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Egitto alle urne

Gli egiziani tornano alle urne per il ballottaggio che dovrebbe eleggere il nuovo Presidente della Repubblica in un clima di grande incertezza acuito dal recente scioglimento, da parte della Corte Costituzionale, del Parlamento eletto solo qualche mese fa. Questa manovra, tesa  a disfarsi di un’assemblea “troppo” sbilanciata a favore dei fratelli Musulmani e della compagine islamista più estrema (salafita), conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che le forze armate non hanno perso l’appetito per il potere, tanto da aver messo in atto questo colpo di stato incompleto. Se vincitore di queste elezioni dovesse risultare Ahmed Shafiq, loro candidato (Shafiq è un ex generale dell’ aeronautica), le forze armate avrebbero il controllo completo, l’ancient regime sarebbe restaurato e la primavera di piazza Tahrir vanificata.

Contro quest’ipotesi si scagliano tanto gli islamisti quanto i laici, ma, in realtà, alla maggioranza degli egiziani non piace né Ahmed Shafiq (e quanto significherebbe la sua elezione), né il suo oppositore, Muhamed Mursi, candidato dei Fratelli Musulmani. uomo privo di carisma e ubbidiente al Partito che diverrebbe  il rappresentante di un Egitto decisamente sbilanciato verso una piena connotazione “religiosa” del Paese.

Tuttavia, molti laici, ma pure la componente Copta, sembrano preferire, tra i due mali, la soluzione Shafiq; ecco perché anche Mursi ha corteggiato i Copti dichiarando la sua disponibilità a farli partecipi del nuovo corso politico egiziano, e perché ha cercato di ammorbidire alcune posizioni dell’ala più conservatrice dei Fratelli in materia di controllo sulla società, parlando della non necessità di imporre il velo alle donne e dimostrandosi più possibilista dei colleghi di partito nell’apertura politica alle minoranze.

E’ pure vero che i Fratelli scontano la cattiva performance post elettorale e il conseguente scontento della popolazione, compresi i loro votanti, i quali s’illudevano, irrealisticamente, in un rapido miglioramento delle condizioni economico-lavorative del Paese. Molti hanno votato i Fratelli conoscendo il loro grande impegno sociale sul territorio, la loro rete di successo volta ad assicurare assistenza sanitaria e scolastica nelle zone disagiate, il loro rapido intervento a favore dei disoccupati e dei più poveri: ma reggere le sorti del Paese è altra cosa, soprattutto se si hanno le forze armate che remano contro. Ricordiamo che l’esercito controlla la risorsa principale del Paese, ovvero l’agricoltura, ma pure molte industrie nonché i lucrosi insediamenti turistici del Mar Rosso.

D’altro canto, per molti è difficile pure dare il voto a Shafiq, ex membro del partito di Mubarak, correo di tante azioni corrotte in compagnia dell’ex faraone e sospettato, tra l’altro, di aver ordito l’attacco delle “truppe cammellate” che hanno picchiato e ucciso alcuni manifestanti in piazza Tahrir nel gennaio 2011. Ecco perché, ad esempio, gli animatori del Movimento del 6 Aprile, uno dei gruppi di giovani egiziani più attivi nella “primavera”, considera piuttosto un’alleanza con i Fratelli Musulmani, qualora vincesse il loro candidato Mursi, ma esclude la possibilità di venire a patti con Shafiq.

Così, gli egiziani vanno alle urne per scegliere tra Scilla e Cariddi, mentre la vera sconfitta, al momento, è la democrazia, assieme ai suoi seguaci. In più, vi è l’incombente pericolo di nuovi e sanguinosi disordini nelle piazze del Paese, qualsiasi sia il verdetto delle urne.

pubblicato da Giornale di Brescia 17/6/2012

l’eredità della guerra dei 6 giorni

Nella ridda di anniversari ed appuntamenti che si rincorrono nel Medio Oriente in questi ultimi mesi è scivolato via quasi totalmente ignorato dall’attenzione internazionale il 45 anniversario della guerra del 6 giorni, combattuta nel giugno 1967 fra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra. La guerra lampo fruttò a Israele cruciali territori strappati ai tre paesi arabi, fra cui le alture del Golan, in Siria, e aprì una fase di crisi profonda nell’area ancor oggi ben lungi dall’essere risolta.

Al di là delle perdite umane e territoriali, comunque ingenti, la cocente sconfitta comportò uno sconvolgimento socio-politico culturale non solo nei tre paesi arabi coinvolti, ma nell’area islamica tutta. Basti pensare che l’evento bellico è comunemente conosciuto come “an-naksa”, la ricaduta, la sconfitta per antonomasia, in quanto lo shock subito per questa rapida e inaspettata vittoria israeliana si è scolpito per sempre nella memoria storica dei paesi musulmani.

L’Egitto è forse il Paese che più ha scontato, alla lunga scadenza, tale sconfitta: l’Egitto doveva assicurare alla coalizione militare l’impatto della sua formidabile forza aerea, che venne invece annientata dalle forze israeliane già nel primo giorno del conflitto, il 5 giugno 1967. La guerra continuò rapida e impietosa per gli alleati arabi, e già l’8 giugno, per evitare che gli israeliani prendessero pure il controllo sul Canale di Suez, il leader egiziano Nasser dovette accettare la pace imposta dall’ONU e le successive condizioni dei vincitori.

Il 10 giugno, era già tutto finito. Nasser era stato umiliato, e con lui l’intero Paese. Nasser poi presentò le proprie dimissioni, peraltro respinte, ma ormai s’era infranto il sogno dell’intraprendente politico, il suo progetto di pan-arabismo sotto la propria leadership, e, soprattutto, l’idea di uno stato laico vincente. La sconfitta del 1967 ha provocato la sfiducia collettiva nello stato laico, nelle sua declinazione socialista dimostratasi incapace di fronteggiare il nemico, aprendo la strada ad una sempre maggior influenza dei nuovi gruppi islamisti. L’anno precedente la catastrofe, nel 1966, Nasser aveva fatto giustiziare Sayyd Qutb, padre fondatore dei Fratelli Musulmani: la sconfitta da parte di Israele venne quindi interpretata da molti come conseguenza di una deviazione dalla via “religiosa”, ritenuta l’unica possibile per lo sviluppo di un paese ad alata concentrazione musulmana. Molti nazionalisti disillusi abbandonarono le loro convinzioni per abbracciare un “islam politico” le cui derive estremiste minacciano ancor oggi l’incolumità mondiale, in primis quella degli stessi musulmani, principali vittime del terrorismo islamista internazionale. E’ nell’Egitto post 1967, infatti, che ha cominciato la sua opera di predicazione jihadista un allora giovanissimo al-Zawahri, poi fuggito in Asia Centrale dove partecipa al progetto della neonato al-Qaeda.

L’eredità di quei 6 giorni del giugno 1967 è altresì rappresentata dalla massa di sfollati palestinesi che sono ancora rimasti tali; dai territori occupati in Palestina e Giordania; dall’isolamento di Israele e dalla tensione in tutta l’area.

La memoria della guerra dei 6 giorni è presente in molta letteratura in lingua araba, nella cinematografia mediorientale, ma è anche spesso sfruttata da regimi illiberali che con il pretesto di difendere la causa palestinese, cercano di deviare l’attenzione dei propri concittadini dai problemi interni. La guerra dei 6 giorni non può essere cancellata, ma la questione palestinese deve tornare alla ribalta dell’agenda internazionale, ora distratta su altri fronti, perché da ciò dipende la sicurezza di noi tutti.

 pubblicato da Giornale di Brescia, 14/6/2012

E’ mancata Farideh Mashini/درگذشت فریده ماشینی

E’ morta dopo lunga malattia Farideh Mashini, una grande protagonista del movimento femminile in Iran. Già a capo della Commissione Donna del Fronte di Partecipazione, si era battuta per le quote rosa e per una maggiore partecipazione alla politica attiva delle sue connazionali.

Farideh era ricercatrice presso la più antica ONG di Studio e Ricerca delle Donne in Iran, una delle prime istituzioni a sponsorizzare la pubblicazione di uno studio sul Corano in prospettiva femminile e redatto da una donna. Farideh Mashini era convinta assertrice della validità del “femminismo islamico”, l’avevo incontrata anni fa mentre facevo ricerca per il mio libro sull’argomento e mi aveva impressionata per la sua forza e per le sue idee. Mi aveva detto, tra l’altro: “Io sono Musulmana e l’islam predica l’uguaglianza dei sessi, ma vi sono diverse interpretazioni dell’islam. se ci fosse la possibilità di affermare una visione islamica femminista, allora molti dovrebbero smettere di commettere azioni sbagliate in nome dell’islam”.

E’ un lutto per la società civile iraniana e non solo.

Baghdad e nucleare iraniano

Ci riprovano. Il 23 maggio le grandi potenze occidentali si incontrano con i rappresentanti della Repubblica Islamica d’Iran a Baghdad per discutere di nucleare. Dopo il timido risultato di Istanbul nell’aprile scorso che, in sostanza, ha più che altro solo fatto riprendere le trattative in un clima meno teso, questa volta lo scenario si apre con molte novità. Innanzitutto, il cambio di presidenza in Francia può essere ricco di conseguenze: Sarkozy ha sempre usato la linea dura con l’Iran, chiedendo l’inasprimento delle sanzioni e non nascondendo una sua eventuale propensione ad un intervento armato (Libia docet). Ma Hollande sta prendendo le distanze dal suo predecessore e intende perseguire una nuova politica estera. Ciò non significa che Parigi intenda stravolgere la propria posizione nei confronti del nucleare iraniano, ma in questi giorni un ex primo ministro socialista, Michel Rocard, si è recato in Iran per una visita privata, il cui significato non è certo sfuggito alle autorità iraniane, che ora si sentono imbaldanzite dal venir meno di un nemico sullo scacchiere internazionale.

Nel frattempo la Cina, che aveva riluttantemente diminuito le importazioni di greggio iraniano, le ha riprese su vasta scala. Qualche osservatore ha sottolineato che potrebbe trattarsi solo di una ritorsione dovuta all’ospitalità offerta dagli Stati Uniti ad dissidente cinese Chen Guangcheng, ma in realtà il traffico di petrolio dal Golfo Persico verso la Cina è ripreso alacremente già da due mesi, confermando come Beijing sia alleata poco affidabile nel gruppo dei 5+1.

Inoltre, per la coesione del gruppo internazionale “anti nucleare iraniano” la defezione di Putin al summit dei G8 tenutosi nei giorni scorsi a Washington suona come un campanello d’allarme: che la posizione della Russia nei confronti dell’Iran sia sempre stata ambigua è risaputo, ma in questo momento una ritirata di Mosca comprometterebbe la già poco solida unione dei 5+1.

Su tutto, pesa la profonda crisi che sta sconvolgendo alcuni paesi europei per i quali cancellare le entrate di petrolio iraniano significherebbe dover aumentare i prezzi del combustibile, provando ulteriormente le economie e le tasche dei già scontenti contribuenti.

Tutte notizie che non possono che rallegrare Tehran, che, peraltro, ha teso la mano consentendo l’ingresso nel Paese degli ispettori IAEA, capitanati dal generale Amano, la prima spedizione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica che atterra sul suolo iraniano dal 2009, quando l’IAEA era ancora diretta dall’egiziano Baradei, ritenuto troppo “morbido” nei confronti delle pretese iraniane. Amano e i suoi, invece, vogliono risultati concreti, così come auspicano i 5+1 che colloquiano a Baghdad.

Anche Tehran ha un disperato bisogno di riallacciare le relazioni internazionali, soprattutto di poter riacquistare materiale di ricambio per l’aviazione civile e strumentazione medica di qualità, elementi che difettano ormai da troppo tempo sull’altipiano, facendo, tra l’altro, crescere il senso di insicurezza dei cittadini, molti dei quali hanno rinunciato a effettuare voli interni dopo che si è sparsa la voce che le forniture aeree provengono solo da paesi in via di sviluppo e quindi sarebbero inaffidabili.

Ma la trattativa si presenta tutt’altro che facile, poiché entrambe le parti pretendono un primo passo dall’altra, mentre il successo dell’iniziativa è legato solo a una simultanea azione concreta da parte di entrambi i contendenti.

pubblicato in Giornale di Brescia 23/5/2012

Elezioni in Siria, cattiva informazione e cattiva coscienza

I siriani sono arrivati finalmente alle urne, non certo in un clima sereno, visto che il regime continua imperterrito a mietere vittime, mentre gli oppositori hanno dichiarato il boicottaggio di quelle che chiamano «elezioni farsa».
È indubbio che la tornata elettorale sia l’ennesima manovra messa in campo da Bashar al Assad per prendere tempo e allontanare l’attenzione internazionale dalla repressione: le elezioni dovrebbero essere l’essenza della democrazia, ma sappiamo che in realtà non è così e che troppi regimi si mascherano dietro la periodica indizione di elezioni il cui risultato è già deciso in partenza.
Se nel Paese la dirigenza di Assad è ampiamente contestata, a livello internazionale finora ha goduto di una copertura mediatica incerta e partigiana che non vuole riconoscere che la Siria è controllata da una feroce dittatura peggiore, per certi aspetti, di quella di Ben Ali in Tunisia o Mubarak in Egitto. Forse, è proprio il recente risultato elettorale in questi due Paesi che fa tentennare l’opinione internazionale, timorosa che alla caduta del «laico» Assad segua l’insediamento di una compagine islamista che complicherebbe ulteriormente i rapporti tra Occidente e Medio Oriente. Uno degli spauracchi internazionali a difesa di Assad, infatti, è la sua presunta tolleranza per le minoranze: in realtà il presidente non fa che fomentare le divisioni etnico-religioso-comunitarie, politica già perseguita dal padre Hafiz che, dal golpe del ’70, ha prosperato per anni sulla politica del divide et impera. Che gli Assad alawiti abbiano favorito le ricche élite sunnite è risaputo ed è una delle cause di sperequazioni della Siria: la rivolta, infatti, è figlia di 40 anni di lotte che ora assumono anche il sapore della ribellione di poveri agli abbienti, resi tali dalle corrotte politiche degli Assad. Ma neppure la lettura confessionale del conflitto siriano regge: se internamente l’opposizione è trasversale a tutte le comunità, a livello internazionale si rivela pretestuosa. L’appoggio iraniano ad Assad, infatti, non ha connotazioni religiose (gli sciiti duodecimani, variante dello sciismo dell’Iran, sono in Siria meno del 5%), ma solo politiche. Così come l’appoggio saudita agli anti Assad è determinato non dalla volontà di Ryad di proteggere i siriani sunniti, quanto dalla volontà di combattere a distanza contro l’Iran.
La comunità internazionale ha tollerato per troppo tempo gli Assad che da un lato si proponevano come unico Paese mediorientale stabile, mentre destabilizzavano l’Iraq post Saddam, inviando milizie per organizzare atti terroristici; si ergevano a paladini dei Palestinesi, ma li massacravano nei campi profughi; e hanno mietuto migliaia di vittime fra i cittadini, mentre centinaia di migliaia di siriani vivono profughi in Giordania e in Turchia. Dando per scontato il successo del partito Ba’ath Assad si assicurerebbe altri 14 anni di presidenza: resta da calcolare il numero di vittime che ciò potrà provocare.

pubblicato da Giornale di Brescia, 10/5/2012.

Obama in Afghanistan

Obama a sorpresa in Afghanistan, titolano oggi i giornali, ma la sorpresa, in realtà, non c’è. La visita del Presidente americano era già stata rivelata nei giorni scorsi, poi smentita dal Pentagono e quindi effettivamente eseguita. La vicenda è indicativa di come stanno andando le cose in Afghanistan, dove tutti, Taleban compresi, sembrano conoscere la realtà dei fatti, compresi gli spostamenti di Obama, prima ancora che questi vengano annunciati. Nei giorni scorsi è scoppiata una polemica per come l’ISAF, la forza internazionale presente in Afghanistan, manipoli le notizie relative alle operazioni condotte contro i ribelli: il portavoce ISAF, infatti, accredita le forze afghane per ogni successo riportato contro i Taleban, per mostrare che le truppe locali sono in grado di sostenere la lotta da soli, in previsione dell’evacuazione ISAF prevista nel 2014. Secondo molti osservatori internazionali, soprattutto britannici, presenti sul campo, invece, le truppe afghane sono sempre guidate dall’ISAF, e quindi non in grado di agire autonomamente, confermando il parziale fallimento del programma d’istruzione militare intrapreso dieci anni or sono. I britannici, assieme ai norvegesi, hanno un numero consistente di personale impegnato nell’unità speciale afghana in addestramento, e quindi parlano con cognizione di causa.

Obama è giunto per celebrare il primo anniversario dell’uccisione di Osama bin Laden, ma in Afghanistan c’è ancora poco da festeggiare. Intere zone sono sotto il pieno controllo dei Taleban, i quali agiscono pressoché indisturbati anche in aree dove l’ISAF dovrebbe essere in pieno controllo, come nella capitale Kabul nella quale, a smentire clamorosamente Obama, non appena questi è ripartito i ribelli hanno attaccato un albergo che ospita perlopiù cittadini stranieri, uccidendo sei persone.

Nel contempo, domenica scorsa l’Emirato Islamico d’Afghanistan, che raggruppa il contingente più forte ed organizzato della resistenza anti ISAF, ha lanciato un appello ai media internazionale affinché non pubblichino “notizie false”, quali quella che vorrebbe che vi fossero ripetuti e proficui colloqui tra ISAF e Emirato. Anche in questa vicenda, l’ISAF mostra la propria debolezza: da un lato, infatti, nega l’esistenza dell’Emirato, dall’altro, ne riconosce presenza e legittimità investendolo addirittura del ruolo di partner privilegiato in fantomatici colloqui per uscire dall’impasse in cui la forza internazionale si trova invischiata.

I combattenti dell’Emirato hanno già riportato notevoli successi a metà aprile scorso, quando i suoi sono riusciti a tenere sotto scacco una serie di istituzioni proprio a Kabul, dimostrando di essere in grado di colpire dove, quando e come vogliono. Queste loro azioni, condotte nella capitale, dove sono insediati i mass media internazionali, danno loro risonanza e tornano loro utili in termini di acquisizione di prestigio a livello sia internazionale sia locale; se, infatti, le forze ISAF sono costrette a riconoscer la loro forte presenza, molti afghani si stanno avvicinando ai Taleban decretando loro legittimità e consenso.

E così, al summit previsto per il 12 giugno p.v. a Dubai dedicato alla ricostruzione dell’Afghanistan, vi saranno anche i rappresentanti dell’Emirato (che, peraltro, hanno già aperto una loro ambasciata a Doha) a sedersi accanto a quelli dell’ISAF, della NATO e del governo afghano. Dopo oltre 10 anni di guerra, centinai di migliaia di vittime fra civili e militari e una incredibile spesa che grava sui bilanci di molte nazioni, forse ci si poteva aspettare qualcosa di meglio.

 

Pubblicato da Giornale di Brescia 3/5/2012.

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Bahrain, Formula 1, e la pulizia nei confronti degli sciiti

Il Bahrain è un paese “tranquillo e pacifico”: così s’era espresso Bernie Ecclestone, proprietario dei diritti commerciali della Formula Uno, solo la settimana scorsa, annunciando la propria decisione di mandare avanti il carrozzone della miliardaria gara automobilistica nel tormentato Paese del Golfo, nonostante molti osservatori avessero consigliato il contrario.

Ecclestone è stato clamorosamente smentito, e non poteva essere altrimenti: il Bahrain è in fiamme da oltre un anno, anche se la copertura mediatica internazionale latita, confermando che non tutte le rivoluzioni sono gradite e quindi pubblicizzate allo stesso modo. L’altr’anno, per dire il vero, la gara era stata sospesa proprio per motivi di palese insicurezza dovuti alle continue manifestazioni di protesta dei cittadini bahrainiti (35 dei quali uccisi proprio alla vigilia della kermesse automobilistica) e della cruente repressione messa in atto dalla dinastia regnante al Khalifa nei loro confronti. Sono state appunto le autorità di Manama a caldeggiare la ripresa della Formula Uno sul loro territorio, per dimostrare che la situazione era rientrata e loro nuovamente in controllo: ma non è così. Solo la scorsa settimana, un manifestante di 15 anni è morto a seguito dei colpi sparati dalla polizia, ennesima vittima di una guerra che si protrae da troppo tempo fra la società civile e le forze del governo, queste ultime supportate dall’esercito saudita. L’Arabia Saudita, infatti, sta perseguendo una”pulizia etnica” nei confronti degli sciiti presenti sia sul proprio territorio sia in altri paesi del Golfo, e abbina la propria repressione armata con la persuasione, nei confronti delle popolazioni sunnite, di voler perseguire il loro bene ed estirpare la presenza sciita in quanto “quinta colonna” dell’Iran che vorrebbe allungare le mani sul petrolio sunnita. L’unico risultato, per ora, è che la tensione settaria nel Golfo è drammaticamente cresciuta, e che anche gruppi sunniti, contrari alla monarchia dei Sa’ud, incoraggiati dalla proteste sciite si stanno organizzando e manifestando contro il proprio governo. In questo modo, la potenza saudita sta ottenendo proprio l’effetto contrario, quello di far crescere un movimento d’opposizione trasversale (sunniti e sciiti) a possibile beneficio proprio del nemico iraniano.

Anche la forzata manifestazione automobilistica in Bahrain sta producendo l’indesiderato effetto di avere gli occhi dell’opinione pubblica internazionale finalmente rivolti ad abusi e repressione: i Khalifa hanno le prigioni piene di cittadini rei solo di aver manifestato pacificamente contro la loro dittatura; di medici e infermieri, colpevoli di aver medicato i feriti dalle forze governative; e di giornalisti e blogger che hanno documentato quanto accaduto.

Ora, qualcuno tenta di confondere le carte in tavola asserendo che si tratta di manifestazioni anti occidente, ma i bahrainiti non hanno nulla contro l’occidente, avevano solo chiesto di non iniziare una manifestazione sportiva che avrebbe avallato e legittimato un regime del quale essi chiedono la rimozione. Certo, nella sua ultima edizione (2010), la Formula Uno aveva portato cento mila persone a Manama, con un giro d’entrate per la monarchia aggirantisi attorno al mezzo miliardo di dollari: ora, invece, ma solo dopo un ennesimo spargimento di sangue, alcuni parlamentari britannici hanno chiesto la sospensione della gara in quanto legittima le politiche repressive del governo bahrainita.

Questa lodevole iniziativa deve ora continuare, censurando la monarchia di Al Khalifa e richiamandola al rispetto dei propri cittadini.

 

Pubblicato in Giornale di Brescia 24/4/2012.