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Bouteflika 4°?

L’Algeria s’appresta a confermare per la quarta volta il suo Presidente in carica dal 1999, Abdelaziz Bouteflika. Il super candidato è praticamente aspirante unico alla Presidenza, nonostante l’età e gli innumerevoli malanni da cui è affetto, tanto da far dubitare tutti che, in caso di rielezione, possa concludere di persona il mandato quinquennale.

Bouteflika rappresenta il grande conciliatore che, alla fine della decade nera che negli anni ’90 segnò il Paese con oltre 200mila morti, ricucì le istituzioni algerine, favorendo il processo di pacificazione e promettendo riforme in chiave democratica mai realizzate a pieno. Fu Bouteflika a riallacciare proficui rapporti con l’Occidente, il quale, non va dimenticato, pur di assicurarsi l’accesso alle ingenti risorse energetiche di cui l’Algeria dispone, da almeno quindici anni ha chiuso gli occhi su quanto accade sulla sponda africana del Mediterraneo, pago del fatto che il regime algerino garantisce una sorta di “pax islamica” (sedando i movimenti di matrice islamista) sul prezzo della quale non bisogna andare troppo per il sottile.

Vero è che pure gli algerini, o, almeno, una parte di loro, sembrano aver privilegiato la stabilità offerta dal patto fra Bouteflika e i poteri forti (esercito, apparato di sicurezza e la Sonatrach, la potente agenzia di Stato che controlla le risorse energetiche) a discapito della realizzazione del processo democratico iniziato decadi fa, quando l’Algeria si liberò del giogo coloniale francese. Infatti, anche se il Paese continua a essere teatro di pressoché quotidiani scioperi, soprattutto nel settore pubblico, il regime è finora riuscito a mantenere il controllo elargendo di volta in volta piccole concessioni ai manifestanti. È così l’Algeria non è stata investita dall’onda delle rivoluzioni che da oltre tre anni stanno stravolgendo gli equilibri dell’ampia zona che va dal Marocco al Medio Oriente. Le “primavere arabe” hanno finora solo lambito il Paese, ancora traumatizzato dalle ferite inferte nella guerra degli anni ’90 e dove, se l’esempio positivo della vicina Tunisia infiamma i dissidenti, quello caotico dell’altrettanto confinante Libia scoraggia dall’intraprendere una “primavera algerina”.

E ciò nonostante vi siano tutti i presupposti che hanno scatenato le altre rivoluzioni, dalla corruzione al dispotismo, dalla crisi economica a quella occupazionale, soprattutto nel settore giovanile.

Comprensibile, quindi, che una parte della società civile si sia ribellata, fondando un movimento di aperta contestazione a quest’ennesima elezione-burla chiamato Barakat (Basta!), nato proprio in occasione dell’annuncio della candidatura di Bouteflika. Finora il gruppo non è riuscito a richiamare grandi folle nelle sue proteste di piazza (peraltro bandite per decreto dal 2001), ma evidentemente l’establishment non vuole correre il minimo rischio e ha arrestato, tra gli altri, uno dei co-fondatori di Barakat, la ginecologa Amira Bouraoui, mentre ha chiuso l’emittente televisiva Al Atlas, rea di appoggiare l’opposizione.

Gli aderenti a Barakat non sono ovviamente gli unici ad opporsi al “regno” di Bouteflika e a quello che egli rappresenta, anche i leader dei gruppi islamici hanno invocato il boicottaggio di queste elezioni, ma l’abbraccio tra la compagine “laica” e quella “religiosa” è più che mai improbabile, visto il recente passato algerino. Tuttavia, qualsiasi sia il risultato elettorale, il vincitore dovrà fare i conti con uno scontento popolare sempre più intenso, difficilmente controllabile con l’uso della sola forza e della corruzione.

da Giornale di Brescia 17/4/2014

Il memoriale di Taj as-Soltaneh, principessa Qajar (Iran)

41zOFiHFcmL._BO2,204,203,200_PIsitb-sticker-v3-big,TopRight,0,-55_SX278_SY278_PIkin4,BottomRight,1,22_AA300_SH20_OU01_Taj as-Soltaneh, principessa della casa reale Qajar (fine XVIII- inizi del XX secolo) è la prima donna d’Iran di cui ci resta un diario. Il racconto della sua vita ci offre un’inusuale prospettiva sui profondi cambiamenti che sconvolsero la società iraniana a cavallo tra i due secoli. Le pagine di questa narrazione ci traghettano dal dorato quanto angusto harem reale al movimento femminista d’Iran di cui Taj as-Soltaneh fu una delle prime animatrici.

a cura del Centro Essad Bey

http://www.amazon.it/Memorie-una-principessa-persiana-Qajar-ebook/dp/B00JO8ML4C/ref=sr_1_8?s=books&ie=UTF8&qid=1397549294&sr=1-8&keywords=vanzan+anna

 

Afghanistan, elezioni e ricatto Taleban

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Gli afghani sono chiamati alle urne per scegliere il nuovo Presidente. Le proiezioni danno come favoriti nella rosa di undici candidati Abdullah Abdullah, ex Ministro degli Esteri, e Ashraf Ghani, già Ministro delle Finanze, rivali in quella che, per molti aspetti, è la tornata elettorale più significativa della storia afgana dopo la caduta del regime dei Taleban. E non tanto per il risultato in sé, quanto per la modalità con cui si svolgeranno le elezioni e per la situazione che si verificherà dopo il voto.

Nel Paese in cui, dopo oltre dodici anni di permanenza, la Forza Internazionale (ISAF) si appresta a togliere definitivamente le tende, l’appuntamento del 5 aprile è soprattutto un test per verificare il processo di democratizzazione dell’Afghanistan, l’attendibilità delle sue istituzioni e il grado di sicurezza di cui possono godere i cittadini che vogliano esercitare i diritti politici.

I precedenti non sono confortanti: nella tornata elettorale del 2009, proprio l’aspirante Presidente Abdullah Abdullah abbandonò la competizione dopo la prima tornata accusando il rivale Karzai di brogli elettorali. E per evitare, o, almeno, per limitare la possibilità di brogli, in questi anni le istituzioni afgane hanno compiuto un lungo e laborioso processo, riscrivendo la legge volta a formare le commissioni elettorali in base a criteri democratici, chiamando all’appello membri della società civile come docenti, segretari dei maggiori partiti, membri dell’apparato giudiziario, parlamentari. Tuttavia, nonostante la buona volontà dei singoli, la fragilità delle istituzioni afgane rimane tale, soprattutto perché lo stato non è capace di garantire la loro funzionalità, in quanto non è in grado di proteggere la sicurezza personale dei suoi attori. La strategia talebana di colpire proprio i leader delle istituzioni, dai segretari dei partiti politici a quei religiosi che non si conformano all’islam creato dai Taleban, ha dato in suoi nefasti frutti: lo scorso anno la missione ONU in Afghanistan ha dichiarato che, pur essendo diminuito il numero dei civili periti per mano talebana, è esponenzialmente aumentato quello dei funzionari di stato, dei leader di comunità, delle personalità impegnate nel processo di pace, scientemente eliminai. I Taleban non hanno più bisogno di eclatanti combattimenti, basta loro prendere di mira con precisione chi agisce da parte del governo per screditarlo e convincere la popolazione a non collaborare con le istituzioni. I Taleban sanno che, con la dipartita della ISAF, il tempo è dalla loro parte; certo, l’ISAF ha addestrato circa 350mila afgani che rimarranno a proteggere la popolazione, ma basteranno, visto che non più tardi di quattro giorni fa un commando suicida si è fatto esplodere all’interno del Ministero della Difesa di Kabul provocando sei morti?

Apparentemente per ovviare a questa situazione, l’uscente Presidente Karzai in questi ultimi tempi s’è avvicinato ai Taleban, tentando di coinvolgerli nella costruzione del Paese; la maggioranza dei Taleban però è contraria alle elezioni, che ritengono illegittime, e ha già invitato la popolazione a distruggere i certificati elettorali.

Tuttavia, anche il fronte talebano presenta incertezze, non essendo più compatto come un tempo; parte dei Taleban potrebbe invece attendere l’esito elettorale, confidando nel successo di un candidato disposto poi a negoziare un accordo a loro favorevole.

 

da Giornale di Brescia 5/4/2014

 

Il voto turco: prime impressioni

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Fin dal mattino, lunghe file di votanti si sono formate fuori dai seggi elettorali in Turchia, dove si votava per le elezioni amministrative 2014, una massiccia affluenza che conferma come questa tornata elettorale fosse particolarmente sentita e considerata come un test di prova del rapporto di fiducia tra la popolazione e il suo Premier Recep Tayyip Erdoğan.

 

Il partito turco della Giustizia e Sviluppo (AKP) si conferma primo e Erdoğan rimane in sella. Evidentemente, non è bastato che il partito al governo tradisse il suo nome (l’acronimo AK in turco significa “puro”) con una catena di conclamati scandali avvenuti negli ultimi mesi. A dispetto della corruzione conclamata della leadership turca, della svolta autoritaria del premier rivelatasi appieno con i fatti del Parco Gezi e confermata dal suo oscurare i social network proprio in occasione di questa tornata elettorale, i turchi hanno preferito la stabilità e premiato chi, fra l’altro, ha consentito che l’economia del Paese incrementasse del 230% in dieci anni (fra il 2002 e il 2012) e l’inflazione dal 29,8% del 2002 al 7,4% nel 2013.

 

Il secondo partito, Cumhuriyet Halk (CHP) di centro sinistra, si conferma forte nelle municipalità e nelle province che si affacciano sull’Egeo, soprattutto nella sua roccaforte, Izmir, erodendo voti al partito nazionalista, Milliyetçi Hareket (MHP) e dimostrando così come i turchi siano sempre più orientati verso il centro moderato.

 

L’AKP è riuscito a conquistare Istanbul, piazza importantissima, anche dopo la repressione dei manifestanti a parco Gezi. Probabilmente ha perso voti da parte dei giovani “laici”, ma la sua recente diatriba con il movimento islamista Güllen (un tempo alleato dell’AKP) che Erdoğan ha accusato di fomentare e manovrare gli scandali contro di lui, ha probabilmente fruttato qualche voto al partito di governo da parte di chi vede con sospetto l’azione di Fetullah Güllen, apparentemente solo filantropica, ma in realtà volta a creare un potere forte e più radicalmente islamista nel cuore della Turchia.

 

Ora Erdoğan pensa di concretizzare il suo progetto di costituire un sistema presidenziale attorno alla sua carismatica figura, ma alcune insidie potrebbero frapporsi alla sua smisurata ambizione. Innanzitutto, i problemi economici: anche se l’onda lunga della crisi economica questa volta non è arrivata alle urne, il governo turco deve prendere seri e immediati provvedimenti per evitare che il boom economico dell’ultima decade si trasformi in un baratro che inghiottirebbe non solo l’AKP ma l’intera nazione. Inoltre, l’immagine all’estero di Erdoğan è seriamente compromessa, a causa di scandali e autoritarismo; se in Europa, che non vede più Ankara come possibile serio e stabile mediatore per i problemi del Medio Oriente, il fronte contrario all’entrata della Turchia nell’Unione Europea sta aumentato, negli Stati Uniti, dove risiede Fetullah Güllen e la sua potente macchina di propaganda, Erdoğan è sempre più guardato con sospetto.

Il premier turco non ha molto tempo quindi per godersi la vittoria; gli servono presto altri risultati tangibili, anche perché le elezioni presidenziali sono alle porte.

da Giornale di Brescia 31/3/2014.

Letteratura dal Medio Oriente: una breve riflessione

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Alcuni commenti a proposito del romanzo di Fereshteh Sari Sole a Tehran uscito in questi giorni mi hanno fatto nuovamente riflettere sulla ricezione in Italia della letteratura contemporanea non occidentale, soprattutto di quella di matrice medio orientale (dal Marocco ai Paesi del Golfo).

Gran parte del pubblico italiano, o, almeno, dei giornalisti/critici letterari/commentatori radio, continua a stupirsi per costruzioni letterarie non lineari, per sistemi di punteggiatura non “regolari”, per “proditorie” transizioni dalla terza alla prima persona narrante, per “ardite” metafore e così via.

E ciò, nonostante la scelta di narrativa tradotta nella nostra lingua dal persiano, dall’arabo e dal turco si sia incredibilmente arricchita in queste ultime decadi, con conseguente mutata consapevolezza del fatto che una struttura sintattica ambigua o un brusco passaggio di persona fanno spesso parte della cifra stilistica dello/a scrittore/scrittrice straniero/a.

Il problema, forse, sta nel fatto che molta della letteratura arabo-turca-persiana a disposizione sul mercato non è solo tradotta in italiano, ma piuttosto passata nel tritacarne dell’editing per renderla palatabile a quel pubblico che preferisce storie lineari, magari forti (ovvero di denuncia di situazioni socio-politiche), ma pur sempre riconducibili a schemi consueti, alla struttura letteraria-mentale nostrana. Se l’editing però uniforma tutto, noi continueremo a leggere romanzi che dell’originale hanno mantenuto solo la trama, e che non riescono a restituirci la diversità e la bellezza, seppur nella difficoltà, di arrivare all’Altro. 

 

E’ la fine di Erdogan?

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Dopo circa dodici anni di potere, “Re Erdoḡan” o “il dittatore” com’è comunemente chiamato dai turchi che sempre più malvolentieri  sopportano il loro Primo Ministro,  sembra proprio aver concluso la sua straordinaria carriera politica. Certo continua a poter contare su uno zuccolo duro di sostenitori, tant’è che pensa di presentarsi all’appuntamento elettorale di agosto  come candidato alla Presidenza  della Turchia, ma è altrettanto indubbio che non solo il rampante Primo Ministro ha imboccato l’inesorabile strada del declino politico, ma, soprattutto, che l’offuscamento della sua immagine corrisponde ad una parallela opacizzazione dell’immagine della stessa Turchia. In questi ultimi anni,  Erdoḡan s’era imposto come arbiter di molte situazione  critiche in Medio Oriente: ha fatto da mediatore tra l’Europa e l’Iran e tra questo e i Paesi Arabi del Golfo; s’è eretto a unico difensore dei siriani contro Bashar Assad, ospitando in Turchia milioni di profughi e ha più volte contestato Israele, rompendo un’alleanza  pluri decennale tra  Ankara e Telaviv. Proponendo, poi, suo Paese come unico possibile modello di  conciliazione tra anima religiosa e necessità delle modernizzazione, Erdoḡan era divenuto il leader ideale del mondo tanto musulmano quanto occidentale.

                  Adesso  Erdoḡan sembra avere rovinato tutto: la sua repressione  del movimento di protesta  per l’abbattimento del parco Gezi a Istanbul l’ha reso estremamente impopolare sia in patria sia all’estero. In Turchia, il suo coinvolgimento in casi di corruzione riguardanti l’edilizia gli ha alienato la simpatia di moltissimi cittadini, delusi dal fatto che il Primo Ministro, dopo aver trasferito le forze di polizia che avevano scoperto la corruzione dei figli di tre ministri , si sta comportando allo stesso modo con gli investigatori che hanno rivelato le recenti intercettazioni  ove Erdoḡan impartisce al figlio istruzioni per occultare ingenti somme. Ovviamente, non si tratta solo del fattore etico; se la cementizzazione della Turchia ha scosso  l’anima ecologista del Paese, la crisi economica  e la bolla edilizia hanno portato alla ribalta il ruolo di master  mind della speculazione giocato dal Primo Ministro. E’ vero che l’ascesa politica di Erdoḡan ha coinciso con l’esplosione economica del Paese, i cui consumi sono quadruplicati grazie anche al bassissimo tasso d’interesse praticato dalle banche, fortemente voluto dal Primo Ministro quale applicazione delle norma shariatica che equipara i tassi d’interesse elevati all’usura. Tuttavia, la spinta all’espansione edilizia ha creato in Turchia una bolla paragonabile a quella creatasi in occidente negli anni scorsi, con le medesime nefaste conseguenze. L’inflazione è cresciuta così come il debito estero (soprattutto nei confronti degli Stati Uniti che fino ad oggi hanno pompato l’economia turca con milioni e milioni di dollari )  mentre  la confidenza dei cittadini nelle possibilità economiche del loro Paese  è nettamente diminuita.

                  In questo clima di crisi politica, economica e sociale le elezioni amministrative del 30 marzo  assumono un peso fondamentale. Le urne daranno chiare indicazioni sull’umore dei  turchi e poco varrà al Primo Ministro il suo cercare di nascondere la verità oscurando  il web. Queste misure liberticide, infatti, non fanno, da un lato, che accrescere l’insofferenza nei confronti de  “il dittatore”; dall’altro, ne mettono in luce la sua attuale preoccupazione.

da Giornale di Brescia 24/3/2014

Quote rosa e tradimenti

28560790_italicum-il-voto-slitta-dopo-il-funerale-delle-quote-rosa-che-renzi-manterr-0...quando le nazioni riescono finalmente a liberarsi, alle donne si chiede di fare un passo indietro in nome dell’unità nazionale. I diritti delle donne sono un genere di lusso che possono attendere fintanto che sia completato  il processo di nation building; di conseguenza, le donne che hanno contribuito alla caduta del colonialismo rimangono escluse non solo dalla condivisione del potere politico, ma pure da un giusto riconoscimento dei loro diritti fondamentali

Ho scritto queste considerazioni in un articolo a proposito dei movimenti femministi nei paesi colonizzati in Nord Africa e Medio Oriente negli anni ’50. Ma purtroppo queste parole si adattano alla situazione italiana dei nostri giorni.

 

Rouhani’s “American Boys”

Rohani-first-cabinet-session-1Strano paese l’Iran, dopo che i suoi capi hanno trascorso oltre 30 anni a gridare “morte all’America” si ritrova un governo i cui ministri hanno un dottorato conseguito negli Stati Uniti, o in Europa. Javad Zarif, ad esempio, Ministro degli Esteri, ha conseguito il suo dottorato a Denver; Akbar Salehi, negoziatore per il nucleare, ha ottenuto il suo PhD in ingegneria nuclear al MIT; Mohammad Vaezi, Ministro delle Comunicazioni, ha un dottorato conseguito all’Università di Varsavia, ma ha studiato prima in vari atenei americani; Ali Akhoundi, Ministro dei Trasporti, ha ottenuto il suo PhD a Londra.

Lo stesso Rouhani ha un dottorato ottenuto all’Università di Glasgow, dove ha studiato e si è dottorata (in diritto internazionale) pure Elham Amimzadeh, una dei vice Presidenti iraniani. Lo staff del Presidente è diretto da Mohammad Nahvandian, PhD in economia presso la Geroge Washington University, negli Stati Uniti…

Chissà se anche i consiglieri di Obama hanno una formazione internazionale. Ah no, non ne hanno bisogno, infatti si vede dai risultati della politica estera americana in queste decadi….

Iran, 35 anni di Rivoluzione

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La Repubblica Islamica d’Iran festeggia in questi giorni il suo 35° anniversario di vita. Quello che era diventato un rituale che si ripeteva stancamente e non senza contestazioni nel mese di febbraio di ogni anno, quest’anno sta assumendo un aspetto diverso, in quanto l’Iran si è scrollato di dosso il ruolo di paria del mondo ricoperto per decadi, e gli iraniani ricominciano a sperare. Il Presidente Rouhani è apparso in questi giorni in televisione, elencando soddisfatto una serie di successi riportati nel breve periodo del suo mandato (circa sei mesi), quali l’accordo sul nucleare di Ginevra, la serie di visite da parte di alte cariche di stati stranieri (inclusa l’Italia) e la lunga teoria di aziende e enti internazionali pronti a riprendere gli scambi commerciali e imprenditoriali con Tehran, dopo un blocco durato anni causa delle sanzioni lanciate contro l’Iran proprio a causa del suo contestatissimo programma nucleare. Ciò che è stato apprezzato nel discorso del Presidente non sono solo i suoi successi e il suo atteggiamento di dialogo con i cittadini, ma anche il fatto che egli non ha negato l’elenco dei problemi gravissimi che il Paese deve affrontare, quali la disoccupazione, l’inflazione, il tasso d’inquinamento assai critico soprattutto nella capitale, nonché la cronica carenza di benzina e di combustibile, un paradosso in una nazione che dispone di ingenti risorse del sottosuolo. L’economia iraniana rimane estremamente vulnerabile, a causa della sua dipendenza dal petrolio, fattore che rappresenta forse il maggiore fallimento di questi 35 anni di politica, non avendo saputo adeguare le infrastrutture petrolifere.

Rouhani ha chiesto agli iraniani di avere pazienza. E che i problemi non saranno di soluzione immediata è stato sottolineato dal fatto che la trasmissione televisiva è stata ritardata rispetto a quanto programmato (ovvero, boicottata), particolare che il Presidente ha menzionato varie volte nel suo discorso, senza esplicitarne i motivi, ma facendo così capire che i nemici del suo operato sono, in primis, domestici. Il responsabile ultimo della televisione di stato è la Guida Suprema, Khamenei, il quale, vuoi perché il Presidente gli sta rubando la scena, vuoi perché egli è comunque espressione e rappresentante dei falchi locali, potrebbe aver fatto in questo modo intendere il proprio dissenso nei confronti dell’opera di Rouhani. Quest’ultimo, invece, legato alle principali figure moderate del Paese, tanto laiche quanto religiose, sembra ignorare la sfida postagli dai conservatori, contando piuttosto sul supporto della popolazione. Paradossalmente, la Repubblica Islamica ha creato una società “laica” in cui la religione è soprattutto una questione personale, una società giovane che contesta gli ideali rivoluzionari di un tempo, altamente istruita, urbanizzata e tecnologizzata, in cui le donne rappresentano un segmento cruciale, assai diversa da quella di 35 anni fa. Questa società mal sopporta tanto le costrizioni liberticide interne, quanto di essere il bersaglio della “iranofobia” che continua ad essere alimentata soprattutto dai falchi statunitensi; e intravede in Rouhani il leader in grado di traghettare il Paese fuori dall’impasse.

da Giornale di Brescia 10/2/2014

Finanziamenti dal Golfo, cultura, diritti umani, islam e “noi”

qatar-3La notizia che l’emiro del Qatar sarebbe pronto a finanziare l’apertura di un museo di arte islamica a Venezia ha provocato sconcerto, soprattutto in seno a partiti non favorevoli al mondo musulmano in generale, i cui esponenti ravvedono, alla base dell’impresa, non tanto un progetto culturale, quanto un disegno per allargare l’influenza dell’islam in Italia, mascherando questa espansione in abiti artistici. Insomma, il museo costituirebbe, secondo tale visione, una sorta di novello cavallo di Troia che porterebbe l’islam ufficialmente nel cuore del nostro Paese. Altre voci, non solo di politici, accolgono favorevolmente il piano, sottolineando come altre nazioni europee (quali la Francia) abbiano già intrapreso progetti di joint venture artistiche con i paesi del Golfo e come Venezia, con il suo passato di ponte verso il mondo ottomano, ben si presti a divenire la sede per tale opera.

            Al di là delle considerazioni puramente culturali, è ovvio che si tratti di un’operazione politico-economica, i cui protagonisti hanno intenti ben precisi: noi, di avere finanziamenti e rapporti privilegiati con il ricco paese arabo; il Qatar – o, meglio, la sua dirigenza – di avere a disposizione un’ennesima vetrina dove accreditarsi internazionalmente, facendo dimenticare (per chi volesse farlo) i numerosi abusi di diritti umani perpetuati all’interno dei patri confini.

            Certo in questa machiavellica operazione in cui da un lato ci facciamo promotori dei diritti umani internazionali, dall’altro ignoriamo i soprusi compiuti da governi amici (ovvero quelli con cui intratteniamo rapporti economici) non siamo i soli; sotto l’insegna di pecunia non olet, la FIFA ha chiuso gli occhi sugli incredibili prevaricazioni compiute nei riguardi dei lavoratori già da parecchi mesi impiegati (o, meglio, schiavizzati) nelle faraoniche costruzioni destinate a ospitare i mondiali di calcio che si svolgeranno in Qatar nel 2022. Solo recentemente, dopo che, tra gli altri, l’autorevole The Guardian si è lanciato in una campagna di denuncia delle terribili condizioni in cui sono tenuti gli operai provenienti perlopiù dal sud est asiatico che stanno lavorando alle strutture calcistiche qatariane, la FIFA ha richiesto a Doha di dare tangibili prove del miglioramento delle condizioni dei lavoratori migrati. Che la situazione sia particolarmente grave è testimoniato dal fatto che la stessa dirigenza di Doha ha ammesso la morte di 185 operai avvenuta nel 2013 solo nella comunità nepalese; di questo passo, si potrebbe arrivare alle porte dell’evento 2022 collezionando parecchie miglia di vittime del lavoro. Le morti sono causate soprattutto dalle pessime condizioni igienico sanitarie degli alloggiamenti dei lavoratori, veri alveari dal sistema fognario e sanitario pessimi. Gli operai sono costretti a lavorare con turni massacranti, in ambienti spesso caldissimi; ironia della sorte, questi uomini costruiscono stadi avveniristici dove le torride temperature dell’estate 2022 dovrebbero essere mitigate da climatizzatori, lavorando privi di qualsiasi sistema di ventilazione con temperature impossibili.

            Qatar, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo stanno progressivamente comperando istituzioni e imprese nei paesi europei, ospitando, nel contempo, istituzioni e imprese europee nei loro territori, seguendo il basilare principio secondo il quale gli arabi pagano e gli europei si fanno comperare. In questo gioco di mercato, l’islam non c’entra, c’entrano solo la “loro” voglia di egemonia e la “nostra” cupidigia.

 da Giornale di Brescia 7/2/2013