Tutti gli articoli di Anna

La crisi in Iraq

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Siria e Iraq: due entità prossime alla disgregazione, preda di devastanti guerre interne fra gruppi che si fronteggiano sotto opposte bandiere religiose che in realtà rappresentano interessi politici ed economici precisi. Su tutti pare primeggiare il neonato gruppo jihadista dapprima denominatosi Stato Islamico per l’Iraq e la Siria (ISIS) ma che ora, visto il suo successo quasi insperato (poche migliaia di uomini sono riusciti a conquistare mezzo Iraq e i territori siriani confinanti) si è proclamato Stato Islamico tout court, affermando di voler sottomettere l’intero mondo musulmano. La rapida avanzata dell’ISIS preoccupa l’Iran, per il quale il confinante Iraq al momento governato dallo sciita al-Maliki rappresenta un alleato importante: basti pensare che lo scambio commerciale fra i due Paesi nello scorso anno ha toccato i 12 miliardi di dollari, cifra che le rispettive autorità contavano di raddoppiare nel 2014. Per l’Iran, l’Iraq ha altresì un valore simbolico, in quanto sul suo territorio sono disseminati i santuari più importanti per il culto sciita, tant’è che Tehran s’è affrettata a inviare truppe scelte proprio a proteggerli.

Anche gli Stati Uniti valutano un intervento militare, ma, in realtà, ciò che è di primaria importanza è avviare un’immediata azione politica. Innanzitutto rimuovendo al-Maliki, beniamino tanto di Tehran quanto di Washington, che rappresenta però la causa principale del successo dell’ISIS in Iraq, dove i sunniti maltrattati dalla politica partigiana del primo ministro hanno spalancato le porte, alcuni addirittura gettando la divisa militare nazionale per vestire la lugubre uniforme dei guerriglieri islamici. Tra l’altro, al-Maliki è inviso agli stessi sciiti iracheni, soprattutto ai leader religiosi del movimento, quali il grande ayatollah al-Sistani (massima carica sciita nel Paese) e addirittura Muqtada al-Sadr, il religioso a capo di un proprio gruppo armato, che un tempo fu sostenitore di al Maliki. Tanto al-Sistani quanto al-Sadr hanno ripetutamente sconfessato al-Maliki e la sua politica di marginalizzazione nei confronti dei sunniti, che ha procurato solo ripetuti atti di terrorismo nei confronti degli sciiti, e hanno invocato un nuovo gabinetto. Anche Nechirvan Barzani, capo del governo regionale del Kurdistan, si è espresso in questo senso, dichiarando che i curdi non nutrono alcuna fiducia nei confronti di al-Maliki.

La soluzione politica, però, richiede l’accordo tra Iran e Stati Uniti, che hanno da poco ricominciato a parlarsi, ma fra i quali esiste tutt’ora una sfiducia di base; tanto che il Segretario di Stato Americano John Perry continua a cercare alleati anti crisi a Riyadh, dimenticando, tra l’altro, che i sauditi non sono senza colpe nella formazione di gruppi jihadisti che costantemente minacciano gli equilibri in Medio Oriente e oltre.

Su un punto Washington e Tehran convergono, seppure per ragioni differenti, ovvero sull’intenzione di lasciare Assad al posto di comando: l’Iran perché considera il dittatore di Damasco un alleato irrinunciabile, gli Stati Uniti perché pensano che un governante che da anni sistematicamente bombarda e gasa i propri concittadini rappresenti il male minore. Eppure i militanti dell’ISIS sono nati in Siria come prodotto conseguente alla sconsiderata politica di Assad, e di ciò tutti, tanto in Occidente quanto in Medio Oriente, dovrebbero tenere immediato conto.

Giornale di Brescia 7/7/2014

Ciador art: neo Orientalismo e repressione

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Iranian contemporary art is renown and appreciated by the international art venues where it has been introduced by Shirin Neshat’s performances and photos of veiled women covered by Persian-Arabic calligraphy. 
This exotic aspect is highly coveted by the global art markets, while in Iran many criticize this neo  Orientalistic approach by calling it “ciador art”, as the veil is its main protagonist. Critics maintain that the West interest in an art characterized by ethnic alterity and burden with issues of sexual inequality penalizes the developing of a universal language among the contemporary Iranian artists. 
This paper explores the ethnic and gender boundaries in which Western market confines Iranian contemporary art and the way in which the Western discourse is colonizing Iranian artists.(Mondi Migranti, giugno 2014)

Iraq e lotta per la leadership nell’area

Unrest in Iraq

La conquista di Mosul e di Tikrit da parte delle forze dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) conferma che la sigla non raccoglie vari gruppi di estremisti disorganizzati e senza un piano, ma costituisce un vero e proprio esercito in grado di impadronirsi della seconda città dell’Iraq, impossessandosi di ingenti risorse (si parla di centinaia di milioni di dollari rubati alle banche locali) e costituendo una preoccupante sfida non solo al governo di Baghdad, ma all’intera area.

Che non si potesse contare sul debole e corrotto governo di Maliki era notorio: tra le varie colpe del premier va annotata pure la trasformazione della forza di sicurezza nazionale in un corpo di polizia personale volto a controllare e reprimere i suoi nemici politici anziché difendere il Paese. Resta da capire, però, come abbiano fatto migliaia di uomini a trasferirsi dalla Siria senza essere intercettati, ad arruolare quegli iracheni (perlopiù sunniti, molti dei quali appartenenti alla vecchia guardia di Saddam) colpiti dalla politica settaria e corrotta di Maliki e a diventare una minaccia per la regione.

Il governo iraniano, in particolare, è preoccupato per questo rafforzamento di un’enclave jihadista/sunnita in Iraq e dalla minaccia dell’ISIS di colpire i santuari sciiti di Najaf e Karbala. A Tehran, però, i toni sono assai più cauti che in passato, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, da sempre accusata di essere il principale finanziatore dell’ISIS, ma con la quale ultimamente c’è un stato un riavvicinamento diplomatico. Nel web circolano i commenti del capo delle forze rivoluzionarie iraniane, Ghassem Suleimani, il quale promette aiuto e protezione ai correligionari sciiti iracheni e ai loro luoghi sacri, ma un consistente impegno militare iraniano appare quanto mai improbabile, giacché il teatro di guerra siriano drena da tempo ingenti risorse militari e finanziarie. Di certo, la piega che stanno prendendo gli eventi iracheni comporta un serio indebolimento delle aspirazioni iraniane alla leadership nell’area, e marca l’apparente vittoria dell’Arabia Saudita, principale rivale dell’Iran.

Neppure i sauditi, però, possono essere contenti di questa affermazione del fronte jihadista, anche se ne hanno abbondantemente finanziato alcuni gruppi, fintanto che questi rimanevano in Siria a fare da barriera anti-Iran. Ora però che gli islamisti militanti si sono aggregati sotto la bandiera dell’ISIS e perseguono un stato che contrasta e sfida le pretese saudite di rappresentare l’unica e legittima autorità del mondo islamico, i sauditi cercano di prenderne le distanze.

Totalmente sconfitti appaiono gli Stati Uniti, che raccolgono l’ennesimo fiasco dopo una lunga e costosa operazione di “democratizzazione” in Medio Oriente, con conseguente pericolo per la sicurezza del Golfo e il transito del petrolio.

Il principale perdente, comunque, è la società civile irachena che ripiomba nel caos dopo oltre un decennio di enormi difficoltà e pochi vantaggi ricevuti nel post Saddam, sacrificata dalle mire egemoniche delle potenze confinanti. Un intervento diplomatico appare pressoché impossibile, anche perché l’ISIS è perlopiù animato da combattenti interessati solo alla opzione militare, fino alla morte. Una posizione estrema che, paradossalmente, potrebbe provocare la sua implosione.

da Giornale di Brescia, 13/6/2014

Donne velate, piscina e corruzione

wecandoittoobytuffix-d5efu7fNelle scorse settimane, la piscina comunale di Venezia-Mestre ha varato un esperimento: per consentire alle donne che portano il velo di accedere alla struttura, hanno riservato a loro (e a tutte le altre, pure con i bambini) l’ingresso per  un paio d’ore, quattro domeniche consecutive. Apriti cielo: i paladini della modernità, anti oscurantismo, difensori delle donne (?!) e bla bla bla hanno picchettato l’ingresso alla piscina, chiamato in causa le autorità comunali, costretto la polizia anti sommossa all’intervento. Il governatore della Regione, Zaia, ha parlato di inacettabile processo di islamizzazione iniziato con le polemiche sul crocefisso in classe (la cui rimozione, peraltro, era stata chiesta da una donna atea d’origine filandese). Insomma, un putiferio. Capisco: le donne con il velo sono un elemento destabilizzante, inquietano, spingono la gente a prendere posizione, a scendere in piazza. E’ un problema grave, altro che l’ennesimo scandalo per corruzione di cui si sono resi colpevoli i più alti gradi dell’amministrazione locale, sindaci, governatori ecc. Per lo scandalo del Mose nessuno scenderà in piazza: per le donne velate in piscina, sì.

Potenze del Golfo, Cassandra e … Anna Vanzan

ridottoLeggendo le notizie di questi giorni riguardandi la zona del Golfo, dallo scandalo dei mondiali di calcio 2022 assegnati al Qatar grazie alle tangenti pagate da Doha, all’inasprimento della pressione dei vari petro-monarchi sulla società civile, non posso non pensare a quanto ho scritto a proposito, ad esempio, in Primavere rosa:

Nonostante, infatti, le autorità dei vari paesi commissionino a prestigiose agenzie internazionali patinati reportage per dimostrare il proprio avanzamento nelle politiche di genere, sbandierando le posizioni apicali ottenute da poche token women spesso facenti parte proprio delle famiglie al governo, la realtà quotidiana è diversa. Ad esempio, le autorità saudite vantano la presenza di migliaia di donne d’affari sul loro territorio, ma si tratta in realtà perlopiù di prestanome femminili per aziende in solide mani maschili: le saudite, infatti, rappresentano solo il 17% della forza lavoro del Paese.

Non credo di avere detto sconvolgenti verità da novella Cassandra, solo verità scomode per troppi, compresi gli occidentali che fanno lauti affari del Golfo, tornando entusiasti da Dubai, dove si può comperare tutto, inclusi i diritti umani, o schifati da Ryadh, dove le donne “sono tutte imbacuccate e non ci sono le discoteche”. Ma pecunia non olet  , quindi evviva gli affari con i sauditi. Gli stati del Golfo comperano e gli occidentali si fanno comperare.

 

 

Una donna capo del governatorato di Bushehr

11_9.jpg.815x390_q85_crop_upscaleLa trentaseienne Maryam Qorbani, specializzata in sviluppo urbano, è la nuova governatora del distretto di Busher, nell’Iran meridionale. Diventano così quattro le donne a capo di governatorati nella Repubblica Islamica d’Iran, a conferma della sensibilità alle istanze di genere da parte del Presidente, Hassan Rouhani. La nomina di Maryam Qorbani sfata altresì il mito di un Iran a due marce dove solo il nord (Tehran) costituirebbe un polo di modernità. La regione di Bushehr conferma così la sua pluricentenaria storia di vocazione al progresso e all’avanzamento dei diritti delle donne.

Nigeriane pedine di guerra

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I Boko Haram che tengono in ostaggio centinaia di ragazze in Nigeria sono attivi da fine anni 1990. Il loro nome, che nella lingua locale hausa significa “istruzione occidentale illecita” riflette i loro obiettivi principali, ovvero l’abolizione di processi che essi considerano frutto della cultura occidentale, quali l’istruzione laica e i processi elettorali, e l’instaurazione di uno stato islamico. Il loro leader, Mohammad Yusuf, ha fondato scuole dove molti nigeriani contrari all’educazione laica hanno per anni mandato i loro figli, ma che costituivano altresì delle palestre di terrorismo.

Ma perché le donne sono diventate ora le loro principali pedine? Nel 2009 i Boko Haram hanno visto la loro leadership decapitata dalle forze governative: centinaia di militanti, incluso Yusuf, sono stati uccisi senza processo e in modo spettacolarmente crudele, e molte donne legate ai Boko Haram sono state incarcerate e/o uccise. Da quel momento, i Boko Haram hanno cambiato tattica, dando avvio a una serie di rapimenti, inclusi quelli delle mogli degli ufficiali governativi, usandole come merce di scambio per far liberare i loro militanti prigionieri. Mentre sotto il nuovo leader, Abubakar Shekau, i Boko Haram diventavano più sofisticati modellandosi secondo il terrorismo in franchising di al Qaeda, anche i loro obiettivi si internazionalizzavano, grazie al bombardamento del quartiere ONU nella capitale Abuja e al rapimento di una famiglia francese avvenuto l’anno scorso in Camerun.

Negli ultimi due anni, i rapimenti di donne da entrambi le parti si ripetono con sconcertante frequenza; le mogli di alcuni capi dei Boko Haram sono tuttora in carcere, e il recente rapimento delle duecento ragazze dalla scuola di Chibok è stato ideato principalmente per costringere il governo a restituire ai terroristi le loro donne. In questo braccio di ferro per dimostrare il potere, i Boko Haram volutamente proiettano la loro immagine di guerrieri “islamici” la cui ideologia impone che le donne cristiane vadano convertite e considerate bottino di guerra. Il loro misoginismo colpisce tanto le donne della loro comunità, ritenute utili solo per la procreazione, il mantenimento quotidiano della comunità e la soddisfazione dei bisogni sessuali, quanto e soprattutto quelle cristiane, queste ultime simbolo del potere e dell’influsso occidentale che i Boko Haram combattono. Tuttavia, il machismo di questi terroristi non preclude loro di travestirsi da donne, quando serve, tanto che alcuni di loro sono stati scoperti e uccisi mentre trasportavano armi sotto lunghi veli.

In un contesto in cui le donne sono stabilmente vittime di abusi d’ogni tipo e le leggi dello Stato piene di discriminazione nei loro confronti, non desta meraviglia che esse costituiscano l’obiettivo principale delle violenze settarie. Anche se i Boko Haram non detengono il monopolio della violenza contro le donne che in Nigeria, rimane endemica, trans etnica e trans religiosa, non vi è dubbio che in questo conflitto essi strumentalizzino le donne in senso ideologico e strategico, nonché per ottenere vantaggi economici tramite il riscatto.

 

da Giornale di Brescia 14/5/2014

L’India e la questione della violenza sulle donne

images Treccani, atlante geopolitico: http://www.treccani.it/geopolitico/paesi/india.html

La morte di una studentessa dell’Università di Delhi avvenuta a seguito di uno stupro di gruppo nel dicembre 2012 ha provocato sdegno e ira tra la società civile indiana. Nel Paese del “miracolo economico” vigono ancora molte norme sociali, comportamenti e attitudini che contribuiscono al mantenimento di una cultura della violenza perpetuata contro le donne. Tale atteggiamento misogino affonda le radici nell’India feudale e patriarcale che ha sublimato come modelli femminili figure della mitologia hindu (quali Sitra e Savitri), le cui qualità consistono nell’assoluta e cieca devozione ai propri mariti, alla morte dei quali esse dovrebbero immolarsi bruciando sulla pira (sati), rituale abolito ufficialmente da circa due secoli, ma che in qualche seppur raro contesto ha continuato ad essere praticato. D’altro canto, la comunità musulmana, che, seppure cospicua, si sente schiacciata numericamente dalla maggioranza hindu, rafforza la propria identità rendendo le donne veri e propri marcatori culturali, al punto da isolarle dalla sfera sociale (purdah) pur di preservarle da possibili “scandali”. Tale divisione etnico-religiosa tra le due principali comunità del Paese comporta, tra l’altro, la mancata unione d’intenti tra i due rispettivi movimenti femminili, il cui sforzo verso obiettivi comuni è spesso vanificato da preoccupazioni di lealtà verso il gruppo d’appartenenza anziché verso l’acquisizione di diritti in quanto donne. La violenza contro le indiane inizia prima ancora della loro nascita: com’è noto, infatti, l’amniocentesi e altri esami concepiti per effettuare diagnosi prenatali vengono usati per disfarsi di feti femminili, riducendo in modo drastico la percentuale di neonate. Così le famiglie si liberano alla radice dell’onere di dover provvedere alla dote matrimoniale delle figlie. La dote, peraltro, divine ennesimo pretesto di violenza contro le spose, le quali sono vittime di “incidenti” domestici, spesso architettati da mariti e suocere che intendono così ricattare la famiglia d’origine della donna onde ottenere una dote più cospicua; oppure, che vogliono liberarsi della sposa per impalmarne un’altra dotata di maggiori mezzi economici. Ad aggravare questa situazione si aggiunge la lenta e riluttante risposta delle autorità al problema della violenza; basti pensare che, nonostante il movimento femminista abbia posto la violenza come obiettivo primario di lotta fin dagli anni ’70, solo nel 2005 il governo indiano ha promulgato una legge (Protection of Women from Domestic Violence Act) che finalmente prende una decisa posizione nei confronti delle violenze domestiche, tanto fisiche quanto psicologiche. E ciò, dopo che nel 2001 aveva emanato un altro provvedimento legislativo in cui, tra l’altro, si esprimeva a favore della donna maltrattata solo nei casi di “violenza prolungata”, concedendo al marito l’immunità qualora questi avesse reagito a “minacce nei propri confronti”. Tuttavia, la legge del 2005 è ancora insufficientemente implementata, per vari motivi, tra i quali spiccano l’insensibilità delle autorità di polizia cui le donne si recano per sporgere denuncia, e la complicità patriarcale dei medici addetti a riscontrare le prove di violenza fisica, i quali spesso si rifiutano di redigere il rapporto. Inoltre, la stragrande maggioranza delle donne dopo il matrimonio si reca a vivere nella casa maritale assieme ai suoceri; pertanto, anche nel caso in cui la donna trovi il coraggio di denunciare il marito e il tribunale lo allontani, la vittima rimane comunque esposta alla vendetta dei familiari acquisiti. Nel caso, invece, che sia lei ad andarsene, superando la paura dello stigma sociale per l’ “abbandono” del tetto coniugale tornando a quello d’origine, si trova spesso esposta al biasimo della propria famiglia, perché la violenza domestica continua ad essere considerata un affare privato, da non denunciarsi in pubblico in quanto, paradossalmente, discredita e arreca disonore alla vittima e alla sua famiglia. Gli stessi limiti e contraddizioni sono ben presenti pure nella legislazione tesa a punire e arginare lo stupro, che non criminalizza, però, quello coniugale. Nonostante, infatti, le pressioni della società civile a seguito del luttuoso evento del dicembre 2012 abbiano portato a una revisione degli articoli del Codice Penali riguardati lo stupro, l’ Anti Rape Bill in vigore dall’aprile 2013, pur introducendo alcune importanti novità (quale, ad esempio, l’aumento di pena per alcuni reati a sfondo sessuale, per gli attacchi con acidi, per lo stalking e il voyeurismo) non penalizza il sesso non consensuale imposto alla moglie. Il giudizio critico con cui le associazioni per i diritti delle donne hanno accolto la nuova legge sembra purtroppo confermato da una raffica di stupri avvenuti in India proprio dopo la sua approvazione. Ciò conferma che, oltre alle leggi, deve radicalmente cambiare l’attitudine patriarcale nei confronti delle donne; al contempo, il governo indiano deve mantenere le proprie promesse realizzando il piano di aiuti economici e sociali per le vittime e le possibili vittime di odiosi crimini sessuali, promesso nel febbraio 2013 e mai avviato.

Iraq, elezioni, petrolio e acqua

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L’Iraq si avvia alla sua prima elezione parlamentare da quando nel 2011 le truppe statunitensi hanno lasciato il Paese, in un clima di grande instabilità e fra attentati terroristici che mettono quotidianamente a repentaglio la vita dei cittadini. Scontri fra opposte fazioni e atti criminali compiuti soprattutto dal gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, vicino ad al Qaeda, hanno già accumulato l’impressionante record di oltre 2800 morti solo dall’inizio dell’anno, procedendo a un ritmo che ricorda quello preoccupante realizzato lo scorso anno, quanto le vittime furono quasi 8mila. Pertanto, mentre pare scontata la conferma alle urne del partito dello sciita Nouri al Maliki, che guida il Paese dal 2006, sembra altrettanto prevedibile che l’attuale Primo Ministro dovrà accordarsi con altre forze, quali gli esponenti di quei partiti sciiti che contestano ad al Maliki l’incapacità di porre fine agli attacchi che colpiscono soprattutto la loro comunità.

Quest’ultima decade di violenza conferma, tra l’altro, l’imprescindibile necessità di costruire un modello istituzionale assai più decentralizzato rispetto a quello attuale; la distribuzione delle risorse petrolifere, ad esempio, è una chiara prova dell’incapacità del governo di accordarsi in modo soddisfacente con le comunità locali maggiormente coinvolte nell’estrazione del greggio, quale quella curda nel nord del Paese, con conseguente inasprimento dei rapporti tra Baghdad e il Governo Regionale Curdo.

Altro punto dolente nella gestione di al Maliki è il suo sospetto coinvolgimento negli attentati contro alcuni suoi opponenti sunniti; se anche questa gravissima accusa fosse infondata, rimane comunque provato che l’autoritaria politica del Primo Ministro ha scavato un ulteriore solco tra le maggiori comunità del Paese (sciita, sunnita, curda), trasformando sempre più la politica irachena in un conflitto tra gruppi etnico/religiosi. L’Iraq pare così avviato alla frammentazione, mentre avrebbe bisogno di un modello di federalismo capace di puntare all’inclusione dei diversi gruppi e alla decentralizzazione amministrativa. Ma al Maliki sembra poco propenso ad allentare la presa dispotica, giustificata, al solito, quale arma contro il terrorismo, il male maggiore da cui l’Iraq è ora affetto, anche se le sue misure non sembrano avere grandi risultati. Il gruppo per lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, infatti, è in grado di tenere testa all’esercito regolare e controlla l’area strategica della città di Falluja, e, in particolare, la sua diga, trasformando l’acqua – risorsa ancor più cruciale del petrolio- in un’arma di ricatto e ritorsione nei confronti tanto del governo quanto delle comunità locali, e provocando una vera e propria crisi dell’acqua. I terroristi hanno infatti provocato l’inondazione dei terreni nei pressi di Baghdad, bombardando, contemporaneamente, l’oleodotto che conduce il petrolio fino in Turchia. Al Maliki risponde con brutale atrocità nei confronti anche di sospetti terroristi (provate da video, girati pure dalle forze regolari), al punto che si registra un’alta percentuale di defezioni all’interno dell’esercito iracheno.

Risulta chiaro, quindi, che la spirale di violenza in cui si dibatte l’Iraq deve trovare una soluzione politica; e se, come auspicabile, queste elezioni avranno successo, dimostrando la fede degli iracheni nelle istituzioni, al Maliki dovrà mettersi subito al lavoro, per sviluppare un sistema federale volto non solo a rallentare la tensione nel suo Paese, ma anche potrebbe pure costituire un significativo esempio nell’area.

da Giornale di Brescia 29/4/2014