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Rouhani a New York

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L’assemblea generale delle Nazioni Unite si sta prospettando come un appuntamento d’importanza cruciale per le sorti del mondo. Il leader più atteso sembra essere il neo Presidente della Repubblica Islamica d’Iran, Hassan Rouhani, attorno al quale gravitano argomenti di capitale interesse e strettamente collegati tra loro, quali la situazione siriana e il nucleare iraniano.

Il neo Presidente iraniano si presenta a New York con una serie di credenziali che fanno ben sperare: la mediazione iraniana è stata cruciale nella “resa” da parte di Bashar Assad per la consegna delle armi chimiche e Rouhani ha più volte dichiarato la volontà del proprio Paese a non perseguire il nucleare per fini bellici, e di avere comunque pieno mandato per stipulare un accordo in materia con le potenze occidentali. A tal proposito, Rouhani ha in programma un incontro, proprio a New York, con tutti i membri della P5 (Cina, Russia, Germania, Inghilterra, Francia), con esclusione, al momento, degli Stati Uniti. Ma lo scambio epistolare avvenuto nei mesi scorsi tra Rouhani e Obama fa ben sperare in un incontro, se non al vertice, almeno tra alti funzionali dei due stati.

Per quanto riguarda il fronte interno, Rouhani ha messo a segno una serie eventi positivi: la corsa al rialzo dei prezzi per i generi di prima necessità si è fermata (complice pure l’alleggerimento del blocco internazionale nei confronti del trasporto navale iraniano), così come si è parzialmente colmato il divario nel cambio tra il dollaro e la valuta iraniana. Alcune manovre volute dal Presidente (quali la liberazione dei social network prima accessibili solo attraverso l’uso di filtri e, più cospicuamente, la liberazione dal carcere di alcuni figure di dissidenti di spicco, quali l’avvocata Nasrin Sotudeh, ex braccio destro del Nobel per la Pace Shirin Ebadi) hanno riportato fiducia nella popolazione, spingendo verso un’unità nazionale che non si respirava dagli anni ’50, all’epoca della nazionalizzazione del petrolio da pare dell’allora ministro Mossadegh.

Ovviamente, vi sono molti scettici che attribuiscono queste timide riforme al bisogno di Tehran di allentare la pressione delle sanzioni e di allontanare la minaccia di un attacco alla Siria che avrebbe conseguenze letali anche per l’Iran. Alcuni “falchi” americani hanno applaudito il loro Presidente, Obama, per aver contribuito ad inasprire le sanzioni e aver minacciato la Siria di un attacco bellico, elementi che, secondo la loro interpretazione, avrebbero determinato l’ammorbidimento (anzi, la capitolazione), di Tehran.

Al contempo, molti altri plaudono la diplomazia che, negli ultimi tempi, sembra di nuovo animare i rapporti internazionali. Ambo le parti parlano di “rispetto reciproco”, mentre “flessibilità”, sembra essere la parola che anima i discorsi tanto di Tehran quanto di Washington. Indubbiamente, ciò rappresenta il segno positivo di una distensione che va ampliata e fortificata. Se ciò è dovuto, da parte iraniana, ai problemi economici che travagliano da tempo il Paese, certamente anche gli Stati Uniti debbono sottostare alle necessità di una crisi globale che li costringe a guardare al proprio interno, se vogliono mantenere la propria posizione negli affari mondiali.

In altra parole, anche Washington deve cambiare il proprio approccio e convogliare le proprie energie non verso una guerra logorante nei confronti di Tehran, ma verso un progetto di attiva collaborazione con l’Iran, senza il quale la regione rimarrà in uno stato di tensione, con la Siria in preda alla guerra civile, l’Iraq vittima di continui attacchi terroristici e l’Afghanistan destinato a divenire, dopo il ritiro americano, un luogo più violento e ingovernabile di quanto non fosse all’inizio del 2000.

da Giornale di Brescia, 24/9/2013.

L’attacco alla Siria è (anche) un pericolo per la società civile iraniana

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Nonostante attorno ai suoi confini spirino venti di guerra, l’Iran sembra vivere un momento di grande speranze, dovute al new deal che si sta delineando in queste ultime settimane, ovvero da quando Hassan Rouhani è divenuto ufficialmente Presidente della Repubblica Islamica. I primi tangibili segni del cambiamento sono costituiti dal neo governo proposto da Rouhani, peraltro accettato dal Parlamento, il quale, ratificando quasi tutte le scelte presidenziali (15 su 18), ha dimostrando il proprio appoggio al neo Presidente (mentre era ai ferri corti con il suo predecessore Ahmadinejad). Nel nuovo gabinetto spicca il profilo del Ministro per la Cultura, Ali Jannati, che ha esordito riunendo le principali associazioni artistiche e culturali del Paese alle quali, dopo aver criticato l’eccessiva ingerenza della censura esercitata sotto i suoi predecessori, ha dichiarato di voler intraprendere misure in aiuto agli editori, quali un alleggerimento della censura stessa. Conseguentemente, è stata annunciata la riapertura di alcuni giornali riformisti costretti a chiudere durante l’era Ahmadinejad, nonché il cambio di direzione di alcune testate che costituivano i portavoce della precedente amministrazione. E’ altresì stato avvicendato il direttore dell’Ufficio Cinema nazionale, cui è stato apposto Hojjatollah Ayyubi, un manager di provate esperienze in ambito culturale il cui compito sarà quello di rivitalizzare l’industria cinematografica sofferente per l’aggravamento della censura patito in questi ultimi anni; la sua nomina è già stata accolta con favore da molte associazioni di artisti.

Nel nuovo governo siede, tra l’altro, una vice presidente donna, Elham Aminzade, una scelta che conferma come Rouhani si ponga quale nuovo Khatami (il famoso Presidente riformista che, tra l’altro, aveva per primo nella storia del Paese, scelto una donna, l’ambientalista Mahsoumeh Ebtekar, come sua vice,). Se questa può essere letta quale scelta di comodo onde compiacere l’elettorato femminile, certo l’incarico dato ad una altra donna, Marzieh Afkham, nuova portavoce del Ministro degli Esteri, non è solo di decoro. Prima donna d’Iran a rappresentare un Ministero dinnanzi ai media internazionali, la 48nne Afkam, che proviene dalla diplomazia, ha accettato il mandato in un momento delicatissimo, stretto tra un possibile attacco missilistico americano contro la Siria e gli estenuanti negoziati sul programma nucleare iraniano. Certo le decisioni sono in mano al Ministro, Mohammad Javad Zarif, che in questi giorni sta dando prova di consumata abilità diplomatica esprimendo, a un tempo, ferma condanna per l’uso delle armi chimiche in Siria, preoccupazione per un intervento bellico che provocherebbe ulteriori sofferenze alla popolazione siriana, ma anche biasimo nei confronti di Washington che si erge a paladino dei siriani vittime di armi chimiche, quando ai tempi dell’attacco iracheno nei confronti dell’Iran ha sostenuto l’allora alleato Saddam Hussein facente uso delle stesse armi letali contro gli iraniani. Il fatto poi che il neo ministro affidi queste considerazioni alla sua pagina Facebook (mentre lo stesso Rouhani continua a twittare dichiarazioni tramite l’omonimo social network), fa capire come nella politica iraniana si respiri una nuova aria.

Certo non ci si deve illudere che tutto ciò sia foriero di cambiamenti epocali in breve termine, ma di certo ci si deve chiedere che cosa comporterebbe un attacco alla Siria (al momento unico alleato dell’Iran nell’area) anche nei confronti della società civile iraniana e delle nuove speranze lì nutrite. L’arrivo di Rouhani e della nuova amministrazione ha fatto subito sperare in un nuovo corso nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, ma un attacco americano alla Siria annienterebbe ogni possibilità di dialogo. Nonostante le apparenze, Stati Uniti e Iran hanno già collaborato per risolvere una crisi, quella afghana, con conseguente caduta del regime dei Taleban. Tale collaborazione potrebbe essere riproposta nel caso siriano. Gli Stati Uniti si devono quindi chiedere se hanno già esplorato tutte le possibilità diplomatiche prima di arrivare all’attacco bellico contro Damasco, azione che avrebbe ripercussioni catastrofiche anche sul destino dell’Iran e su quello del mondo intero.

da Giornale di Brescia 9/9/2013

l’islam politico è morto, viva l’islam politico

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In Tunisia è stato ucciso un altro esponente dell’opposizione contro il partito islamico al governo Ennahda; in Egitto, il Presidente Morsi, espressione del partito islamico al potere, è stato esautorato dall’esercito dopo che milioni di cittadini ne hanno chiesto l’allontanamento; in Turchia, il leader dei partito islamico al governo da anni, Recep Erdoğan, è da oltre un mese contestato dalle piazze che lo accusano di aver tradito la democrazia. Questi eventi spingono molti osservatori a pensare all’implosione dell’islam “politico” e a dichiarare la fine di questo modello, ma, un’analisi dei fatti porta ad altre conclusioni. In Egitto, Morsi è stato contestato perché ha interpretato il mandato come un’autorizzazione a consolidare il proprio potere, convinto che l’anima religiosa degli egiziani fosse sufficiente per assoggettarli a un unico partito, seppure d’ispirazione religiosa. Inoltre, ha fallito (insieme ai Fratelli Musulmani) nel dare una risposta alla crisi economica e sociale in cui si dibatte il Paese, così come, parallelamente, in Tunisia ha fallito Ennahda, il cui governo coincide con una delle peggiori crisi economiche nella storia tunisina. In Turchia, dove Erdoğan ha portato il Paese al benessere e a un esponenziale incremento del PIL, le cose sono diverse: qui non è in discussione il partito religioso al governo (anche se, ovviamente, pure l’AKP ha i suoi oppositori), quanto proprio il suo leader e i suoi atteggiamenti dispotici, e la contestazione popolare è quindi ad personam. Le proteste a Ankara, Cairo e Tunisi non significano che i rispettivi cittadini vogliano liberarsi dell’islam politico, o che questi sia finito, ma solo che i cittadini non s’accontentano del vecchio slogan “l’islam è la soluzione” sbandierato dai partiti religiosi qualche tempo fa, ma invocano una direzione dall’identità islamica sì, ma con un forte accento democratico, e soprattutto, di provata competenza politico-economica. I partiti islamici, quindi, non possono contare solo sulle loro credenziali religiose per governare, ma debbono dimostrare capacità tecniche unite a una vocazione democratica. In questi ultimi anni, tunisini, egiziani e turchi hanno dimostrato che, seppur abbiano essi stessi eletto Ennahda, i Fratelli Musulmani e il Partito della Giustizia e Sviluppo, una volta accertato che il mandato da loro democraticamente consegnato non si è tramutato in benessere economico, politico, sociale, sono pronti a scendere in piazza e ha chiedere il cambiamento. Il ricatto operato in passato dai gruppi religiosi che pretendevano di identificare l’opposizione nei loro confronti come un insulto alla religione non funziona più. Tuttavia, nell’area la religione permane non solo come depositaria della fede e del culto, ma pure come guida alle pratiche quotidiane, e, in politica è considerata fonte di moralità, anzi, spesso rimpiazza il concetto stesso di moralità. L’insuccesso dei Fratelli Musulmani o il “tradimento” di Erdoğan non vengono interpretati come il fallimento dell’islam, e ciò spiega, almeno in parte, perché il colpo militare che ha deposto Morsi è stato salutato con favore – o, almeno, condonato – da molti paesi musulmani. D’altro canto, nelle società a forte componente musulmana si sta levando sempre più forte il richiamo a tenere la religione separata (ovvero, più in alto) della politica, proprio per evitare eventuali contaminazioni e che l’abuso della religione da parte di movimenti radicali per auto legittimarsi, in questo momento storico così incerto, possa condurre a identificare uno scacco politico come un insuccesso della religione stessa. Ma in queste società, dove lo spazio politico continua a rimanere ristretto e i regimi non incoraggiano l’opposizione, la religione finisce spesso per essere l’unica istituzione alternativa; e così mentre la politica diviene religiosa, l’islam diviene (o rimane) politico.

da il Giornale di Brescia 30/7/2013

Erdoğan contro Erdoğan

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Erdoğan contro Erdoğan: il super primo ministro turco, altamente contestato all’interno dopo i noti fatti del Parco Gazi, incorre ora pure nelle ire del suoi un tempo fedeli alleati e amici, ovvero l’Egitto e il Qatar. Il nuovo sovrano di Doha, infatti, non sembra per ora confermare il massiccio supporto ai Fratelli Musulmani offerto in passato dal re suo padre, e ha addirittura inviato le proprie felicitazioni al nuovo governo egiziano. Così il governo turco rimane la sola voce autorevole nell’area a chiedere la re installazione dell’ex Presidente egiziano Morsi, richiesta peraltro non apprezzato dal Cairo che ha accusato Erdoğan e i suoi di immischiarsi nei propri affari interni. Anzi, il portavoce del premier egiziano, Ahmed Elmoslmany, ha esplicitamente ammonito Ankara a non occuparsi di quanto succede a piazza Tahrir, visto che il Cairo non ha interferito nei fatti di piazza Taksim. L’accenno alla piazza istanbulina, sede della più grande contestazione popolare nei confronti di Erdoğan, deve essere risultata particolarmente sgradita al premier turco, il quale, tuttavia, non sembra voler fare marcia indietro sulle sue intransigenti posizioni nei confronti dei contestatori. Continua, infatti, l’ondata di arresti indiscriminati di persone solo in sospetto di aver partecipato a qualche manifestazione di protesta (esemplare il fermo di un venditore  di bandiere di Istanbul solo perché recanti la foto di Ataturk), tanto che ormai gli oppositori del primo ministro non lo chiamano più per nome, riferendosi invece comunemente a lui come “il dittatore”.

Erdoğan è accusato di aver minato le basi delle democrazia, accentuando i conflitti tra le varie anime del Paese (soprattutto quello tra la componente laica e quella religiosa), col solo fine di perseguire il proprio potere personale. La dissennata condotta del primo ministro, già iniziata da qualche tempo, ma culminata nell’ultimo mese in un atteggiamento dispotico di chiusura totale al dialogo con la popolazione, ha già fatto dimenticare i buoni servigi da lui offerti nei primi anni di amministrazione, fra i quali ricordiamo la re defizione dei compiti dell’esercito (in passato assai propenso a colpi di stato liberticidi), il processo di pacificazione con la componente curda, l’incremento esponenziale del PIL e l’accresciuto prestigio della Turchia a livello internazionale. Ora invece la Turchia sembra essere entrata in una fase di decadenza e di pessimismo, aumentati dalla tendenza economica negativa: dopo i fatti di Parco Gazi il flusso turistico ha subito un duro colpo, non solo per i mancati arrivi internazionali, ma pure perché gli stessi turchi stanno disertando i luoghi d’intrattenimento, le mete turistiche e i gli acquisti in genere. La delusione nei confronti di  Erdoğan fa leggere in chiave diversa i suoi successi passati, e molti sostengono egli abbia domato il potere dell’esercito non per fini democratici, ma per togliere di mezzo un contendente pericoloso; così come la sua preoccupazione di intrattenere il dialogo con il partito Curdo non sarebbe frutto del desidero di unificare finalmente il Paese, ma, piuttosto, di crearsi un alleato per la sua ambita futura carriera di Presidente. E’ infatti risaputo che Erdoğan mira ad essere letto Presidente nel 2014, ma solo se riuscirà prima a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, altrimenti la carica attuale darebbe poco prestigiosa per un uomo che è stato un potente primo ministro. Per far ciò, egli e il suo AKP stanno lavorando nell’ambito della commissione che sta riscrivendo la costituzione, ma vi sono opposizioni e quindi hanno bisogno del supporto del partito filo curdo Pace e Democrazia.

Intanto, però, i sondaggi hanno evidenziato come nell’ultimo mese Erdoğan abbia perduto molto supporto popolare, diventando nell’immaginario popolare il primo responsabile della crisi; i turchi, quindi, aspettano un gesto significativo da parte di colui che, negli ultimi tempi, si è auto nominato padrone assoluto del Paese.

 

dal Giornale di Brescia 21/7/2013

Morsi e i F.M. hanno fallito però…..

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Come due anni fa la piazza egiziana ha voluto e ottenuto la testa del Presidente della Repubblica. L’oramai ex Presidente Morsi ha deluso ogni aspettativa, perché invece che dirigere i propri sforzi per portare qualche cambiamento positivo alla languente economia egiziana si è adoperato solo per incrementare il proprio potere, distribuendo favori alla sua accolita, né più né meno di quanto aveva fatto Mubarak. Morsi ha creduto di poter fare tutto da solo, esclusivamente con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e senza tener conto di tre forze determinanti nel Paese: il partito oltranzista Nur, che costituisce il blocco più cospicuo in Parlamento dopo i Fratelli Musulmani e che ha lavorato per minare la loro credibilità; la piazza, che s’era già dimostrata capace di rovesciare un regime collaudato come quello di Mubarak; e, soprattutto, i militari che s’erano solo temporaneamente fatti da parte. In realtà, è proprio grazie a un patto stretto tra l’esercito e i Fratelli Musulmani che questi ultimi sono rimasti al potere, un accordo secondo il quale l’esercito ha continuato a gestire il proprio immenso patrimonio economico costituendo di fatto uno stato dentro lo stato. Ora i militari tornano protagonisti, astutamente ergendosi a difensori delle democratiche richieste dei milioni di cittadini inneggianti le dimissioni di Morsi e affermando di non volere esercitare alcun comando. Ma solo gli ingenui possono pensare che l’esercito non trasformi la situazione presente a proprio vantaggio, perché di certo i militari non rinunceranno al ruolo di guardiani dell’Egitto e si preoccuperanno che chiunque succeda a Morsi continui a tenere gli occhi chiusi sui loro immensi privilegi economici e politici.

Di sicuro i milioni di egiziani scesi in piazza contro Morsi chiedendo proprio l’intervento dell’esercito (nonostante le palesi violazioni dei diritti umani da questo perpetuate) sono ben consapevoli della minaccia rappresentata dai loro “liberatori”, ma probabilmente l’hanno considerata un male minore. Di fatto, però, la democrazia è stata violata da un atto commesso contro un Presidente e un partito che, bene o male, erano stati eletti dalla maggioranza degli elettori. Inoltre, non è chiara la via che il Paese prenderà. L’opposizione s’è attivata per far destituire il Presidente, ma raggiunto questo obiettivo non ha un programma, anche perché non si tratta di una forza organizzata, ma solo di una moltitudine di individui dalle convinzioni più disparate: laici, musulmani che non si riconoscono nei Fratelli fra i quali la massima autorità dell’università islamica di Al Azhar, simpatizzanti dell’ancient regime, copti e musulmani sciiti contro la cui persecuzione le autorità nulla hanno fatto, membri del partito Nur, liberali, socialisti, cittadini preoccupati dalla deriva autoritaria assunta da Morsi e dai Fratelli e stretti nella morsa di un’economia disastrata. A questo proposito, è bene ricordare come siano in pericolo gli investimenti e i finanziamenti assicurati dal Qatar all’Egitto direttamente attraverso la persona dell’ex Presidente Morsi, il quale nel mese di giugno s’era recato per l’ennesima volta a Doha per batter cassa. Il Qatar aveva assicurato il proprio aiuto in virtù del fatto che l’Egitto era in mano ai Fratelli Musulmani, c’è quindi il rischio che ora ritiri il proprio appoggio economico inferendo un colpo mortale alle finanze egiziane. Che l’atmosfera tra i due paesi sia rapidamente cambiata è confermato dal fatto che, non appena Morsi è stato destituito, le forze di sicurezza egiziane hanno oscurato alcuni canali televisivi, tra cui quello dell’emittente qatarina Al Jazira, che proprio due anni fa aveva costituito uno dei principali strumenti d’informazione sulla rivoluzione egiziana. Un fatto grave che getta un’ombra su questa nuova fase della rivoluzione, anche se, al momento, molti egiziani che all’epoca avevano inneggiato ad Al Jazira sono in festa.

da Il Giornale di Brescia 5/7/2013.

La nostra eredità in Afghanistan

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E’ stato un bambino di 11 anni a lanciare la bomba che ha ucciso il capitano Giuseppe La Rosa, sostengono i Talebani. Probabilmente non è così, ma i Talebani intendono sottolineare come anche a Farah, zona controllata dalle nostre truppe insieme alla forza internazionale (ISAF), stiano riconquistando le posizioni perdute, evidenza purtroppo difficile da smentire. Dopo oltre dieci anni di conflitto la situazione in Afghanistan, che all’inizio pareva essere controllabile, sta precipitando, e, più si avvicina la data del disimpegno dell’ISAF, più è evidente il fallimento della missione costata uno sproposito tanto in termini economici quanto, soprattutto, di vite umane. I Talebani sono talmente tracotanti da permettersi azioni terroristiche nel cuore di Kabul; l’ultima, quella avvenuta un paio di settimane fa che per poco non ha ucciso un’altra nostra compatriota in servizio per l’ONU. E Kabul è definita da tutti “oasi felice” per il grado di sicurezza garantito tanto da ISAF quanto dalle forze di polizia afghane: figuriamoci il resto del Paese.

Sembrerebbe non ci sia altro che sperare nel veloce avvicinarsi del 2014 e del conseguente ritiro delle truppe, comprese quelle italiane, ma qui ci profila un altro problema: cosa lasciamo a quegli afghani che hanno sopportato oltre dieci anni di guerra e di occupazione straniera solo nella speranza di un destino migliore per loro e per i loro figli?

Nella cosiddetta società civile è scattato da tempo l’allarme per la partenza dell’ISAF; gli afghani che lavorano per organizzazioni non governative di vario tipo, presso piccole cliniche e ambulatori, nelle scuole, nelle istituzioni che garantiscono l’informazione, al pari di tanti altri che non hanno mansioni particolari ma, semplicemente, speravano di essere usciti dagli anni del terrore, si vedono in pericolo. Appena l’ultimo soldato ISAF se ne sarà andato ricominceranno le vessazioni dei Taleban nei confronti della popolazione; che ne sarà di tutti coloro che hanno collaborato con gli stranieri? Come minimo verranno tacciati di collaborazionismo, di aver complottato col nemico, pagandone le inevitabili conseguenze.

In realtà, il piano è di far evacuare il contingente militare, ma di mantenere in Afghanistan strutture d’appoggio dirette da civili, che, a quel punto, dovrebbero essere protette solo dai circa 190mila soldati dell’esercito regolare afghano, già in servizio. Ma ciò sarà sufficiente a garantire la sicurezza dei civili stranieri e degli stessi afghani, se neppure oggi, a fronte di quasi 100mila militari ISAF, che dovrebbero se non altro scoraggiare atti terroristici, i Taleban continuano a mietere vittime con cadenza quotidiana?

Sono tutti interrogativi che immaginiamo le forze ISAF si pongano; di certo, gli afghani lo fanno. Le organizzazioni che lottano per i diritti delle donne, ad esempio, stanno già mettendo in guardia sul reale pericolo che, nel nuovo scenario post 2014, le afghane si ritrovino in una condizione addirittura peggiore di quella pre intervento internazionale nel 2001. Se nelle città si nota un debole miglioramento del segmento femminile, nelle zone rurali la situazione è ben diversa, avendo le donne scarse possibilità di accedere ai servizi scolastici e sanitari, per non parlare del preoccupante incremento dei “delitti d’onore” di cui sono bersaglio. Ci vuole uno sforzo ulteriore per raggiungerle e dotarle, per quanto possibile, di strumenti con cui difendersi dopo il ritiro dell’ISAF, quali istruzione e possibilità di lavoro. Altrimenti, la missione sarà ricordata solo come un colossale fallimento che ha comportato un numero di vittime troppo alto, da ambe le parti.

da Giornale di Brescia 10/6/2013

Disordini a Istanbul

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I nodi tra il premier turco Erdoğan e quei cittadini scontenti del suo operato stanno venendo rapidamente al pettine in questi ultimi giorni. Il mese di maggio s’era aperto all’insegna della contestazione, dopo che il governo aveva varato una legge che restringe l’uso degli alcolici in pubblico; in realtà, nella sostanza poco cambia: se ne vieta la vendita a supermercati e negozi dalle 22 alle 6, si vieta alle compagnie che li vendono di sponsorizzare eventi pubblici, nonché di pubblicizzarsi nei programmi radio e tv nazionali. Per il resto, nulla cambia, ma questa serie di divieti posti su un prodotto altamente simbolico come l’alcol ha avuto un effetto esplosivo su tutti coloro che pensano che Erdoğan e i suo partito (AKP) stiano trascinando la Turchia nel baratro dell’islamizzazione forzata. I precedenti a questo proposito non mancano, basti pensare alla polemica sull’uso del velo, che l’AKP da molti anni sta cercando di sdoganare negli impieghi pubblici (dov’è bandito da quasi un secolo); o alle frasi pronunciate dal premier proprio un anno fa a proposito dell’aborto (legale in Turchia) che egli definì “un assassinio”, scatenando le ire di moltissime turche; nonché a molti piccoli segni che marcano una maggiore invadenza della religione in un Paese che per decadi aveva fatto della laicità una bandiera.

Le violenze di Istanbul, però, sono di altro segno, anche se, probabilmente, frutto anche di uno scontento maturato per la tentata “islamizzazione” del Paese da parte dell’AKP, e mostrano, da un lato, una matrice ecologica, dall’altro, una prettamente politica, legata soprattutto alla figura di Erdoğan. E’ vero, infatti, che gli istambulini sono scesi in piazza per difendere l’annunciato abbattimento del parco Gezi, uno dei pochi spazi verdi nella zona centrale di Taksim, ma la rabbia è stata aumentata dal fatto che gli alberi devono cedere il posto a un centro commerciale, per un giro d’affari milionario di cui uno dei beneficiati sarebbe proprio il premier in carica e altri personaggi di spicco dell’AKP. E contro di questi si è scatenata la protesta, sedata con una prepotenza e una violenza poco consone a un governo, e al suo leader, che in questi anni si sono adoperati, in patria all’estero, per apparire moderni e moderati, quasi una sorta di calmiere agli estremismi militari del passato e a quelli religiosi dei tempi recenti.

La brutale reazione del governo contro i manifestanti, ha mostrato invece il lato deleterio della modernizzazione, ovvero, ancora una volta, l’uso della tecnologia per colpire i dissenzienti, le cui comunicazioni via cellulare sono state intercettate per isolarli e colpirli, mentre internet sta subendo rallentamenti. Al contempo, i maggiori giornali turchi stanno cercando di minimizzare quanto accaduto, riproponendo il problema della censura (e auto censura) della stampa in Turchia.

Il premier s’è reso conto di aver commesso un passo falso, e si è già espresso pubblicamente condannando l’eccessivo uso della forza da parte della polizia, che ha lasciato sulla strada decine di feriti e dichiarando di aver già richiesto al Ministro degli Interni di fare luce su quanto accaduto. Ma la polizia è ancora schierata in forze a Taksim e nessun annuncio è stato fatto in merito a un ripensamento rispetto abbattimento del bosco.

da Il Giornale di Brescia 2 giugno 2013

Il nuovo (?) Pakistan

 

imagesNawaz Sharif è di nuovo primo ministro del Pakistan: questa, a voler esser cinici, l’unica certezza per il travagliato Paese del sub continente, insieme alla confortante notizia che i pakistani, nonostante le intimidazioni e i sanguinosi attentati provocati dai Taleban contro le votazioni da loro ritenute “non islamiche” (forse perché i sedicenti studiosi di Corano non sanno che nelle società islamiche si vota fin dalla morte del loro profeta Muhammad, nel 632) si sono recati in massa alle urne, tanto che molti sono stati intrappolati in lunghe file e si sono lagnati di non poter esercitare il diritto di voto in quanto i seggi si sarebbero chiusi prima che essi vi potessero accedere. Questa difficoltà viene ora sfruttata dai due principali contendenti della Lega Musulmana di Nawaz Sharif, ovvero il Partito Tehrik-e Insaf guidato dall’ex giocatore di cricket Imran Khan, e il Partito Popolare Pakistano, grande sconfitto di questa tornata elettorale, per reclamare presunti brogli e irregolarità ai loro danni. Ma il divario tra loro e la Lega Musulmana è troppo ampio, il verdetto delle urne troppo chiaro, e sarà Nawaz Sharif a formare un nuovo governo, dal compito immane: si tratta di portare pace, sicurezza e stabilità in un Paese che in questi anni è sprofondato in un pericoloso clima di violenze inter etniche e inter religiose (soprattutto tra sunniti e sciiti) e in una paurosa crisi economica e energetica. Ognuna di queste sfide è piena di insidie e difficoltà, a cominciare da quella energetica. Vi sono regioni pakistane dove la corrente elettrica è presente solo per qualche ora al giorno e molti voli della compagnia di bandiera vengono di continuo cancellati per mancanza di carburante. Per cercare di ovviare tale situazione, il Pakistan ha da tempo siglato un accordo con la Repubblica Islamica d’Iran per costruire un gasdotto atto a importare la preziosa miscela acquistata da Tehran. Gli iraniani hanno completato la loro parte di costruzione, mentre il Pakistan è indietro, sia per ritardi dovuti alla corruzione (altro grave problema del Paese) sia perché il gasdotto è osteggiato da uno dei suoi principali alleati, gli Stati Uniti, che considerano l’accordo una violazione delle sanzioni emanate per isolare l’Iran. L’accordo energetico era stato siglato dal Partito Popolare Pakistano all’epoca al governo, ma pure Nawaz Sharif ne ha bisogno se vuole rimanere in carica; ma, al contempo, può permettersi di chiudere le porte al cruciale alleato americano e ai suoi cospicui aiuti monetari? Sempre in tema di alleanze, ricordiamo come Nawaz Sharif sia stato a lungo ospite dell’Arabia Saudita, allorché esautorato come premier e cacciato da Islamabad negli anni ’90, e come durante questo dorato esilio abbia allacciato stretta amicizia non solo con i padroni di casa sauditi, ma pure con molti paesi del Golfo, i quali hanno tutti contribuito alla campagna elettorale della Lega Musulmana e al ritorno del Leone del Panjab sulla scena. Che cosa reclameranno, ora, questi generosi alleati? Di certo la rottura di ogni legame con l’Iran, loro acerrimo nemico, e poco male se intendono supplire loro l’energia di cui Islamabad ha bisogno; ma, purtroppo, le sunnite monarchie del Golfo hanno altresì ingaggiato una lotta senza quartiere contro gli sciiti. Reclameranno ora da Nawaz Sharif la stessa durezza da loro impiegata nei confronti dei sudditi sciiti, chiedendo a Islamabad di reprimere con forza questa fazione minoritaria? Se così fosse, il Pakistan si troverebbe in piena guerra civile, dilaniato dalla lotta tra sunniti e sciiti oltre che dalle crescenti tensioni ai confini con l’Afghanistan, dove comandano i Taleban verso i quali Sharif dimostra da sempre un atteggiamento ambiguo, così come si rivela tenero nei confronti di estremisti e gruppi militanti interni. Al momento, Nawaz Sharif si gode la vittoria, e, da politico consumato, parla solo di rinnovati accordi commerciali con il nemico di sempre, l’India, al quale aveva già ammiccato durante il suo mandato, prima di essere cacciato dai militari nel 1999. Del resto Nawaz Sharif è pure un abile e ricco commerciante e se non saprà fare il bene del suo Paese sarà senz’altro capace di aumentare le sue già considerevoli ricchezze.

pubblicato ne Il Giornale di Brescia 14/5/2013

Transgender candidati alla presidenza in Pakistan, imam che celebrano matrimoni: che succede nelle società islamiche?

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Due peculiari notizie riguardanti il mondo dell’islam stanno facendo il giro del mondo: a Washington, l’imam Daayiee Abdullah, pubblicamente dichiaratosi omosessuale già alla fine degli anni ’70, ha confermato di celebrare unioni matrimoniali tra gay della sua comunità; mentre, dall’altra arte del mondo, in Pakistan, fra i numerosi candidati al ruolo di Presidente della Repubblica vi sono pure due transgender, Sanam Faqeer e Bindiya Rama, che stanno conducendo la loro campagna politica fra i connazionali, in un Paese non certo all’avanguardia per quanto riguarda i diritti umani e di genere.

Per la gran parte dell’opinione pubblica internazionale, che tende a considerare l’islam omofobico, queste due notizie sono sbalorditive, al limite della attendibilità. I più sottolineano come gli omosessuali siano vittime di discriminazioni pesantissime all’interno dei paesi islamici, alcuni dei quali, come l’Arabia Saudita o l’Iran, prevedono addirittura la pena capitale per persone dello stesso sesso colte a consumare un rapporto carnale. Molti ricordano ancora l’affermazione del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad nel 2007, allorché dichiarò alla Columbia University “Noi in Iran non abbiamo omosessuali come ci sono qui», provocando l’ilarità dei presenti.

A credere che nei paesi musulmani l’omosessualità sia poco presente o frutto della corruzione occidentale non è, però, solo il presidente iraniano. Si tratta di una convinzione diffusa e radicata, e secondo gli attivisti che si battono per i diritti LGBT (lesbo-gay-bisex- trasgender) nel mondo musulmano è uno dei primi nodi da sciogliere.

Ma sull’omosessualità, come su moltissimi altri nodi cruciali riguardanti le società che cambiano, non vi è un approccio unico e negativo fra i musulmani, ma una vasta gamma di atteggiamenti e, soprattutto, di nuove interpretazioni religiose di cui tenta d’impadronirsi chi voglia conciliare fede e “diversità”. Vi sono oramai varie legittimazioni culturali che consentono di parlare apertamente di omosessualità in ambito islamico e addirittura di prendere in considerazione l’idea che non esitano solo due generi (maschile e femminile), ma che ne esistano altri, compresi in un grande disegno voluto dal Creatore. Lo scorso inverno, la grande moschea di Parigi si è aperta agli omosessuali, destinando loro uno spazio, che non è luogo di segregazione, ma di riconoscimento.

A Madrid, si è aperto un centro per omosessuali musulmani. Qualche mese fa, Salameh Ashour, esponente della Comunità islamica in Italia, ha dichiarato in una pubblica assemblea “siamo tutti figli di Dio e ognuno nel suo privato faccia quello che vuole”.

Sono tutti segni del cambiamento.

Fino a non molto tempo fa gli omosessuali dovevano scegliere se essere gay, magari considerati “ammalati” e quindi fuori dell’islam, o nascondere la propria natura. Oggi, questo schema vacilla. Molti omosessualisi considerano buoni musulmani, dunque non vogliono rinunciare alla loro identità religiosa, anzi non si pongono proprio il problema. Credono che per loro ci sia uno spazio dentro l’islam, e si stanno impegnando in questa direzione.

Ovviamente, la strada non è semplice. In alcuni stati conservatori, si è pensato di risolvere il nodo consentendo il cambio di sesso: ad esempio, in Iran, paradossalmente, non è possibile dichiararsi omosessuale, ma è possibile cambiare sesso, anche a spese dello Stato.

In tutti i paesi musulmani il discorso sull’omosessualità sta divenendo un nodo cruciale che consente di mettere in discussione i rapporti tra pubblico e privato; la concezione di religione intesa come devozione personale e la sua manipolazione come rigido controllo sociale; nonché il diritto a godere di piena cittadinanza e la negazione di questo diritto da parte del potere.