganda contro Stati Uniti e alleati accusati di essere la causa principale della collassata economia. Anche il giorno dopo la serrata del bazar, Ahmadinejad è comparso in televisione, per tranquillizzare i connazionali e sottolineare come la debacle del rial sia dovuta alle sanzioni che impediscono le esportazioni del petrolio. Se lo scontento popolare nei confronti del regime è palpabile, lo è altrettanto l’aumentante odio nei confronti dell’occidente ritenuto responsabile di strangolare nella morsa economica non tanto il regime quanto la popolazione senza colpe.

Inoltre, prima di dare per sconfitta la dirigenza di Tehran, bisogna mettere in conto i possibili colpi di coda: se la valuta nazionale va malissimo, in compenso la borsa regge egregiamente e il Paese è preso d’assalto da investitori russi e cinesi.

Con le dovute differenze, il regime di Tehran sembra sempre più assomigliare a quello di Damasco: entrambi con un piede sulla fossa, entrambi entrati in una agonia senza fine che, al momento, va a discapito solo dei loro innocenti cittadini.

 da Giornale di Brescia 7/10/2012

I continui errori di Washington in Medio Oriente

Nella piattaforma programmatica di Obama e del suo rivale manca un capitolo importante: che fare in Medio Oriente nel prossimo mandato. La politica americana continua a essere carente nei confronti di una zona ampia e cruciale, nella quale seguita a mietere insuccessi clamorosi, soprattutto per mancanza di diplomazia, di analisi e di acume politico. Non si è ancora elaborato il lutto per l’ambasciatore ucciso in Bengasi dai terroristi ed ecco che Washington in questi giorni sdogana un gruppo iraniano, i Mujaheddin-e Khalq (MEK), dall’elenco dei gruppi terroristi esteri più pericolosi. Il sospetto condiviso da molti è si tratti di un premio concesso per l’aiuto prestato dal MEK in atti di sabotaggio compiuti a danno del programma nucleare della Repubblica Iraniana. Ancora una volta, quindi, gli Stati Uniti favoriscono gruppi estremisti perché lottano contro un nemico comune, salvo poi diventarne la prossima vittima.

Inoltre, gli Stati Uniti continuano la stretta collaborazione con l’Arabia Saudita, alla cui ideologia wahhabita si ispirano, tra l’altro, proprio gli attentatori che hanno ucciso l’ambasciatore americano di Libia; e mentre Washington si proclama a favore dei movimenti democratici dei popoli arabi, Riyadh ospita l’ex dittatore tunisino Ben Ali, rifiutandosi di consegnarlo a un tribunale internazionale dove dovrebbe essere processato per aver represso i propri cittadini.

I paesi mediorientali di cui l’America fino a poco tempo fa controllava i destini si stanno ribellando: anche l’ambasciata di Sanaa è stata oggetto di un attacco dopo l’uscita del famigerato film su Maometto, ma la folla inferocita non era tanto composta da barbuti inturbantati e offesi dal vilipendio del loro profeta, quanto da giovani in abiti occidentali arrabbiati per un drone americano che ha abbattuto dieci innocenti civili, urlando slogan contro l’ambasciatore Gerald Feierstein, grande sostenitore dell’ex Presidente Saleh. E’ la prima volta che un diplomatico americano viene fatto oggetto di pesanti dimostrazioni e accuse, ma ciò comprova quanto il sentimento anti americano sia rafforzato e esteso.

Se gli yemeniti rimproverano a Washington l’ingerenza interna, i bahreiniti si lagnano perché gli Stati Uniti chiudono gli occhi davanti al massacro perpetuato da quasi due anni sotto i loro occhi, complici, ancora una volta, i sauditi che hanno inviato le loro truppe per aiutare la dinastia di Manama a soffocare nel sangue la rivolta dei cittadini richiedenti riforme e giustizia.

E mentre Washington ha abdicato al proprio ruolo di pacere nella questione palestinese, ora più che mai ferma a un punto morto, potenti lobby premono su Obama chiedendo invece interventi militari volti a stroncare il terrorismo in Libia o il programma nucleare in Iran.

La politica americana in Medio Oriente è ambigua e autolesionista, soggetta a chi ritiene che, pur di contrastare l’Iran, considerato il nemico per eccellenza, si debba continuare l’alleanza suicida con regimi liberticidi e protettori del terrorismo quali l’Arabia Saudita.

Brutte notizie giungono pure dal fronte afghano: è stata definitivamente sospesa l’attività di sostegno alle forze di sicurezza locali, un chiaro segno del fallimento del lungo e costoso addestramento della forza di polizia locale. Ad Obama serve quindi un successo, e questo non arriverà senza una nuova strategia: ma il successo della politica americana in Medio Oriente serve altresì alla pace, e a noi tutti.

 

da Giornale di Brescia 30/9/2012