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ARGO, il film: il pare di un’iranologa

da Spazio critico, rivista di cinema del Comune di Venezia

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/54233

Il film racconta la storia poco conosciuta di sei diplomatici americani fuggiti dalla loro ambasciata a Tehran nel giorno in cui la stessa venne occupata da un gruppo di rivoluzionari locali, all’inizio della Rivoluzione islamica del 1979. Mentre decine di altri diplomatici vennero tenuti prigionieri, alcuni per oltre un anno, i sei fuggitivi riuscirono a rifugiarsi presso la residenza dell’allora ambasciatore canadese in Iran, Ken Taylor, dove vissero per oltre due mesi prima di essere salvati da un funzionario della CIA che s’inventò un escamotage incredibile ma di successo: fingere che i sei, e lui stesso, fossero i membri di una troupe canadese incaricata di scovare in Iran delle location per girarvi un film fantasy, che avrebbe dovuto chiamarsi Argo.

Il film si apre con un riassunto della storia iraniana, in cui ci sono alcune inesattezze, ma che vuol spiegare i perché dell’odio iraniano nei confronti degli Stati Uniti: per questo si riesuma il fantasma del primo ministro Mohammad Mossadeq, che negli anni ’50 aveva nazionalizzato il petrolio, a dispetto delle potenze soprattutto americana e britannica, le quali avevano complottato per riportare sul trono lo shah Pahlavi, garante dei privilegi occidentali, compresi quelli petroliferi.

Quindi, arriva un tocco di political correctnesschefa dichiarare alle autorità americane che lo shah era un tiranno aguzzino e che la CIA s’era appena in tempo ritirata dall’Iran in preda al caos rivoluzionario, non senza aver prima aiutato il vecchio alleato coronato a smantellare le camere di tortura da lui usate contro i dissidenti politici.

Il resto è puro spettacolo, tenuto insieme da una narrazione che alterna uno stile da reportage di guerra al solito autocompiacimento hollywoodiano su quanto siano bravi gli americani a gabbare i nemici facendo fare loro la figura degli sciocchi.

Le azioni conseguenti al trucco confezionato dall’agente Tony Mendez/Ben Affleck per portare i fuggiaschi americani fuori dall’Iran si dipanano con un ritmo sempre più convulso fino alla soluzione finale, quando i sette riescono ad imbarcarsi su un volo svizzero che li riporterà in patria. Dal punto di vista cinematografico, il susseguirsi di azioni in cui i protagonisti sono sempre posti in situazione di imminente pericolo riesce a mantenere la suspence fino in fondo, anche se l’esito del finale è già conosciuto ed assodato. Ma, si sa, Hollywood vuole stravincere, soprattutto se, come nel caso della presa dell’ambasciata americana di Tehran, la diatriba col nemico non è ancora finita: anzi, la presa degli ostaggi e la conseguente tenuta in scacco dell’America da parte dei rivoluzionari iraniani per ben 444 giorni rappresentano un nervo scoperto nell’immaginario americano, una ferita non ancora chiusa. Ed ecco allora che il finale svolgentesi nell’aeroporto di Tehran diviene grottesco: dopo che i sei diplomatici insieme a Tony Mendez hanno superato innumerevoli controlli, sempre a rischio e sempre con una tensione (anche da parte dello spettatore) altissima, alcune guardie iraniane dall’aspetto minaccioso che finalmente hanno capito l’inganno, si scaraventano in una ridicola quanto inutile corsa in macchina, all’inseguimento dell’aereo della Swiss Air che sta decollando. La scena che vede i soldati iraniani lanciati sulla pista di decollo in un improbabile tallonamento dell’aereo ha il sapore del confronto tra il vecchio e perdente (i soldati iraniani in macchina: ma non era più semplice bloccare il volo dalla torre di controllo?!) e il nuovo e vincente (l’aereo svizzero) e dura qualche sequenza di troppo.

Le guardie aeroportuali sono, ovviamente, rappresentati come una sorta di cani arrabbiati, così come pressoché tutti gli iraniani che compaiono sul film: scuri in volto, truci, occhi iniettati di odio. Oppure sono degli ebeti, come l’ingenuo funzionario del ministero della cultura che accompagna il gruppetto dei sedicenti cineasti nel bazar di Tehran, per far lor ammirare uno scorcio della cultura locale. Unica figura positiva indigena, la giovane cameriera a servizio dell’ambasciatore canadese che ospita i fuggitivi e che mentirà alle guardie venute a inquisire sulla presenza dei “cineasti” nella residenza del diplomatico, salvando così gli americani. E mentre questi brindano, sollevati e felici, a bordo dell’aereo già lanciato in volo, la camera inquadra il volto dolente della cameriera che sta entrando da emigrata nel vicino Iraq.

 Anna Vanzan

 

 

crisi egiziana

Nel ritratto fornito dai media internazionali della crisi egiziana in atto prevale la descrizione di un Paese diviso tra islamisti (Fratelli Musulmani e salafisti) da un lato e opposizione laica dall’altro. Quest’ultima, formata da gruppuscoli liberali, minoranze religiose e sociali, starebbe lottando contro l’estensione di potere che il Presidente Morsi ha proclamato per se stesso e contro la bozza di costituzione che porterebbe all’imposizione di un modello statale religioso.

Certo è che una parte degli egiziani sta protestando contro il ruolo dittatoriale che Morsi si sta ricavando; meno certa è questa apparente dicotomia tra “religiosi” che vogliono l’implementazione della shari’a e laici che la rifiutano. Vediamo innanzitutto i termini della costituzione: nella nuova bozza i riferimenti alla legge islamica sono menzionati solo negli articoli 2 e 219. L’art 2, che esiste fin dai tempi di Sadat, prevede che i principi della legge islamica siano le fonti principali della costituzione. Mentre i salafiti hanno protestato, chiedendo che l’art 2 preveda la shari’a quale unica fonte, gli altri gruppi, compresi laici e cristiani, non hanno avuto nulla da eccepire al mantenimento dell’art 2 così com’è ora. Nonostante la mediazione qualificata (da punto di vista religioso) dell’imam della moschea di al Azhar, su questo punto non si è riusciti a trovare l’accordo, e così vari membri del Comitato per la Costituzione, fra cui il candidato perdente alla presidenza, Amr Mousa, e leader di partiti laici hanno ritirato il loro appoggio alla bozza, chiedendo, al contempo, di rivedere pure il ruolo di alcune istituzioni statali quali la magistratura e l’esercito.

Tale ritiro era inteso a far fallire l’appuntamento per il licenziamento della bozza della costituzione previsto per il 12 dicembre, con il conseguente obbligo da parte di Morsi di rinominare nuovi  esperti e re iniziare il procedimento da capo: un vero colpo per Morsi, già accusato di non aver realizzato nessuno degli obiettivi promessi durante i primi cento giorni di presidenza.

I partiti laici non si sono lanciati in richieste di separazione tra religione e stato, né nelle piazze gremite di manifestanti “anti-Morsi” si sono uditi slogan di richiesta di “secolarizzazione”: anche perché le opposizioni laiche stanno bene attente a non lasciare la fiaccola dell’islam nelle mani esclusive dei Fratelli Musulmani in un Paese in cui l’identità musulmana è comunque condivisa dalla stragrande maggioranza.

La crisi egiziana è squisitamente politica: i Fratelli Musulmani si stanno ponendo come unici arbitri del Paese, convinti che il successo ottenuto alle elezioni garantisca loro un governo incondizionato che non tenga conto dell’opposizione. Ma quest’ultima ha dimostrato di poter continuare a riempire le piazze di migliaia di dimostranti, segno che i Fratelli non hanno una maggioranza definitiva, così come bisogna ricordare che Morsi è stato eletto con una risicata maggioranza del 51% dei voti: l’”islam politico” non è quindi così prevalente come si vorrebbe far pensare, solo più prevaricatore. E’ contro questo modello autoritario imposto dai Fratelli e da Morsi che le opposizioni si stanno organizzando. Per uscire dalla crisi, l’Egitto ha anche bisogno di uscire dalla pretestuosa dicotomia tra “islamisti” e “laici”, ripensando invece a costruire una democrazia che rifletta le diversità politiche del Paese.

da Giornale di Brescia 12/12/2012.

Musulmani e cristiani in Nigeria

In Nigeria, come in molti paesi africani, ci sono questioni politiche, economiche e sociali che determinano uno stato di perenne tensione tra vari gruppi etnici e /o religiosi, quali la carenza di risorse, l’iniqua distribuzione della ricchezza e le tensioni inter comunali. Semplificare ciò che sta accadendo e rappresentare la violenza in Nigeria come una guerra di religione non serve a chiarire la situazione.

Gli attacchi da parte di musulmani contro i cristiani ottiene in occidente grande attenzione, ma la realtà è che la violenza è effettuata dai membri di tutti i gruppi. E gli estremisti islamici del gruppoBoko Haram, ora principali responsabili delle violenti azioni contro i cristiani, hanno esordito terrorizzando per anni i loro correligionari nelle stesse province nigeriane.

Como lo stesso vescovo di Sokoto ha avuto occasione di dichiarare, la dicotomia tra benestanti cristiani nel sud e poveri musulmani nel nord Nigeria è fuorviante, se non altro perché vi sono milioni di cristiani che vivono anche a nord del Paese, ma, soprattutto, in quanto implica che il conflitto nord/sud e cristiani/musulmani sia inevitabile. Vi sono gruppi nigeriani inter religiosi che lavorano per la pace e la composizione del conflitto, ma altri sono gli elementi che remano contro ogni processo di riappacificazione.

Nonostante il suo Presidente, Jonathan, abbia recentemente proclamato che la Nigeria è il secondo paese africano che con successo sta combattendo contro la corruzione, i nigeriani sono di tutt’altro avviso, e individuano proprio nella corruzione dei politici e della polizia la principale causa del degenerarsi della situazione. In un Paese ricchissimo di risorse naturali, che pompa oltre due milioni di barili di petrolio al giorno, l’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e il sistema fiscale esige dai poveri molto più di quanto non richieda ai benestanti. Fra questi ultimi vi sono gli imprenditori, i quali, secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, pagano regolari tangenti a pubblici ufficiali. E così, nonostante, sempre secondo il parere della Banca Mondiale, la Nigeria rappresenti il miglior contesto africano per gli investimenti, costituendo la seconda economia e il principale mercato del continente con i suoi quasi 160 milioni di abitanti, per la maggioranza dei nigeriani le prospettive di vita sono assai misere. Gli 80 milioni di musulmani appartengono allo strato maggiormente discriminato ed è al loro senso di emarginazione politica ed economica cui fanno appello gli estremisti.

Per molti musulmani e cristiani lo spauracchio della guerra di religione è agitato dal governo per giustificare, ad esempio, ingenti somme destinate alla sicurezza (il 20% del bilancio annuale, assai più di quanto non venga impiegato per il programma di educazione primaria), nonché lo stato di coprifuoco nelle zone a maggior rischio, con il risultato, però, di perseguire i propri avversai politici più che non conseguire positivi risultati nella lotta contro il terrore.

Eppure, la soluzione è forse più semplice di quanto non appaia. Tre anni fa, l’amnistia concessa a chi deponeva le armi aveva portato a un periodo di pace, grazie anche ai benefit economici offerti ai “redenti”. Boko Haram e altre frange minori vogliono probabilmente solo entrare nel programma di aiuti e mettersi in evidenza come coloro i quali contribuiscono a far appianare le sperequazioni economiche a danno dei musulmani. Forse, vale la pena di esplorare questa strada, prima che il conflitto s’aggravi ulteriormente.

da Giornale di Brescia 6/12/2012

Tempi duri in Iran

Per ora, le armi tacciono, ma il risultato di quest’ennesimo combattimento tra Israele e Palestina lascia inevitabili conseguenze, tra le quali l’ulteriore isolamento di Israele e la devastazione, morale e fisica, di Gaza.

Ma se, come è stato da più fonti ipotizzato, da parte di Israele quest’operazione è stata una sorta di avvertimento nei confronti dell’Iran non ci resta che temere il peggio. Anche se, paradossalmente, nella Repubblica Islamica d’Iran si respira un’aria quasi di vittoria: dopo mesi di accuse per l’appoggio fornito da Tehran al sanguinario alleato Assad, che brutalmente uccide i suoi cittadini a migliaia, l’Iran può di nuovo comparire sulla scena mediorientale come il difensore di musulmani innocenti, ovvero dei palestinesi. Ecco perché le autorità militari iraniane si sono affrettate a confermare che i missili in dotazione a Hamas sono stati fabbricati grazie al know how da loro fornito; mentre il portavoce del parlamento, Ali Larijani, ha dichiarato che il suo Paese è fiero di aiutare i palestinesi, lasciati soli dalle nazioni arabe.

Queste esternazioni iraniane appaiono, però, autolesioniste se affiancate a tutti i messaggi che personalità di spicco dell’establishment di Tehran stanno lanciando nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto dopo la conferma di Obama alla presidenza: dall’attuale Presidente Ahmadinejad al suo predecessore Rafsanjani, dal capo della commissione per la sicurezza nazionale allo stesso Larijani, tutti hanno rilasciato dichiarazioni sulla necessità di comporre la diatriba sul nucleare ricorrendo a negoziati diretti con gli Stati Uniti.

Nonostante la sicurezza ostentata dal regime iraniano sul futuro dell’economia locale, il Paese ha un disperato bisogno che le sanzioni vengano alleggerite quanto prima. Medici e associazioni umanitarie iraniani stanno da tempo cercando di attirare l’attenzione sugli scaffali vuoti di farmacie e ambulatori nell’intero Paese, da dove ormai mancano pure i farmaci “salva vita” di fabbricazione estera, mettendo in pericolo più di sei milioni di cittadini. Il mese scorso, tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea hanno dichiarato di aver depennato molti farmaci dalla lista dei beni non commerciabili con l’Iran, ma c’è un altro problema: la paurosa inflazione di cui l’Iran è protagonista rende impossibile ai più l’acquisto anche di beni di prima necessità. Il calo di produzione (ed esportazione) del petrolio ha vuotato le casse dello stato, mentre la moneta locale è collassata.

Restrizioni e privazioni rendono nervose le autorità, scatenandole le une contro le altre, perlomeno a parole: il Ministro della Sanità, ad esempio, ha accusato la Banca Centrale per non aver messo a disposizione un budget adeguato per acquisire farmaci e strumenti dall’estero.

Sempre a parole, anche il Presidente Obama ha sottolineato la volontà di risolvere la situazione iraniana con la diplomazia: ma accetteranno le autorità iraniane le proposte internazionali? Sapranno mettere da parte le proprie ambizioni personali per il bene del Paese? Nell’estate 1988, allorché l’Iran fu costretto a firmare l’armistizio con l’Iraq, l’allora capo di Stato, ayatollah Khomeini, disse che quella pace era come “bere un calice di veleno”. Ora più che mai è necessario che il regime di Tehran s’adegui alla realpolitik, anche pretendendo di essere costretto a rinunciare alle proprie ambizioni per il bene del popolo, e beva il famoso calice.

 

 pubblicato da Giornale di Brescia, 24/11/2012

Noi e l’Afghanistan: è sempre scontro di civiltà?

Ieri sera, al Candiani di Mestre, si è presentato il documentario di Razi e Soheila Mohebi Afghanistan 2014 un realistico, amaro, quasi spietato ritratto di come le potenze internazionali stanno affrontando la situazione afghana.

Al termine, un interessante dibattito condotto soprattutto grazie alla bravura di Soheila Mohebi, in difficoltà solo quando alcuni spettatori le hanno chiesto quanto ci vorrà perchè l’Afghanistan diventi una nazione…. Soheila ha provato a spiegare che le categorie occidentali non funzionano ovunque, e che l’Afghanistan è la prova evidente di questa impossibilità di traslare istituzioni e concetti che magari funzionano nel contesto occidentale come fossero universali…niente da fare, in quel momento è scattata l’incomprensione tra il pubblico e la cineasta.

E’ possibile essere ancora convinti che tutto ciò che è “made in the West” possa essere esportato come fosse un paio di scarpe italiane o uno spumante francese?

Morire per Kabul

E’ morto un altro nostro connazionale sulla difficile strada che porta alla pacificazione dell’Afghanistan, il 52° soldato da quando la missione italiana affianca quella internazionale fra le montagne del Centrasia. L’alpino Tiziano Chierotti è stato ucciso al culmine dell’escalation di attacchi ai soldati della Forza Internazionale impegnata da oltre dieci anni ad estirpare i covi del terrorismo internazionale e a consentire a circa 30 milioni di afgani di poter vivere in pace. Un intervento certo necessario, ma se consideriamo che dal 2001 sono morti circa 2800 soldati della Forza Internazionale (per non parlare delle migliaia di civili afgani colpiti dal “fuoco amico” e/o dai Talebani), sono più che comprensibili le voci che da più Paesi (Italia in testa) si alzano a invocare la fine della missione.

Qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare. Ad esempio, vi è una palese conflittualità tra forze dell’ordine (polizia e esercito) addestrate dalla FI e i poliziotti/militari afghani, una conflittualità dettata dall’incomprensione spesso dimostrata dagli occidentali nei riguardi di usi e costumi locali, e che in più di una occasione ha spinto le forze afghane ad attaccare gli alleati. Solo recentemente la FI si è risolta ad addestrare i propri soldati non solo alla conoscenza del terreno afghano, ma pure nella lingua e negli usi e costumi locali, ciononostante la preparazione risulta sovente frettolosa e inadeguata. I militari della FI rischiano troppo spesso infrangere codici non scritti, divenendo vittime della loro conoscenza inadeguata e alienandosi la popolazione locale, sempre più scettica sull’utilità della presenza internazionale.

Eppure, dieci anni fa l’Afghanistan mancava di istituzioni democratiche elementari che sono state ristabilite grazie alla presenza internazionale, e ci sono molti afghani che paventano il 2014, anno in cui la FI dovrebbe ritirare le truppe: l’impegno “civile” dei Paesi ora coinvolti militarmente e garantito anche dopo il ritiro delle truppe basterà a salvare l’Afghanistan dal collasso?

In molte zone del Paese la società civile continua ad essere terrorizzata dal Taleban; scaramucce con l’esercito pakistano sono all’ordine del giorno presso i confini; la crescita economica ha subito un brusco arresto causa la siccità che ha colpito il Paese nella scorsa stagione e molti agricoltori sono soggetti al ricatto talebano che impone loro di coltivare oppio per supplire la produzione agricola (e foraggiare così gli stessi Taleban). A tutto ciò si aggiunge un altalenante conduzione del Paese, con il Presidente Karzai sempre pronto a stendere la mano verso i donatori internazionali, ma riluttante a mettere in opera le richieste riforme istituzionali finalizzate a combattere la corruzione e a garantire il rispetto dei diritti umani.

Altro problema cruciale è la cronica mancanza di coordinamento tra donatori e leadership locale, una lacuna che vanifica l’intervento dei donatori. Un esempio tra i tanti: nel 2009 Karzai ha inaugurato un ospedale modello nella capitale Kabul offerto da un costruttore cinese, ma la struttura sanitaria non ha mai aperto, perché il governo afghano non è in grado di farla funzionare.

Urge una nuova strategia della FI per uscire dall’impasse, ridando fiducia alla società civile afghana e un senso al sacrificio di tanti nostri connazionali.

da Giornale di Brescia 28/10/2012

Morsi: Ikwanizzazione dell’Egitto?

Dopo mesi, gli egiziani sono tornati in piazza, sostanzialmente per protestare contro la bozza della nuova Costituzione che sembra non tenere in debito conto i diritti delle minoranze religiose e di donne e bambini, mentre di fatto rafforza il ruolo della religione (islamica) nella politica e nella vita pubblica.

La contestazione nei riguardi della commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione non è certo scoppiata in questi giorni, in quanto da tempo gli egiziani ne lamentavano la scarsa trasparenza e il peso eccessivo dei suoi componenti “religiosi”, sproporzionatamente maggioritari rispetto agli altri. Così, le accuse alla commissione costituzionale vanno a sommarsi a quelle più generalmente rivolte al Presidente Morsi, giunto al giro di boa dei primi cento giorni al potere: e l’addebito principale contestato al Presidente è la sua volontà di ridurre l’Egitto al completo controllo dei Fratelli Musulmani, di cui Morsi è esponente ed espressione. Secondo i suoi detrattori, Morsi, privo di alcuna esperienza politica, sarebbe pilotato dalla Fratellanza alla quale sta assoggettando le principali cariche del Paese. Forte degli immensi poteri garantiti al Presidente della Repubblica dai tempi di Mubarak, Morsi ha investito delle massime cariche statali membri dei Fratelli Musulmani o, in alternativa, ha nominato personaggi che non intendono sbarrarne la strada al potere assoluto: sarebbe il caso di Al Sisi, scelto quale capo delle Forze Armate, unica istituzione in grado di rappresentare un degno contraltare ai Fratelli, un militare che non pare volersi mettere in rotta di collisione con la nuova dirigenza. Se, da un lato, l’opinione pubblica approva il ridimensionamento dell’esercito, il braccio destro della repressione del defunto regime, dall’altro non può che essere preoccupata dall’indebolimento dell’unica vera forza d’opposizione allo strapotere dei Fratelli Musulmani.

Altro elemento di forte preoccupazione per il cammino democratico del Paese è la stretta data dal nuovo governo alla stampa: dopo un incontro avvenuto la scorsa estate in cui Morsi ha annunciato all’associazione giornalisti che la loro opera verrà sottoposta al controllo della shura (l’organismo parlamentare in cui i Fratelli Musulmani detengono la maggioranza), sono cadute le speranze che il nuovo corso egiziano liberasse l’informazione dalla censura. E l’immediato oscuramento di un canale satellitare e l’accusa ad alcuni giornalisti di diffamazione nei confronti del Presidente hanno rafforzato l’idea che la censura di Mubarak si sia trasformata nella censura di Morsi.

Paradossalmente, Morsi subisce le accuse non solo da parte degli egiziani laici o che comunque non sono in accordo con la politica dei Fratelli Musulmani, ma pure quelle delle frange religiose estreme come quella salafita, che preme per una maggiore “islamizzazione” del Paese. Così, Morsi e i Fratelli sono costretti a promuoversi come un modello alternativo tanto agli uni quanto agli altri, onde sottolineare la propria peculiarità. I Fratelli minacciano la secolarizzazione dell’Egitto per differenziarsi dai “laici” dell’epoca Mubarak, ma, al contempo, in contrasto con i salafiti, debbono tener fede al loro impegno di provare come l’etica religiosa (islamica) sia compatibile coi principi della democrazia.

Il compito di Morsi e dei Fratelli è assai arduo e la transizione dell’Egitto ancora lunga e piena di insidie. 

pubblicato da Giornale di Brescia 20/10/2012

Bazar in fermento a Tehran

Gli iraniani sono di nuovo in piazza e questa volta non si tratta di studenti che protestano in nome della libertà, ma di commercianti che non sanno più come prezzare le merci, visto che la moneta nazionale, il rial, ha perduto, solo nell’ultima settimana, il 40% del suo valore contro il dollaro. La serrata del bazar di Tehran avvenuta qualche giorno fa è particolarmente grave, in quanto l’immenso dedalo di negozi d’ogni tipo che si trova nel quartiere sud della capitale non solo è il vero cuore pulsante dell’economia nazionale, ma costituisce altresì, da secoli, il barometro del rapporto tra stato e cittadini. Storicamente, i commercianti del bazar, o bazari, hanno dato il via alle proteste più cruciali compresa, per rammentare solo la più rilevante avvenuta nel vicino passato, quella che ha decretato la fine della monarchia e l’avvento della Repubblica Islamica a fine anni ’70.

Ora, fra gli slogan echeggianti nel corteo di bazari, spiccavano quelli indirizzati contro il Presidente Ahmadinejad, accusato di aver ridotto l’economia iraniana ai minimi termini: ciò potrebbe essere una buona notizia per la Guida Suprema Khamenei che mira a togliere di mezzo il Presidente della repubblica prima della scadenza del suo mandato (giugno 2013). Ma i bazari scandivano slogan anche contro l’aiuto fornito al regime siriano, aiuto fornito col beneplacito dell’intero establishment, Khamenei incluso.

La protesta del bazar è quindi una protesta che investe tutta la dirigenza, e parrebbe segnare il primo grande successo delle sanzioni che stanno strangolando l’Iran: dopo molti mesi di scontento per l’inflazione spaventosa, l’aumento insostenibile del costo della vita e la disoccupazione galoppante (ormai al 25%), la gente scende in piazza contro il regime, chiedendo, inoltre, di investire localmente le risorse ora impiegate per aiutare Assad a rimanere in sella. Ma vi potrebbe essere presto anche un altro risvolto auspicato dai governi internazionali, ovvero la necessità di scendere a compromesso sulla questione nucleare: l’avventura dell’arricchimento dell’uranio è estremamente dispendiosa e se fino ad ora ha avuto comunque l’approvazione dell’opinione pubblica, in questo momento di difficoltà la gente potrebbe cambiare idea. Al regime serve solo un pretesto per ridimensionare le proprie aspettative nucleari e certamente una protesta popolare contro il nucleare offrirebbe l’opportunità di negoziare in nome del “bene pubblico”, senza perdere la faccia.

Va tutto per il meglio, quindi? Forse. Non bisogna infatti dimenticare che le autorità iraniane combattono una guerra di propaganda contro Stati Uniti e alleati accusati di essere la causa principale della collassata economia. Anche il giorno dopo la serrata del bazar, Ahmadinejad è comparso in televisione, per tranquillizzare i connazionali e sottolineare come la debacle del rial sia dovuta alle sanzioni che impediscono le esportazioni del petrolio. Se lo scontento popolare nei confronti del regime è palpabile, lo è altrettanto l’aumentante odio nei confronti dell’occidente ritenuto responsabile di strangolare nella morsa economica non tanto il regime quanto la popolazione senza colpe.

Inoltre, prima di dare per sconfitta la dirigenza di Tehran, bisogna mettere in conto i possibili colpi di coda: se la valuta nazionale va malissimo, in compenso la borsa regge egregiamente e il Paese è preso d’assalto da investitori russi e cinesi.

Con le dovute differenze, il regime di Tehran sembra sempre più assomigliare a quello di Damasco: entrambi con un piede sulla fossa, entrambi entrati in una agonia senza fine che, al momento, va a discapito solo dei loro innocenti cittadini.

 da Giornale di Brescia 7/10/2012